I grandi assenti: il principio del primato e la disapplicazione della normativa nazionale in contrasto con il diritto UE. Alcune riflessioni a margine dell’udienza del 25 febbraio 2025 sulle cause riunite C‑758/24 e C‑759/24

  1. Il 25 febbraio 2025, davanti alla Grande sezione della Corte di Giustizia, si è tenuta l’udienza pubblica sulle cause riunite C‑758/24 (Alace) e C‑759/24 (Canpelli), due domande di pronuncia pregiudiziale proposte alla Corte di giustizia dal Tribunale ordinario di Roma, con ordinanze del 31 ottobre 2024 e del 4 novembre 2024, sull’interpretazione e applicazione delle disposizioni di diritto UE in tema di paesi di origine sicuri. Si tratta dei primi di una lunga serie di rinvii pregiudiziali – attualmente pendenti dinanzi alla Corte – sollevati dai giudici italiani (ad oggi, una cinquantina; per una ricognizione sul punto, v. P. Iannuccelli, “Paesi d’origine sicuri”: la situazione processuale delle cause pendenti davanti alla Corte di giustizia; e per seguirne gli sviluppi, v. https://www.eurojusitalia.eu/), che costituiscono la reazione alla discussa sentenza del 4 ottobre 2024, causa C-406/22 (d’ora innanzi “sentenza CV”). Con tale pronuncia, la Corte di giustizia ha dettato principi fondamentali in merito alla nozione di paese di origine sicuro, statuendo, per quanto di interesse: i) la contrarietà al diritto UE della previsione di paesi sicuri con eccezioni territoriali; ii) la necessità che l’effettivo rispetto delle condizioni sostanziali cui il diritto dell’Unione subordina la suddetta nozione sia accertato, anche d’ufficio, dal giudice adito nell’ambito del ricorso avverso una decisione di rigetto della domanda di asilo presentata da un richiedente proveniente da un paese qualificato come sicuro (per un commento, si vedano S. Peers, ‘Safe countries of origin’ in asylum law: the CJEU first interprets the concept; A. Di Pascale, Preliminary ruling requests from Italian courts concerning the implementation of the Italy-Albania Protocol and the designation of safe countries of origin in EU Asylum Law; S. Morlotti, Safe or Not? Some Much-Awaited Clarification on the Designation of Safe Third Countries of Origin by the CJEU). E tutto ciò, come noto, ha avuto un forte impatto nell’ordinamento italiano, sia da un punto di vista politico – considerando le conseguenze generate con riguardo all’applicazione del Protocollo Italia-Albania –, sia da un punto di vista giuridico – avendo portato il legislatore all’adozione del D.L. del 23 ottobre 2024, n. 158, per modificare la disciplina nazionale sui paesi sicuri (si veda in proposito M. Ferri, Le ricadute nell’ordinamento italiano della sentenza della Corte di giustizia sui Paesi sicuri: la via della disapplicazione).
    Nel solco di questa decisione, le questioni pregiudiziali promosse nelle cause riunite Alace e Canpelli hanno riguardato: i) lo strumento utilizzabile dagli Stati membri per la designazione di un paese d’origine come sicuro (legge o atto amministrativo generale); ii) l’accessibilità/verificabilità alle/delle fonti utilizzate per giustificare una siffatta designazione; iii) lo spazio riservato al controllo giurisdizionale sulla sussistenza delle condizioni sostanziali della designazione stessa; iv) la conformità al diritto UE della designazione di paesi sicuri con eccezioni di carattere personale. Questioni, quelle richiamate, che hanno suscitato un forte interesse in tutto il panorama europeo: sono diciassette, infatti, gli Stati membri ad essere intervenuti nella causa in commento e ben otto tra essi – Germania, alcuni Paesi Visegrad (Repubblica Ceca, Lettonia, Lituania, Ungheria) la Bulgaria e la Svezia – ad aver presenziato all’udienza.
    Nei fatti, l’udienza è stata orientata da cinque quesiti posti dai giudici di Lussemburgo alle parti, che hanno incentrato sia le argomentazioni degli intervenuti, sia le domande poste dal Presidente della Corte – K. Lenaerts –, dalla giudice relatrice – K. Jürimäe – e dall’Avvocato generale – J. R. de la Tour e dagli altri giudici del collegio su due principali aspetti: a) se un paese di origine possa essere designato come sicuro in presenza di eccezioni relative a categorie di persone; e b) come i giudici possano controllare se tale designazione sia legittima ai sensi del diritto UE, verificando la possibilità di accentrare il controllo giurisdizionale presso un unico giudice, per ragioni di certezza del diritto.
