Verso un nuovo regolamento europeo sui rimpatri: tra le novità, il nodo dei return hubs

L’11 marzo 2025 la Commissione europea ha presentato una proposta di regolamento volta a stabilire un «sistema comune per il rimpatrio dei cittadini di Paesi terzi il cui soggiorno nell’Unione è irregolare». Nelle intenzioni della Commissione, la proposta mira a una «gestione efficace dei rimpatri in tutti gli Stati membri», grazie alla introduzione di «norme chiare, semplificate e comuni».
Tra le novità vi è la creazione di un sistema comune europeo per i rimpatri caratterizzato da procedure comuni, dal mutuo riconoscimento delle decisioni di rimpatrio tra i Paesi membri, da un nuovo ordine europeo di rimpatrio nonché dalla possibilità di rimpatriare i cittadini stranieri irregolari verso un Paese terzo con il quale siano stati stretti accordi a tal fine (i cd. return hubs).
Se la proposta supererà il vaglio del Parlamento e del Consiglio, andrà a sostituire la direttiva 2008/115/UE (cd. direttiva rimpatri) che attualmente disciplina la materia.

Già lo scorso luglio, nelle Political Guidelines 2024-2029, la Presidente von der Leyen aveva annunciato l’intenzione di proporre un nuovo approccio comune in materia di rimpatrio, con un quadro normativo ispirato alla accelerazione e semplificazione dei processi. Tale visione si poneva in linea con l’esigenza, in più occasioni rimarcata dal Consiglio europeo, di una politica unificata, globale ed efficace in materia di rimpatrio e riammissione, da ultimo confluita nella richiesta dell’ottobre 2024 alla Commissione di presentare con urgenza una nuova proposta legislativa sui rimpatri. L’istituzione di un sistema comune ed efficace di rimpatrio a livello UE, infatti, rappresenta un pilastro centrale del Patto su Migrazione e Asilo, adottato lo scorso anno e destinato a trovare applicazione dal giugno 2026.
L’efficientamento dei rimpatri, per vero, non è un problema nuovo per l’Unione. Il sistema attuale, fondato sulla direttiva 2008/115/UE, sin dalla sua adozione, aveva l’obiettivo di creare, a livello europeo, una politica di rimpatrio coordinata. Tuttavia il tasso di rimpatrio nell’UE (la percentuale di cittadini di Paesi terzi rimpatriati dopo aver ricevuto un ordine di rimpatrio rispetto al numero totale di decisioni di allontanamento emesse  nello stesso periodo di riferimento) era del 23% nel 2021, nel 2022 è sceso al 19% prima di risalire lentamente al 23% nel 2023. Nel complesso, i bassi tassi di rimpatrio riflettono le difficoltà che le autorità nazionali incontrano nell’attuazione delle decisioni di rimpatrio.

Già nel 2017, quindi, la Commissione aveva attivamente cercato di migliorare l’efficacia dei rimpatri attraverso alcune raccomandazioni (una del 2017 e una del 2023), nonché con la Strategia dell’UE per il Rimpatrio Volontario e la Reintegrazione del 2021.
La riforma delle norme sui rimpatri è considerata una priorità politica almeno a far data dal 2018, quando la Commissione ha presentato una prima proposta per la rifusione della Direttiva Rimpatri volta, inter alia, a introdurre una nuova procedura di frontiera in caso di diniego della domanda di protezione internazionale e a obbligare gli Stati membri a prevedere procedure comuni sui ricorsi contro le decisioni di rimpatrio, a rafforzare programmi di rimpatrio volontario e a cooperare nelle relative procedure. All’indomani delle elezioni del Parlamento Europeo del 2019, i lavori di revisione della direttiva erano ripresi nell’ambito della complessiva riforma del Patto europeo sull’immigrazione e l’asilo; la proposta di rifusione, tuttavia, non è stata accolta in maniera positiva dal Parlamento europeo (Risoluzione del 17 dicembre 2020, sull’attuazione della direttiva rimpatri, 2019/2208(INI)) il quale, attraverso l’elaborazione di una valutazione d’impatto chiesta dalla Commissione per le libertà civili, la giustizia e gli affari interni (LIBE), ha rilevato «la mancanza di prove a sostegno dell’assunto che la proposta di rifusione determinerebbe rimpatri più efficaci» nonché il rischio di costi notevoli per gli Stati membri e un maggiore ricorso al trattenimento dei migranti [M. Lanotte, 2024].

