La “tragedia greca”, ovvero la crisi senza fine del diritto d’asilo in Grecia

Può sembrare un paradosso, eppure, proprio il Paese che ha dato nome al concetto giuridico di asilo (ἄσυλον = rifugio, santuario, luogo inviolabile: termine che appare nella tragedia Le Supplici di Eschilo del 463 a.C.) è il luogo in cui oggi, quello stesso diritto, non è più garantito. Sin dall’istituzione del sistema europeo comune d’asilo (SECA), infatti, il sistema di protezione internazionale in Grecia è entrato in uno stato di malattia cronica da cui, di fatto, non si è mai più ripreso. Il più recente “sintomo” di questa crisi è il ricorso a tecniche di controllo aggressivo della frontiera, basate sul respingimento sommario e collettivo dei migranti e sulla negazione dell’accesso alle procedure d’asilo. Non si tratta di episodi di natura occasionale, bensì di una pratica sistematica, diffusa e tollerata dalle autorità, come ha certificato la Corte di Strasburgo in due rilevanti pronunce rese all’inizio del 2025.

 

Breve storia della crisi dell’asilo in Grecia

 

Prima di esaminarne i più recenti approdi, va detto che la crisi dell’asilo in Grecia ha origini lontane. I segni inziali risalgono alla c.d. prima fase del SECA, inserendosi, verso la metà degli anni 2000, nel contesto già fortemente problematico delle crisi economico-finanziaria e socio-politica del Paese, tanto gravi da paventare il rischio di una possibile “Grexit”. Ancor prima dei flussi migratori provocati dalla Primavera araba, il sistema di accoglienza raggiunge il collasso, certificato nel 2011 dalla coppia di sentenze, entrambe di Grande Camera, delle Corti di Strasburgo (M.S.S c. Belgio e Grecia) e Lussemburgo (N.S. e altri): sentenze che spingono il legislatore europeo a inserire espressamente le “carenze sistemiche” nella procedura di asilo e nelle condizioni di accoglienza come motivo ostativo ai trasferimenti di richiedenti tra Stati membri nel riformato Regolamento Dublino III del 2013 (art. 3, par. 2).

 

Il picco dei flussi del 2015 (circa un milione di ingressi irregolari in Grecia: dati Frontex) determina l’impatto probabilmente decisivo per la “salute” del già sofferente sistema d’asilo ellenico. Un impatto solo parzialmente e temporaneamente tamponato dal blocco del canale migratorio del Mar Egeo attuato con la Dichiarazione Ue-Turchia del 2016: la volatilità dell’accordo e l’inaffidabilità del partner turco, infatti, emergono chiaramente con le prime strategie di “strumentalizzazione” avviate dal governo Erdoğan agli albori della pandemia Covid-19. Di fronte alla rinnovata pressione migratoria, la risposta greca si sostanzia in un’ondata di pushback e respingimenti, nonché nella sospensione della registrazione delle richieste d’asilo in base al meccanismo di emergenza – invocato in modo unilaterale e pertanto illegittimo – di cui all’art. 78, par. 3, TFUE. Un’iniziativa che, anziché a procedure di infrazione, porta al plauso della Grecia – definita dalla Commissione come lo “scudo d’Europa” (European ασπίδα) – e a un pacchetto di ingenti aiuti di emergenza (sostegno operativo di Frontex, risorse logistiche ed economiche, ricollocazione di minori non accompagnati).

 

Si tratta, ancora una volta, di misure palliative, incapaci di placare una crisi persistente e, se possibile, aggravata dalla saturazione delle strutture di accoglienza nelle isole greche: sia le più antiche, come il centro di Moria, a Lesbo, il più grande d’Europa, distrutto da un incendio nel 2020; sia quelle di più recente istituzione finanziate con i fondi dell’Ue, eppure inidonee a garantire condizioni dignitose, come certificato dal Comitato europeo per la prevenzione della tortura in un rapporto ad hoc del 2024.

 

Il momento attuale, infine, è caratterizzato da una massiccia e sistematica politica di pushback alle frontiere greche, tale da determinare un duplice effetto: da un lato, il respingimento collettivo e il mancato accesso alle procedure di asilo di migliaia di richiedenti (si noti che la Grecia è l’unico Stato membro dell’Ue a non aver firmato il Protocollo n. 4 CEDU, recante, all’art. 4, il divieto di espulsione collettiva di stranieri); dall’altro, l’aumento della mortalità negli spostamenti migratori, dovuta a una catena di pericolosi incidenti e gravi naufragi nel Mar Ego (come quello di Pylos del giugno 2023, con 80 morti e oltre 600 dispersi).