  1. Partendo dall’analisi del profilo dell’ammissibilità della designazione di un paese terzo come paese sicuro con la previsione di esclusioni soggettive, la discussione in aula si è concentrata su due questioni correlate all’interpretazione degli articoli 36 e 37 della direttiva 2013/32/UE. Da un lato, sul significato dell’endiadi «generalmente e costantemente» utilizzata dal legislatore nell’allegato I alla direttiva 2013/32/UE, richiamato dall’art. 37 menzionato, per individuare il parametro da prendere in considerazione nella valutazione della situazione di sicurezza di un paese terzo. Dall’altro, sul significato della soppressione della clausola di stand still, contenuta nella prima direttiva procedure (direttiva 85/2005/CE)[1], se da intendersi o meno come espressione della volontà del legislatore di escludere in toto la facoltà di designare paesi sicuri con eccezioni (territoriali o personali che siano).
    Ebbene, secondo gli avvocati dei ricorrenti nelle cause principali, non vi sono dubbi circa la necessità di escludere eccezioni di carattere personale per poter considerare sicuro ai sensi del diritto UE un paese terzo. In particolare, attraverso l’applicazione dei criteri interpretativi relativi alla genesi, alla formulazione letterale e alla ratio degli articoli 36 e 37 della direttiva – e richiamando, sul punto, quanto affermato dalla Corte di giustizia nella sentenza CV (vedi punti da 69 a 76) , gli avvocati hanno ricondotto l’espressione «generalmente e costantemente» alla necessità di individuare un criterio di sicurezza che sia assoluto e hanno ravvisato nell’abrogazione della clausola di stand still  una chiara volontà del legislatore di escludere la possibilità di ammettere eccezioni di qualsiasi tipo nella designazione di un paese d’origine come sicuro.
    Una visione diametralmente opposta è stata invece fornita dal Governo italiano, nonché dalla maggior parte degli altri Stati membri intervenuti. Partendo dal presupposto che ciascun richiedente ha sempre la possibilità di contestare la presunzione generale di sicurezza stabilita dall’art. 36, par. 1, della direttiva, il Governo sostiene che i termini «generalmente e costantemente» debbano leggersi come implicanti un criterio di sicurezza solo relativo. Quindi, applicando un criterio di prevalenza invece che di assolutezza nella valutazione della sicurezza di un paese terzo, dal punto di vista del Governo italiano, le eccezioni personali devono considerarsi ammissibili. A fortiori, alcuni Governi intervenuti si sono appellati al nuovo regolamento procedure (regolamento (UE) 1348/2024), che da giugno 2026 consentirà agli Stati membri di prevedere tanto le eccezioni territoriali quanto quelle personali, per sostenere l’opportunità di interpretare le disposizioni attualmente in vigore nei termini descritti dal Governo italiano.
    Unica voce fuori dal coro è stata quella della Germania, che ha evidenziato come il regime derogatorio derivante dall’applicazione della nozione di paese d’origine sicuro dovrebbe, in un’ottica garantista, rappresentare l’eccezione e non la regola, e, pertanto, presupporre un’interpretazione  restrittiva delle condizioni di operatività dell’istituto. Inoltre, ha sottolineato la necessità di distinguere tra valutazione generale di sicurezza del paese terzo – regolata dall’art. 37 – e sicurezza individuale del paese per il singolo richiedente – disciplinata dall’art. 36. Quest’ultima disposizione non riguarda la designazione di un paese d’origine come sicuro, ma l’applicazione di tale istituto a ciascun richiedente protezione internazionale, e, pertanto, secondo il Governo tedesco, non può essere utilizzata per valutare se gli Stati membri abbiano la facoltà di designare paesi di origine sicuri introducendo delle eccezioni per categorie di persone (v. anche punto 71 della sentenza CV).