Il tentativo di rifusione della direttiva rimpatri mirava ad aumentare, in tempi brevi, il numero dei rimpatri, a discapito dei diritti fondamentali dei migranti coinvolti. Si tratta di finalità presenti anche nel Nuovo Patto e, in particolare, nel Regolamento sulla Procedura di Rimpatrio alle Frontiere del 2024. Quest’ultimo, in particolare, completa la visione sottesa alla riforma impedendo l’ingresso di chi non abbia il diritto di entrare nella UE: tra le altre disposizioni, si prevede che a seguito di una decisione negativa all’esito delle procedure di frontiera sulla protezione internazionale il cittadino straniero non sia autorizzato a entrare nel territorio dello Stato membro interessato e debba invece “soggiornare” per un periodo massimo di dodici settimane in un luogo sito presso la frontiera esterna o in prossimità della stessa ovvero in una zona di transito (art. 4, par. 1). Luoghi presso i quali lo stesso potrà continuare a essere trattenuto anche durante la preparazione del rimpatrio (art. 5, par. 1).

L’odierna proposta di regolamento presentata della Commissione – che va a sostituire in toto la precedente proposta di rifusione della Direttiva Rimpatri – costituisce dunque l’ultima tappa di un lungo e articolato processo che ormai da anni coinvolge la materia dei rimpatri a livello europeo.

Nell’argomentare le ragioni a sostegno della propria proposta, la Commissione evidenzia che, attualmente, l’esistenza di 27 diversi sistemi nazionali di rimpatrio, ciascuno con le proprie procedure e approcci, compromette l’efficacia dei rimpatri a livello dell’Unione, tanto che solo il 20% dei cittadini di paesi terzi destinatari di un ordine di rimpatrio lascia effettivamente il territorio dell’Unione: la maggioranza dei destinatari di tali ordini sfuggono alle autorità, spesso spostandosi in altri Stati membri. La permanenza nell’UE di persone prive del diritto di soggiorno, afferma la Commissione, «mina l’intero sistema migratorio e di asilo, risultando ingiusta per coloro che rispettano le regole, ostacolando gli sforzi dell’Europa nell’attrarre e trattenere talenti e, in ultima analisi, erodendo il sostegno pubblico a società aperte e tolleranti».

Secondo la Commissione questa sostanziale inefficienza è dovuta ad alcune caratteristiche della formulazione della Direttiva del 2008, divenuta inadeguata rispetto al contesto attuale. In particolare, la proposta evidenzia l’eccessivo margine di discrezionalità lasciato agli Stati membri nell’attuazione e nella interpretazione delle norme UE; l’assenza di conseguenze per la scarsa collaborazione dei cittadini di paesi terzi (che possono resistere, fuggire o ostacolare in altro modo le procedure di rimpatrio) e per il trasferimento in un altro Stato membro in pendenza di un ordine di rimpatrio; l’assenza di un meccanismo strutturato per individuare e accelerare il rimpatrio di cittadini di paesi terzi che rappresentano un rischio per la sicurezza; nonché la presenza di significative differenze tra gli Stati membri nelle procedure di riammissione, con impatti diretti sulla coerenza dell’approccio dell’UE nei confronti dei paesi terzi.

La proposta di regolamento comune comprende 52 articoli, suddivisi in nove capitoli.

Tra le novità più rilevanti rispetto alla “ormai obsoleta” direttiva del 2008 si segnala il nuovo sistema di riconoscimento reciproco delle decisioni di rimpatrio, che consentirà a uno Stato membro di eseguire direttamente una decisione di rimpatrio emessa da un altro Stato membro, senza dover avviare un nuovo procedimento (art. 9). A tal fine, la proposta prevede la creazione di un “ordine di rimpatrio europeo” (il cd. European Return Order, ERO descritto all’art. 7, par. 7) in forza del quale gli Stati membri, pur conservando la propria competenza sulle decisioni di rimpatrio, dovranno inserire in un apposito modulo (form) gli elementi essenziali della decisione di rimpatrio, che saranno così resi accessibili agli altri Stati tramite il Sistema d’informazione Schengen (SIS). In questo modo, se uno straniero attinto da un ordine di rimpatrio in un Paese europeo si sposta in un altro Paese membro, quest’ultimo dovrà riconoscere la decisione di rimpatrio emessa dal primo paese e procedere con il rimpatrio. Se in un primo momento, l’applicazione diretta di una decisione di rimpatrio emessa da un altro Paese UE sarà volontaria, successivamente si prevede che la Commissione valuti la predisposizione di meccanismi adeguati all’effettiva gestione dei nuovi ordini europei di rimpatrio da parte degli Stati membri e adotti gli strumenti necessari per rendere obbligatorio il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni di rimpatrio emesse da un altro Stato membro.

