Il facilitators package all’esame della Commissione LIBE: possibile un nuovo approccio per escludere la rilevanza penale di condotte volte a prestare assistenza umanitaria?

  1. La riforma del c.d. facilitators package (composto dalla direttiva 2002/90 volta a definire il favoreggiamento dell’ingresso, del transito e del soggiorno illegali nel territorio dell’Unione e dalla decisione quadro 2002/946 relativa al rafforzamento del quadro penale per la repressione delle condotte in questione) è in questi giorni all’esame della Commissione per le libertà civili, la giustizia e gli affari interni del Parlamento europeo (Commissione LIBE). Detta Commissione ha infatti discusso, nel corso della seduta dell’8 aprile scorso, il progetto di relazione presentato dalla relatrice Birgit Sippel sulla proposta di direttiva volta a dettare norme minime per la prevenzione e il contrasto del favoreggiamento dell’ingresso, del transito e del soggiorno illegali nell’Unione europea.
    L’esame in prima lettura avviato in seno al Parlamento europeo muove dalla proposta formulata dalla Commissione europea il 28 novembre 2023 e fa seguito all’orientamento generale adottato in proposito dal Consiglio “giustizia e affari interni” nella sessione del 12 e 13 dicembre 2024.

 

  1. La proposta presentata nel 2023 dalla Commissione europea è stata da più parti criticata per il fatto che non affronta in modo chiaro la questione della rilevanza penale delle condotte finalizzate a prestare assistenza umanitaria ai migranti che cercano di fare ingresso, transitano o soggiornano nel territorio dell’Unione europea (in proposito, si vedano, ad esempio, V. Mitsilegas, V. Moreno Lax, E. Pistoia, S. Zirulia). Ciò, nonostante che la stessa Commissione, nella relazione introduttiva alla proposta e nel considerando n. 7 di quest’ultima, abbia espressamente affermato l’esigenza di fare chiarezza e favorire la certezza del diritto in relazione alla distinzione tra favoreggiamento dell’immigrazione irregolare e assistenza umanitaria, a causa dell’ampiezza della definizione del reato contenuta nella direttiva 2002/90 e della mancanza di deroghe per il c.d. délit de solidarité. Quest’ultima, infatti, all’art. 1, prevede, in generale, l’incriminazione di chiunque aiuti un cittadino di uno Stato terzo ad entrare, transitare o soggiornare irregolarmente nel territorio di uno Stato membro, salvo consentire ai singoli Stati membri di prevedere, nelle rispettive legislazioni, un’eccezione per le condotte finalizzate a prestare assistenza umanitaria alla persona interessata. Pochi Stati membri, in fase di attuazione della direttiva, hanno fatto uso di tale facoltà. Nell’ordinamento italiano, ad esempio, l’art. 12 T.U. sull’Immigrazione ha previsto l’applicazione della scriminante solo per le attività di soccorso e assistenza umanitaria prestate in Italia nei confronti degli stranieri in condizioni di bisogno comunque presenti nel territorio dello Stato e non invece anche per quelle condotte con cui viene favorito l’ingresso irregolare di uno straniero in condizioni di bisogno.