    L’ultima a prendere parola è stata dunque la Commissione, la quale, con un coup de théâtre e smentendo quanto scritto nelle osservazioni depositate un mese prima dell’udienza, si è allineata alla posizione della maggioranza degli Stati membri, ritenendo compatibile con il diritto UE la previsione di eccezioni personali nella designazione dei paesi sicuri. Ha evidenziato come l’abrogazione della clausola di stand still non dovrebbe considerarsi come un elemento determinante nel senso della inammissibilità delle eccezioni per categorie di persone. Infatti, come emerge dai lavori preparatori della direttiva 2013/32/UE, l’unica ragione della rimozione della suddetta clausola sarebbe il raggiungimento di una maggiore armonizzazione a livello europeo e non la volontà del legislatore di escludere la possibilità di designare un paese di origine sicuro con eccezioni relative a specifiche categorie di persone considerate sicure. Seguendo tale impostazione, la Commissione ha poi aggiunto che, nel caso in cui la Corte dovesse ritenere conforme alla direttiva 2013/32/UE l’introduzione di eccezioni per determinate categorie di persone nella designazione dei paesi sicuri, siffatte categorie potrebbero includere anche “un numero considerevole di persone” (come, ad esempio, la categoria “uomini” o la categoria “donne”). Gli unici limiti – se così vogliamo definirli – che la Commissione suggerisce di individuare rispetto a tale designazione sono, da un lato, la necessità di una chiara identificazione delle categorie eccettuate e, dall’altro, la possibilità di una rapida valutazione circa l’appartenenza dei richiedenti asilo ad una di tali categorie.
  1. Il secondo aspetto ampiamente discusso nel corso dell’udienza è stato quello relativo all’individuazione dell’autorità responsabile del controllo giurisdizionale sulla designazione dei paesi di origine sicuri.
    Sul punto, gli avvocati dei ricorrenti nella causa principale hanno richiamato i principi di certezza del diritto e di legalità dell’ordinamento giuridico dell’Unione europea per sostenere l’opportunità di assicurare un controllo diffuso sulla corretta qualificazione di un paese come sicuro. Come argomentato in udienza, tale impostazione trova un duplice fondamento: innanzitutto, in ragione della necessità di assicurare un’applicazione restrittiva di una procedura derogatoria come è quella derivante dall’applicazione della presunzione derivante dalla nozione di paese d’origine sicuro; in secondo luogo, in ragione del fatto che, in assenza di un sindacato del singolo giudice, ne deriverebbe una totale assenza di controllo giurisdizionale tout court. Come ricordato da uno degli avvocati delle parti, infatti, la legittimazione dei soggetti collettivi di fronte alla giurisdizione amministrativa non è riconosciuta nella materia del riconoscimento della protezione internazionale e il sindacato della Corte costituzionale è solo incidentale, non potendo il singolo richiedente asilo sollevare una questione di legittimità costituzionale.
    In aperta contrapposizione con la posizione delle parti private, il Governo italiano ha sostenuto che solo accentrando il controllo sulla corretta qualificazione di un paese d’origine come sicuro nelle mani della Corte costituzionale è possibile assicurare il rispetto dei già richiamati principi di certezza del diritto e di legalità. Appellandosi al principio di autonomia procedurale riconosciuto dal diritto UE agli Stati membri, il Governo italiano – sostenuto, peraltro, da tutti gli altri Governi intervenuti in udienza – ha sottolineato che rientra nel margine di apprezzamento di ciascuno Stato sia la scelta della fonte attraverso cui determinare la lista dei paesi sicuri, sia l’organo cui affidare il controllo sulla compatibilità di quest’ultima con i criteri definiti dall’Unione europea. L’unica eccezione che l’avvocato dello Stato ammette a tale impostazione riguarda quelle ipotesi-limite individuate dalla Corte di Cassazione nell’ordinanza interlocutoria del 30 dicembre 2024, in cui la designazione di un paese d’origine come sicuro sia stata esercitata in modo manifestamente arbitrario o risulti ictu oculi non più rispondente alla situazione reale. E fatto salvo, in ogni caso, il potere del giudice ordinario di accertare che, nel singolo caso di specie, il paese d’origine in questione non risulti eventualmente sicuro per il singolo richiedente, conformemente all’art. 36, par. 1, della direttiva.