 

Le ricadute giurisprudenziali della crisi

 

La pluriennale crisi del sistema d’asilo greco si è tradotta solo marginalmente in ripercussioni giurisprudenziali davanti alla CGUE. Ciò si spiega, almeno in parte, in considerazione del sistema di accesso alla giustizia dell’Unione e dei canali disponibili per “alimentare” la Corte. I giudici greci, infatti, non ricorrono mai (o quasi) al rinvio pregiudiziale in materia di asilo, frontiere e immigrazione (per uno studio sul punto, v. Passalacqua). D’altro canto, la Commissione europea si dimostra restia ad aprire infrazioni contro la Grecia in questi ambiti, nonostante le sollecitazioni ricevute e le palesi violazioni in atto. Infine, le azioni in carenza, annullamento e per danni sono state impiegate per portare all’attenzione della Corte una casistica relativa ad asserite violazioni del diritto dell’Ue commesse da Frontex congiuntamente alla Grecia (v. infra).

 

Bisogna, allora, volgere lo sguardo alla Corte di Strasburgo. Questa prospettiva permette di avere la “cronaca giurisprudenziale”, ormai pluridecennale, della crisi migratoria e del diritto d’asilo in Grecia, fotografata in tutte le sue varie componenti: carenze sistematiche (M.S.S.); condizioni inumane e degradanti negli Hotspot (da ultimo M.A. e altri; v., inoltre, la casistica nel complesso), ovvero presso altre strutture detentive e di polizia (da ultimo, H.T.); standard inadeguati di tutela di minori non accompagnati (Rahimi; H.A. e altri); ritardi e irregolarità nelle procedure d’asilo (B.A.C.); lavoro forzato e traffico di esseri umani negli ambiti del caporalato e dei braccianti agricoli (Chowdury e altri), nonché dello sfruttamento sessuale (L.E.); inerzie nel contrasto alla violenza razzista nei confronti dei migranti (Sakir); naufragi in mare e negligenze nei soccorsi (Safi e altri); morti provocate dalla Guardia costiera (Alkhatib e altri). Il capitolo più recente di questa saga è rappresentato dalle pronunce nei ricorsi A.R.E. c. Grecia e G.R.J. c. Grecia, relative a pratiche di respingimento e pushback verso la Turchia. Le decisioni sono di grande rilievo per almeno tre motivi.

 

In primo luogo, poiché la Corte certifica l’esistenza in Grecia di una pratica sistematica di respingimenti verso la Turchia e mancata registrazione delle domande d’asilo, tanto con riguardo alla frontiera terrestre nella regione dell’Evros (A.R.E., §229), quanto a quella marittima nel Mar Egeo e nelle isole greche (G.R.J., §190). La conclusione si basa sul rilevante corpus di documentazione prodotta da autorevoli fonti nazionali ed internazionali, da cui emerge una prassi uniforme e costante di espulsioni sommarie, attuate entro 24 ore dall’ingresso in Grecia, secondo un collaudato modus operandi: intercetto del richiedente asilo in prossimità del confine; confisca di telefono cellulare, documenti di identità e averi personali; trattenimento in strutture non ufficiali, in vista del successivo trasferimento forzato a bordo di gommoni privi di motore abbandonati alla deriva in acque turche. Lo schema attuativo avviene al di fuori di qualsivoglia cornice normativo-procedurale: la Corte, infatti, nota anche la sistematicità nella carenza di rimedi effettivi contro le pratiche di respingimento della Grecia, constatando che contro di esse “l’ordre juridique national n’offrait aucun recours effectif ” (A.R.E., §304).

 

Il secondo profilo di interesse risiede nell’onere della prova in materia di respingimento, su cui la Corte profonde grandi sforzi, avendovi dedicato, oltreché un’apposita udienza (circostanza rara per i ricorsi in sede di Camera), quasi 1/3 del testo delle decisioni (A.R.E., §§204-267; G.R.J., §§149-226). Un approccio che denota l’esigenza di fare chiarezza sui criteri determinanti in tema di onere, standard e metodo della prova nella casistica, particolarmente complessa, in tema di pushback ed espulsioni collettive (su cui v. M.J. Alpes, G. Baranowska). Fino a questo momento, infatti, la Corte si era occupata di respingimenti in cui il governo convenuto contestava che il ricorrente avesse effettivamente richiesto asilo prima di essere espulso (M.K. e altri c. Polonia), ovvero che fosse veramente presente nel gruppo di migranti respinti dal territorio nazionale (N.D. e N.T. c. Spagna; A.A. e altri c. Macedonia del Nord). Insomma, nella precedente casistica, gli Stati contestavano alcuni aspetti fattuali verificatisi durante il respingimento, senza tuttavia disconoscere l’evento in sé. Nel caso greco, invece, il governo nega tout court ogni coinvolgimento delle autorità nazionali nei respingimenti, rigettando integralmente qualsiasi profilo di imputabilità delle condotte lamentate dai ricorrenti. La Corte, allora, chiarisce come procedere in simili circostanze. Quanto alla distribuzione dell’onere della prova, questo, pur gravando inizialmente sul ricorrente, è idoneo a spostarsi sul governo convenuto: se il primo riesce a fornire evidenze sufficienti di aver subito il respingimento, sta al secondo recare contro-prove e argomentazioni in diniego, in assenza delle quali, il fatto si ritiene provato (A.R.E., §214). Quanto allo standard, si deve applicare il paramento dell’evidenza “oltre ogni ragionevole dubbio”, che si ritiene soddisfatto se la vittima di respingimento fornisce elementi di prova che siano “détaillé, spécifique et concordant” (A.R.E., §214). Quanto, infine, al metodo di valutazione, la Corte, dopo aver rivendicato, in generale, la propria autonomia nell’amministrare “en pleine liberté” non solo la ricevibilità delle prove, ma anche la loro pertinenza e forza probante, chiarisce che il modus procedendi in materia di respingimento in frontiera implica un duplice esame: prima della situazione nello Stato convenuto, al fine di rilevare eventuali profili di sistematicità nelle pratiche di espulsione sommaria; poi del refoulement individuale subito dal ricorrente. La comprovata sussistenza di una prassi sistematica, infatti, non esonera il ricorrente dal provare le proprie allegazioni, il quale, difatti, dovrà: i) dimostrare il collegamento del “suo” refoulement con la pratica sistematica; ii) fornire una ricostruzione dell’accaduto “détaillé, spécifique et cohérent” e senza contraddizioni; iii) produrre prove “concrètes, circonstanciées et concordantes” (A.R.E., §217). È in base a questo test e all’esame dell’ampia gamma di prove fornite dai ricorrenti (documenti, materiali audio-visivi, testimonianze) che la Corte giunge a esiti decisori diversi in funzione della credibilità del ricorrente: sentenza dichiarativa di violazione della CEDU in A.R.E.; decisione di inammissibilità del ricorso in G.R.J.