    Sempre nella proposta di direttiva presentata dalla Commissione europea, da una parte si afferma (nel citato considerando n. 7) che lo scopo dell’intervento legislativo non è quello di configurare come reato l’assistenza fornita ai familiari, né l’assistenza umanitaria ai cittadini di paesi terzi; dall’altra, non viene compiuto alcun cenno – nell’articolato e, quindi, nella parte dispositiva dell’atto proposto – all’esigenza di escludere la configurabilità del reato in caso di assistenza umanitaria. La proposta di direttiva, certo, compie un passo in avanti rispetto al quadro giuridico attualmente vigente, nella misura in cui introduce all’art. 3, tra gli elementi costitutivi della fattispecie di favoreggiamento all’ingresso irregolare, il dolo specifico di profitto: infatti, una delle ipotesi in cui, secondo la proposta, può essere integrato il reato, richiede che “la persona che pone in essere la condotta solleciti, riceva o accetti, direttamente o indirettamente, un vantaggio finanziario o materiale, o una promessa di tale vantaggio, o ponga in atto la condotta al fine di ottenere tale vantaggio”. Peraltro, una simile formulazione non consente di escludere la rilevanza penale di ogni condotta finalizzata a prestare assistenza umanitaria. Rientrerebbe, ad esempio, nella fattispecie incriminatrice la condotta di chi, pur perseguendo finalità umanitarie, presti a favore del cittadino di Stato terzo assistenza di carattere medico o legale dietro un compenso, sia pure proporzionato al servizio fornito, ma comunque tale da facilitare l’ingresso irregolare dell’interessato sul territorio dell’Unione. Del resto, anche secondo il considerando n. 7 della proposta, l’esclusione del reato è prevista solo per il caso in cui l’assistenza umanitaria sia fornita nel rispetto di obblighi giuridici, requisito questo che, per la sua vaghezza, rischia di escludere dall’ambito di applicazione della non punibilità molte condotte poste in essere per motivi umanitari, a favore del cittadino dello Stato terzo, da parte di amici, familiari, operatori umanitari, membri di ONG. Secondo la proposta di direttiva, poi, la fattispecie di reato viene integrata a prescindere da un vantaggio finanziario o materiale nel caso in cui l’aiuto all’ingresso irregolare sia prestato a fronte di un’elevata probabilità di arrecare un grave pregiudizio all’interessato, oppure nel caso in cui sia commessa l’istigazione pubblica di cittadini di paesi terzi all’ingresso, transito o soggiorno nel territorio di uno Stato membro in violazione della pertinente normativa dell’Unione o di quella statale.

 

  1. Di fronte alla Commissione LIBE, la relatrice Birgit Sippel ha tenuto innanzitutto a sottolineare con disappunto che la Commissione europea non ha elaborato una valutazione di impatto sulla propria proposta, tanto che è stato necessario richiedere al Servizio di ricerca del Parlamento europeo (EPRS) l’elaborazione di una valutazione sostitutiva.
    Aspetto senz’altro qualificante del progetto di relazione elaborato dalla relatrice è rappresentato dalla scelta di introdurre nella proposta una definizione di “assistenza umanitaria”.
    La mancanza di una nozione condivisa di assistenza umanitaria all’interno del facilitators package ha comportato che anche gli Stati membri che, nel dare attuazione alla direttiva 2002/90, si sono avvalsi della clausola che consente di non incriminare le condotte poste in essere con finalità umanitaria, abbiano applicato la clausola di non punibilità in questione a fronte di situazioni tra loro eterogenee. Nelle singole legislazioni statali di attuazione, infatti, è stato fatto di volta in volta espresso riferimento all’assistenza medica d’urgenza, al soccorso di persone in mare, alla consulenza legale, linguistica o sociale o, talvolta, più in generale, all’assistenza a fini esclusivamente umanitari senza ulteriore specificazione (in proposito, con riferimento alle legislazioni degli 8 Stati membri che hanno previsto l’applicazione della causa di non punibilità in questione, si vedano gli Orientamenti della Commissione sull’attuazione delle norme dell’UE concernenti la definizione e la prevenzione del favoreggiamento dell’ingresso, del transito e del soggiorno illegali, doc. 2020/C 323/01).
    Al fine di evitare che le soluzioni adottate nei diversi Stati membri possano risultare tra loro contraddittorie, nel progetto di relazione all’esame della Commissione LIBE viene data una definizione comunque piuttosto ampia di assistenza umanitaria. La definizione scelta è ripresa da quella già formulata nello studio tematico elaborato nel 2019 dal gruppo di lavoro sul diritto delle ONG nell’ambito della Conferenza delle organizzazioni non governative internazionali del Consiglio d’Europa. In base a tale definizione, vengono ricondotte alla nozione di assistenza umanitaria le azioni a breve o lungo termine intraprese per salvare vite umane, alleviare la sofferenza e mantenere la dignità umana durante e dopo le crisi e le catastrofi provocate dall’uomo, comprese le azioni volte a ridurre le vulnerabilità e a promuovere e tutelare i diritti umani, disciplinate dai principi umanitari di umanità, imparzialità, neutralità e indipendenza.