    La Commissione, dal canto suo, non sembra aver preso una posizione netta sulla questione. Da un lato, ha rimesso sostanzialmente ai singoli Stati membri l’individuazione dell’organo giurisdizionale incaricato di effettuare la valutazione circa la corretta designazione di un paese d’origine come sicuro in base al diritto UE. Infatti, pur ricordando che, ai sensi dell’art. 46, par. 3, della direttiva procedure, come interpretato dalla Corte nella sentenza CV, il giudice adito è tenuto a rilevare una eventuale violazione delle condizioni sostanziali di cui all’allegato I, ha ammesso la possibilità che, in base al diritto nazionale, il giudice ordinario che riscontri una siffatta violazione sia obbligato a rinviare la questione ad un organo istituito ad hoc. Con l’unico limite del rispetto del principio della tutela giurisdizionale effettiva. Dall’altro lato, tuttavia, in risposta ad un quesito relativo all’interpretazione del punto 98 della sentenza CV[2], è la stessa Commissione ad affermare che il giudice nazionale, che constati il mancato rispetto delle condizioni previste dalla direttiva procedure per la designazione di un paese di origine come sicuro, deve dichiarare la non applicabilità della nozione di paese di origine sicuro al richiedente interessato. Una lettura, quest’ultima, che, se contraddice quanto sostenuto in punto di individuazione dell’organo responsabile del controllo giurisdizionale sulla lista dei paesi sicuri, appare maggiormente conforme a consolidati principi di diritto UE, quali quello del primato e del controllo diffuso riservato ai giudici nazionali.
  1. L’udienza del 25 febbraio si è così conclusa nell’arco di circa quattro ore, con la fissazione della data di presentazione delle conclusioni da parte dell’Avvocato generale per il 10 aprile 2025.
    Senza voler fare pronostici, quanto si è discusso in aula consente di presumere che la valutazione sulla prima questione affrontata – quella relativa all’ammissibilità di eccezioni di carattere personale nella designazione dei paesi sicuri – si concentrerà sulla possibilità di estendere le argomentazioni giuridiche adottate dalla Corte con riferimento alle eccezioni territoriali anche a quelle personali. In altre parole e prendendo in prestito la metafora utilizzata dal rappresentante del Governo della Repubblica ceca: le eccezioni territoriali e personali sono mattoncini di Lego di diverso colore, ma con la stessa forma – e, quindi, perfettamente interscambiabili –, oppure mattoncini completamente diversi? Ebbene, il revirement della Commissione e la nettezza della posizione assunta in udienza, pur avendo suscitato un forte stupore nel Collegio (in primis nel Presidente della Corte), hanno chiuso –  almeno in udienza –  la discussione sul punto: nulla hanno replicato gli avvocati delle parti private e nessuno ha più indagato oltre la questione. Vero è che la Commissione, a domanda diretta da parte della Giudice relatrice, non ha dato una vera e propria spiegazione (giuridica) al mutamento della sua posizione. E, d’altra parte, rimane valido quanto statuito dalla Corte nella sentenza CV, in punto di interpretazione dell’espressione «generalmente e costantemente» (v., in particolare, punto 69[3]). Tuttavia, sembra difficile pensare che la Corte possa discostarsi da quella che si è dimostrata essere l’interpretazione preponderante delle disposizioni in discussione.
    Sulla seconda questione, invece, la partita appare ancora aperta. In particolare, la posizione del Governo italiano ha scaturito numerosi interrogativi da parte dell’Avvocato generale e dei Giudici della Grande sezione, la cui attenzione si è focalizzata principalmente su due punti:
  1. i) sulla scelta dello strumento legislativo in luogo dell’atto amministrativo quale “contenitore” della lista dei paesi sicuri. L’Avvocato generale ha esplicitamente espresso alcune perplessità in merito all’opportunità che la lista dei paesi sicuri – che necessita un costante aggiornamento periodico – sia contenuta in una legge, che, come noto, implica un iter più complesso per la sua revisione;
  2. ii) sulla delineazione di un assetto che, così come prospettato dal Governo italiano, si pone in contrasto con quanto statuito dalla giurisprudenza della Corte di giustizia – con la sentenza Simmenthal, ad esempio, come sottolineato dal giudice Passer – circa i poteri del giudice ordinario di valutare direttamente, senza la necessità di attendere l’intervento della Corte costituzionale, l’incompatibilità tra il diritto UE e il diritto nazionale, disapplicando quest’ultimo (eventualmente interpellando la stessa Corte di Giustizia in caso di dubbi interpretativi).