La proposta impone poi un obbligo esplicito in capo allo straniero espellendo di cooperare con le autorità nazionali durante l’intera procedura di rimpatrio, prevedendo conseguenze precise in caso di mancata collaborazione, come la riduzione o il rifiuto di sussidi/indennità o il sequestro dei documenti di viaggio. Inoltre, il rimpatrio forzato sarà obbligatorio nei confronti dello straniero illegalmente soggiornante che non collabora, fugge in un altro Stato membro, non lascia il territorio dell’UE entro il termine stabilito per la partenza volontaria o rappresenta un rischio per la sicurezza.

Gli accordi di riammissione con i Paesi terzi diventano “parte del processo di rimpatrio” e le nuove norme stabiliscono una procedura comune per garantire che ogni decisione di rimpatrio sia seguita da una richiesta di riammissione e, quindi, da un ritorno effettivo nel Paese.

Tra gli interventi più incisivi sulla libertà personale degli stranieri, si segnala il rafforzamento degli strumenti a disposizione degli gli Stati membri per localizzare i destinatari di un provvedimento di rimpatrio, con la possibilità di richiedere una garanzia finanziaria, l’obbligo di presentarsi regolarmente alle autorità, la residenza in un luogo designato ovvero l’utilizzo di forme di monitoraggio elettronico. Sul fronte del trattenimento amministrativo pre-espulsivo (art. 29), la proposta espande i casi di trattenimento ed estende la durata massima della detenzione, che passa da 18 a 24 mesi; l’effetto sospensivo delle decisioni di rimpatrio cessa di essere automatico, salvo nei casi in cui siano coinvolti aspetti relativi al principio di non-refoulement.

 

La novità più dibattuta e controversa riguarda la possibilità, prevista dall’art. 17 della proposta, di condurre cittadini stranieri destinatari di un provvedimento di rimpatrio verso un paese terzo con cui esiste un accordo o un’intesa per il rimpatrio.

Nei mesi scorsi, in parte sull’onda degli “innovativi” centri italiani in Albania, molto si è dibattuto sulla possibilità – fortemente caldeggiata dai partiti più conservatori del panorama politico europeo – di creare centri di trattenimento per migranti irregolari al di fuori del territorio europeo.

Nella proposta, il primo (e unico) riferimento ai cd. return hubs si rinviene nell’Explanatory memorandum che precede l’articolato: negli oltre cinquanta articoli che compongono la proposta di regolamento, al contrario, non viene fatto alcun riferimento espresso a tali centri. Vi sono, tuttavia, due disposizioni che non lasciano dubbi in merito al favor del nuovo regolamento per tale modalità operativa.

In primo luogo, deve osservarsi che la proposta non include più una definizione di “rimpatrio” (come invece avveniva all’art. 3, dir. 2008/115, ove si stabiliva che il rimpatrio include anche il processo di ritorno in un paese terzo – né di origine, né di transito – a condizione che l’espellendo decida volontariamente di ritornarvi), ma introduce un’articolata nozione di “paese di rimpatrio” (art. 4, par. 3) che estende notevolmente il numero di paesi verso cui il cittadino di un paese terzo può ora essere rimpatriato. Oltre ai paese di origine, di residenza abituale e di transito (lett. a, b e c), rientrano ora nella definizione di “paese di rimpatrio” anche: un paese terzo in cui il cittadino straniero ha diritto di ingresso e soggiorno (lett. d); un paese terzo sicuro rispetto al quale la domanda di protezione internazionale del cittadino di un paese terzo è stata respinta in quanto irricevibile (lett. e); il primo paese di asilo rispetto al quale la domanda di protezione internazionale del cittadino di un paese terzo è stata respinta in quanto irricevibile (lett. f); e, infine, un paese terzo con cui esiste un accordo o un’intesa in base ai quali il cittadino di un paese terzo è accettato, conformemente all’art. 17 della proposta di regolamento (lett. g).