    A fronte di tale definizione, il progetto di relazione stabilisce chiaramente che la prestazione di tale tipo di assistenza umanitaria non costituisce reato. Così facendo, si esclude in proposito ogni margine di discrezionalità in capo agli Stati membri, evitando il rischio che gli stessi, in fase di attuazione, optino per una incriminazione più ampia rispetto a quella prevista dalla direttiva.
    Una tale scelta si pone chiaramente in contrapposizione con l’approccio seguito dal Consiglio “giustizia e affari interni” che, nell’orientamento generale relativo alla proposta di direttiva adottato nella sessione del 12 e 13 dicembre 2024, ha invece tenuto a specificare, in un apposito nuovo considerando (il n. 6 bis), che la direttiva rappresenta uno strumento di armonizzazione minima, tanto che gli Stati membri mantengono la libertà di adottare o mantenere una legislazione che preveda una incriminazione più ampia al fine di rendere più efficace la lotta contro i trafficanti di migranti. Secondo il Consiglio, infatti, dovrebbe essere garantita agli Stati membri la facoltà di configurare come reato la condotta di chi pone in essere l’aiuto all’ingresso, al transito, al soggiorno irregolare nel territorio dell’Unione anche quando non è stato fornito alcun vantaggio finanziario o materiale di altro tipo.
    Le diverse impostazioni seguite dal progetto di relazione all’esame della Commissione LIBE e dall’orientamento generale approvato dal Consiglio denotano una incertezza di fondo sui limiti derivanti dalla base giuridica posta a fondamento della proposta di direttiva. Ai sensi dell’art. 83, par. 2, TFUE, infatti, le istituzioni dell’Unione possono adottare direttive con cui stabilire norme minime relative alla definizione dei reati e delle sanzioni allorché il ravvicinamento delle disposizioni legislative e regolamentari degli Stati membri in materia penale si riveli indispensabile per garantire l’attuazione efficace di una politica dell’Unione. Ci si può chiedere, però, se con la definizione di tali norme minime le istituzioni dell’Unione possano stabilire anche cause di non punibilità o se, al contrario, non possa essere impedito agli Stati membri di scegliere di criminalizzare anche condotte più ampie rispetto a quelle previste dalla direttiva dell’Unione. A fronte di tale interrogativo, sembra indubbio che la definizione di tali norme minime debba rispondere al principio di proporzionalità, conformemente a quanto sancito dall’art. 49, par. 3, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione (sulla proporzionalità delle sanzioni penali nel diritto dell’Unione, si veda, in generale, il recente volume curato da L. Grossio, S. Montaldo, V. Mitsilegas). Con la conseguenza che la previsione, in base alla quale le istituzioni dell’Unione possono adottare solo norme minime, non può essere considerata una carta bianca in grado di consentire agli Stati membri di eccedere a loro piacimento nella criminalizzazione delle condotte in questione (si veda, in tal senso, Meijers Committee’s comments on how to reconcile the legal basis of the Facilitators Package (Article 83 TFEU) with safeguards to prevent criminalization of humanitarian actors, in addition to CM2407 Comment on the EU’s Facilitators Package).
    Nella bozza di relazione presentata di fronte alla Commissione LIBE, poi, viene eliminata la criminalizzazione delle due altre condotte che, secondo la proposta della Commissione europea, sono in grado di integrare le varie ipotesi di favoreggiamento, ovvero l’elevata probabilità di causare un grave pregiudizio a una persona e il nuovo concetto di istigazione pubblica. Secondo la relatrice, infatti, entrambe le ipotesi sono incompatibili con il principio di certezza del diritto. Per quanto riguarda il crimine di istigazione pubblica, non venendo definito in modo preciso nella proposta, esso può risultare eccessivamente vago ed indeterminato, tanto da aumentare il rischio di essere applicato da parte degli Stati membri anche contro giornalisti, membri di ONG, attivisti di diritti umani. La Commissione europea, nel documento di lavoro pubblicato a sostegno della proposta (doc. SWD(2024) 134 final, pp. 17-18), ha indicato che la fattispecie in questione consente di modernizzare le condotte di smuggling, permettendo di agire penalmente contro trafficanti che operano all’estero ponendo in essere atti di istigazione pubblica dell’immigrazione irregolare quali potrebbero essere, ad esempio, le attività di pubblicizzazione tramite internet e social network delle rotte e dei prezzi dei viaggi. Nel considerando n. 6 della proposta di direttiva si precisa che dovrebbe essere escluso dall’ipotesi di istigazione pubblica il caso in cui vengano fornite informazioni oggettive o consulenza ai cittadini di paesi terzi sulle condizioni di ingresso e soggiorno legali nell’Unione e sulla protezione internazionale. Non è certo facile, però, riuscire a capire quando l’informazione possa essere considerata oggettiva e quando invece la stessa sia tale da essere ricondotta all’istigazione pubblica, con il rischio quindi che anche semplici informazioni di viaggio sui modi per raggiungere il territorio dell’Unione europea possano rientrare nella nozione di istigazione pubblica. In considerazione dell’indeterminatezza della previsione, la relatrice ha pertanto proposto di eliminare la stessa dalla fattispecie incriminatrice.