 

In terzo luogo, infine, le questioni in tema di onere della prova esaminate dalla Corte di Strasburgo sono rilevanti alla luce del loro potenziale impatto “riflesso” sul contenzioso che interessa Frontex davanti ai giudici dell’Unione. La Corte di giustizia, infatti, dovrà presto rispondere al seguente quesito: i criteri dell’onere della prova in materia di respingimenti alla frontiera si applicano anche all’Agenzia, o solo agli Stati?

 

Frontex davanti alla Grande Camera

 

Almeno finché l’Unione non aderirà alla CEDU, Frontex non potrà che essere giudicata dai giudici della CGUE. Negli ultimi anni, in effetti, l’Agenzia è stata convenuta più volte a Lussemburgo, in un contenzioso volto a far emerge potenziali profili di responsabilità per violazioni del diritto primario e secondario dell’Ue. La casistica – che ha avuto finora esiti favorevoli per Frontex – è stata impostata con gli strumenti previsti dal diritto del contenzioso dell’Ue: inizialmente, con l’azione in carenza (che ha dato luogo alla prima decisione del 2022 nel caso SS e ST; v. inoltre FM, causa pendente); quindi, con ricorsi per annullamento (sentenza Naass e Sea Watch del 24 aprile 2024) e ricorsi combinati in carenza e annullamento (ordinanza ST del 28 novembre 2023). Più di recente, il contenzioso contro l’Agenzia ha cercato di sfruttare l’azione per danni, con ricorsi che, dopo esiti negativi per il ricorrente davanti al Tribunale (sentenza W.S. e altri del 6 settembre 2023; ordinanza Hamoudi del 13 dicembre 2023), hanno ora raggiunto in appello la Corte di giustizia, venendo assegnati alla Grande Camera (davanti a cui, il 4 febbraio 2025, si è celebrata una doppia udienza: Hamoudi, C-136/24 P; W.S. e altri, C-679/23 P).

 

I profili dell’onere della prova sopra descritti vengono in rilievo nella causa Hamoudi, relativa alla responsabilità extracontrattuale di Frontex per la compartecipazione in un’espulsione collettiva di un richiedente asilo siriano, avvenuta nel 2020 in un’azione di supporto alla Guardia costiera greca nel Mar Egeo. Il ricorso, in cui il ricorrente cerca compensazione per il danno subito durante e dopo il respingimento, era stato rigettato dal Tribunale per un asserito deficit probatorio, ritenendo che le prove fornite fossero “manifestly insufficient to demonstrate conclusively that he [the applicant] was present at and involved in the alleged incident” (Hamoudi, T‑136/22, §39). L’approdo in Corte di giustizia e la scelta della rimessione del ricorso in Grande Camera testimoniano l’importanza e la delicatezza delle questioni sottese al caso. Come si evince dalle domande poste alle parti in udienza, nonché dalle considerazioni svolte dal giudice relatore e dall’Avvocato Generale, la Grande Camera si interroga se i criteri in tema di onere della prova per casi di refoulement elaborati dalla Corte di Strasburgo in relazione a condotte degli Stati si possano applicare, mutatis mutandis, anche nel contenzioso dell’Unione che coinvolge un’Agenzia come Frontex.

 

La parola passa ora all’Avvocato Generale, le cui conclusioni sono attese per il 10 aprile 2025. Toccherà poi alla Grande Camera pronunciarsi, chiarendo se, nella “tragedia greca” del diritto di asilo in atto, oltre alle autorità nazionali elleniche, vi siano anche altri interpreti.