Quanto a tale secondo aspetto, tutti i Governi intervenuti, argomentando in risposta ai quesiti sull’ampiezza del controllo giurisdizionale in tema di paesi sicuri, sembrano quasi dimenticare l’importanza del controllo diffuso per assicurare la corretta applicazione del diritto dell’Unione, lasciando trasparire una tendenza accentratrice che rischia di mettere in discussione principi cardine del sistema Unione. Tendenza che, in effetti, anche la nostra Corte costituzionale, di recente, sembra aver dimostrato (si veda, in particolare, la sentenza n. 181/2024), non senza perplessità tra i commentatori (v. R. Mastroianni, La sentenza della Corte costituzionale n. 181 del 2024 in tema di rapporti tra ordinamenti, ovvero la scomparsa dell’articolo 11 della Costituzione). Le domande poste sia dall’Avvocato generale che dai Giudici della Grande Sezione fanno riflettere: “scomodare” la sentenza Simmenthal per ricordare alle parti l’esistenza dell’istituto della disapplicazione è un segnale forte da parte della Corte. Certamente, non può essere la materia della protezione internazionale a suggerire un’eccezione alla regola della disapplicazione nel caso di contrasto di una norma nazionale con il diritto dell’Unione. Anzi, proprio in un settore come questo, in cui vengono in gioco diritti fondamentali della persona, il principio di effettività della tutela giurisdizionale suggerisce la necessità che sia il giudice ordinario, investito del ricorso avverso una decisione di rigetto di una domanda di asilo, ad effettuare un esame completo ed ex nunc, che può e (se del caso) deve condurre a rilevare anche eventuali contrasti della normativa nazionale con il diritto UE.

In ogni caso, occorrerà attendere la sentenza – verosimilmente il prossimo giugno – per avere una risposta agli interrogativi ancora aperti. Vedremo se si tratterà di una pronuncia determinante, in grado di fare chiarezza sui confini all’istituto dei paesi sicuri e di conseguenza, sull’operatività del correlato regime derogatorio. Toccherà poi al giudice nazionale “farne buon uso”, senza mai dimenticare la centralità del principio di effettività della tutela che merita di essere sempre garantito, a maggior ragione in quegli spazi in cui le garanzie si fanno più rarefatte. Alla prossima puntata.

[1] . La direttiva 85/2005/CE, pur consentendo di designare ex novo un paese d’origine come sicuro solamente con eccezioni territoriali (art. 30, par. 1), ammetteva, proprio attraverso una clausola di stand still prevista all’art. 30, par. 3, di conservare anche eccezioni personali preesistenti alla data di entrata in vigore della direttiva stessa (il 1° dicembre 2005).

[2] Punto 98: «Da tutte le considerazioni che precedono risulta che occorre rispondere alla terza questione dichiarando che l’articolo 46, paragrafo 3, della direttiva 2013/32, letto alla luce dell’articolo 47 della Carta, deve essere interpretato nel senso che, quando un giudice è investito di un ricorso avverso una decisione di rigetto di una domanda di protezione internazionale esaminata nell’ambito del regime speciale applicabile alle domande presentate dai richiedenti provenienti da paesi terzi designati come paese di origine sicuro, conformemente all’articolo 37 di tale direttiva, tale giudice, nell’ambito dell’esame completo ed ex nunc imposto dal suddetto articolo 46, paragrafo 3, deve rilevare, sulla base degli elementi del fascicolo nonché di quelli portati a sua conoscenza nel corso del procedimento dinanzi ad esso, una violazione delle condizioni sostanziali di siffatta designazione, enunciate all’allegato I di detta direttiva, anche se tale violazione non è espressamente fatta valere a sostegno di tale ricorso».

[3] Punto 69: «(…) l’impiego dell’espressione «generalmente e costantemente», in assenza di qualsiasi riferimento a una parte del territorio del paese terzo considerato nell’allegato I della direttiva 2013/32 o nell’articolo 37 di tale direttiva, tende a indicare che le condizioni previste in tale allegato devono essere rispettate in tutto il territorio del paese terzo considerato affinché quest’ultimo possa essere designato come paese di origine sicuro».