    Analogamente, nel testo in discussione di fronte alla Commissione LIBE viene eliminata dalla definizione di reato di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare anche l’ipotesi in cui vi sia una elevata probabilità di arrecare un grave pregiudizio a una persona. Anche tale soppressione è motivata dalla considerazione che trattasi di condotta che difficilmente potrebbe essere considerata conforme al principio di certezza del diritto. Attività che per loro natura sono rischiose, come i salvataggi in mare, potrebbero di per sé ricadere nell’ipotesi di criminalizzazione, a maggior ragione tenuto conto che, secondo quanto previsto dalla proposta di direttiva, per tale fattispecie non è neppure necessario che la condotta sia posta in essere da una persona che solleciti, riceva o accetti un vantaggio economico o materiale.
    Tra gli altri emendamenti proposti dalla relatrice della Commissione LIBE, meritano un cenno quelli volti ad allineare il testo della direttiva al Protocollo addizionale alla Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità organizzata transnazionale per combattere il traffico di migranti via terra, via mare e via area del 2000 (c.d. Protocollo sullo smuggling). Ciò avviene, in particolare, con riferimento alla stessa definizione di favoreggiamento che, nel citato progetto di relazione, dovrebbe costituire reato solo quando lo stesso è commesso al fine di ottenere direttamente o indirettamente un vantaggio finanziario o materiale. Inoltre, al pari di quanto previsto dall’art. 5 del Protocollo sullo smuggling, la relatrice propone di inserire nella proposta di direttiva una apposita previsione volta a chiarire che i cittadini di paesi terzi non diventano responsabili per il solo fatto di essere stati oggetto delle condotte di favoreggiamento.

 

  1. Entro il prossimo 25 aprile i relatori ombra nominati dai vari gruppi politici potranno formulare emendamenti rispetto al progetto di relazione presentato dalla relatrice Birgit Sippel. Il testo che risulterà dai lavori della Commissione LIBE costituirà la base a partire dalla quale il Parlamento formulerà la propria posizione ed avvierà il negoziato interistituzionale con il Consiglio.
    Il Consiglio, nel già richiamato orientamento generale approvato nel dicembre scorso in merito alla proposta di direttiva, ha sostanzialmente confermato l’impostazione seguita dalla Commissione europea in merito alle condotte poste in essere con finalità di assistenza umanitaria. Anche nella versione approvata dal Consiglio, infatti, la non punibilità dell’assistenza umanitaria viene enunciata nel preambolo della direttiva ma non viene poi seguita da una chiara affermazione nell’articolato. D’altra parte, nell’orientamento generale del Consiglio, così come anche nel progetto di relazione in discussione di fronte alla Commissione LIBE, viene eliminata – rispetto al testo della proposta della Commissione europea – l’incriminazione dell’istigazione pubblica e delle condotte poste in essere nel caso in cui vi sia una elevata probabilità di arrecare un grave pregiudizio ai cittadini di paesi terzi oggetto del favoreggiamento. Il Consiglio, però, tiene a precisare, mediante un apposito nuovo considerando, che la direttiva in questione deve intendersi come strumento di armonizzazione minima, tanto che gli Stati membri sono liberi di adottare o mantenere una legislazione che preveda un’incriminazione più ampia al fine di rendere più efficace la lotta contro i trafficanti di migranti. Tale libertà può infatti comportare, sempre secondo la versione dell’atto licenziata dal Consiglio, che gli Stati membri configurino come reato anche le condotte che non sono collegate ad alcun vantaggio finanziario o materiale di altro tipo, con il concreto rischio che, così facendo, vengano incluse nella criminalizzazione anche quelle condotte poste in essere per fini meramente umanitari.