Contestualmente, l’art. 17 della proposta (Return to a third country with which there is an agreement or arrangement) prevede che proprio per quest’ultima forma di rimpatrio (lett. g) si rende necessaria «la conclusione di un accordo o di un’intesa con un paese terzo». In altri termini, con il combinato disposto degli articoli 3, par. 3(g) e 17, par. 1 la proposta della Commissione prepara la strada alla creazione dei return hubs in Paesi terzi, fornendo una base legale per gli Stati membri che vorranno istituirli tramite il raggiungimento di un accordo con un Paese terzo.

Allo stato, la proposta precisa solamente che la possibilità di rimpatriare migranti in situazione irregolare verso tali paesi dovrà garantire il rispetto dei diritti fondamentali delle persone interessate, che gli accordi potranno essere stretti solo con Paesi che rispettano gli standard e i principi internazionali in materia di diritti umani (incluso il principio di non-refoulement) e che dovranno essere esclusi da queste procedure i minori non accompagnati e le famiglie con minori. Mancando ogni indicazione sulle condizioni di soggiorno o sulla durata massima della detenzione (pur specificando che il periodo di permanenza potrà essere «a breve o a lungo termine») si deduce che sarà compito dei Governi, nell’ambito dei negoziati con i Paesi che ospiteranno i centri, stabilire di volta in volta le modalità di trattenimento.

 

 

La proposta di Regolamento qui brevemente richiamata dovrà ora passare al vaglio del Parlamento e del Consiglio. Già da una prima lettura, tuttavia, è agevole comprendere che siamo dinnanzi a un punto una svolta nella politica migratoria dell’Unione. Benché tutte le misure previste comportino rilevanti conseguenze sulle vite dei migranti irregolari, la vera notizia – presentata in questi termini sia dai media che dalla politica – risiede senza dubbio nella nuova possibilità per gli Stati membri di trasferire in Paesi terzi gli stranieri irregolari destinatari di un ordine di espulsione.

Occorre subito fare due precisazioni. Innanzitutto, va chiarito che la proposta si limita a porre le basi legali necessarie per consentire agli Stati membri che lo vorranno di stringere accordi con Paesi terzi, e procedere alla concreta creazione dei return hubs. Non si tratta di un obbligo né tantomeno di una procedura standard a cui tutti i Paesi dovranno adeguarsi, visti anche gli alti costi che comporterà. Quandanche i primi return hubs dovessero prendere forma – come prontamente osservato dalla European union Agency for Fundamental Rights (FRA) – non si tratterà di rights-free zone: i Paesi membri, così come Frontex, continueranno ad essere responsabili per tutte le violazioni di diritti che dovessero verificarsi negli hubs.

In secondo luogo, è opportuno osservare che, allo stato attuale, i return hubs presentano caratteristiche diverse dai centri costruiti dall’Italia in Albania. Quest’ultimi, infatti, sono destinati al trattenimento di richiedenti asilo sottoposti a una procedura accelerata di esame della domanda di asilo in ragione della provenienza da un “paese sicuro”; diversamente, i return hubs sono dei veri e propri centri di rimpatrio – come i nostri CPR – destinati a ospitare migranti irregolari destinatari di un ordine di espulsione. Sebbene oggi non sia certo il futuro dei centri in Albania – il cui funzionamento è stato messo in dubbio dalla magistratura italiana, che ora attende la pronuncia della Corte di Giustizia – la proposta della Commissione potrebbe spianare la strada a una loro conversione in return hub, previa rinegoziazione dell’accordo con l’Albania.

In ogni caso, e al di là del dato italiano, gli orientamenti espressi dalla nuova proposta di regolamento confermano il crescente interesse dell’Europa per forme di esternalizzazione delle procedure di frontiera e detenzioni offshore che sino a ieri erano guardate con sospetto e sembravano appannaggio di realtà lontane.