    Sullo sfondo del complesso quadro dei negoziati interistituzionali che seguiranno, incombe l’attesa pronuncia che nei prossimi mesi la Corte di giustizia è chiamata a rendere nell’ambito del caso Kinsa (causa C‑460/23). La vicenda, assai nota (si vedano, in proposito, tra gli altri, L. Bernardini, G. Licastro, V. Mitsilegas, M. Porchia, S. Zirulia), trae origine da un rinvio pregiudiziale sollevato dal Tribunale di Bologna nell’ambito di un procedimento penale a carico di una donna congolese che, fermata con documenti falsi all’aeroporto di Bologna mentre tentava di fare ingresso in Italia insieme alla figlia ed alla nipote, rispettivamente di 8 e 13 anni, è stata imputata per favoreggiamento dell’ingresso illegale delle due minori sul territorio italiano. Il caso, da molti considerato un potenziale game changer, offrirà alla Corte di giustizia la possibilità di prendere posizione tanto sulla validità degli obblighi di incriminazione previsti nel facilitators package, quanto sulla normativa italiana di attuazione, contenuta nel già citato art. 12 del T.U. sull’immigrazione, nella misura in cui quest’ultimo prevede la sottoposizione a sanzione penale di chiunque favorisca l’ingresso illegale nel territorio nazionale anche quando l’autore del reato non è mosso da alcuno scopo di lucro, senza escludere al contempo la rilevanza penale di condotte finalizzate a prestare assistenza umanitaria alla persona interessata. Per il momento, l’Avvocato generale Jean Richard de la Tour, nelle sue conclusioni motivate del 7 novembre 2024 (a commento delle quali, v. ad es. L. Grossio e S. Zirulia), ha ritenuto che la direttiva 2002/90 è dotata, per sua natura, di un certo grado di indeterminatezza che le consente di mantenere flessibilità rispetto alle normative penali degli Stati membri che sono ancora oggi caratterizzate da notevoli differenze. La direttiva lascia infatti agli Stati membri il compito di precisare se l’autore di un atto compiuto per scopi umanitari possa beneficiare di un esonero dalla responsabilità penale. Secondo l’Avvocato generale, una simile facoltà deve essere considerata in linea con il principio di legalità dei reati e delle pene sancito dall’art. 49, par. 1, della Carta dei diritti fondamentali dell’UE. Allo stesso tempo, la direttiva, secondo l’Avvocato generale, deve essere considerata proporzionata ai sensi dell’art. 52, par. 1, della Carta, letto alla luce dell’art. 49, par. 3 della Carta. La valutazione del principio di proporzionalità viene poi rimessa dall’Avvocato generale al legislatore nazionale in sede di attuazione dell’obbligo di criminalizzazione previsto dalla direttiva ed al giudice a quo nell’applicazione della fattispecie al caso concreto. Il principio di proporzionalità dei reati e delle pene sancito dall’art. 49, par. 3, della Carta osta infatti a un regime che non consenta al giudice nazionale di bilanciare gli interessi in causa e di stabilire una differenza tra l’incriminazione di una persona di cui sia accertato che ha agito per scopi umanitari o per necessità e quella di una persona mossa esclusivamente dall’intenzione dolosa di facilitare l’ingresso irregolare del cittadino dello Stato terzo. L’Avvocato generale, deludendo quindi in parte le attese, ha preferito spostare l’attenzione dalla normativa dell’Unione a quella nazionale di attuazione. L’auspicio è che la Corte di giustizia prenda chiara posizione anche in merito al rispetto del principio di proporzionalità da parte della direttiva 2002/90. Un tale intervento, soprattutto se richiamasse l’esigenza di un allineamento della fattispecie incriminatrice con quella prevista dal Protocollo sullo smuggling di cui l’Unione europea è parte fin dal 2006, potrebbe consentire di tracciare in modo più chiaro la strada lungo la quale proseguire i negoziati interistituzionali volti a condurre alla riforma del facilitators package.