Con una sentenza storica, ma a tratti contraddittoria, la Corte di Strasburgo condanna l’Italia per violazione del diritto alla vita nel caso sulla Terra dei fuochi

Il 30 gennaio 2025 la Corte europea dei diritti umani (“la Corte”) si è pronunciata nel caso Cannavacciuolo e altri c. Italia (“la sentenza”) relativo al fenomeno di inquinamento su larga scala derivante dallo scarico illegale, dal seppellimento e dall’abbandono incontrollato di rifiuti tossici e urbani, spesso associato con il loro incenerimento. L’area incisa, definita la Terra dei fuochi, comprende, secondo la delimitazione realizzata negli strumenti legislativi in vigore, una popolazione di circa 2,9 milioni di individui, il 52% della popolazione della Campania.

Nella sentenza, che può senz’altro ritenersi storica, la Corte ha esaminato tutti i rapporti relativi al fenomeno, e ritenuto che il Governo non sia stato in grado di dimostrare che le autorità nazionali avessero affrontato il problema con la diligenza imposta dalla sua gravità e avessero preso tutte le misure che potevano loro essere ragionevolmente richieste per proteggere la vita dei ricorrenti (par. 465 della sentenza). La Corte ha quindi concluso per la violazione dell’art. 2 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU o “la Convenzione) e, avendo ritenuto che ciò sia il frutto di un “fallimento sistemico” dell’ordinamento (par. 490 della sentenza), ha applicato per la prima volta in un caso ambientale la procedura-pilota, e ha indicato una serie di misure generali ai sensi dell’art. 46 CEDU, che l’Italia è tenuta a porre in essere entro due anni (parr. 593-500 della sentenza).

 

L’irrilevanza delle pronunce della Corte di giustizia dell’UE sulla stessa problematica ai fini della ricevibilità dei ricorsi a Strasburgo

Il Governo italiano aveva eccepito l’irricevibilità dei ricorsi ai sensi dell’art. 35, par. 2, lett. b), CEDU, secondo il quale la Corte non può esaminare alcun ricorso che sia “essenzialmente identico” a uno “già sottoposto a un’altra istanza internazionale di inchiesta o di risoluzione e non contiene fatti nuovi”. Il Governo sottolineava, infatti, con la questione fosse già stata oggetto di più sentenze della Corte di giustizia dell’Unione europea (“la Corte di giustizia”) e, in particolare, delle due più recenti in materia.

Nella sentenza Commissione c. Italia del 4 marzo 2010, la Corte di giustizia aveva ritenuto che, avendo  omesso di adottare, nella ragione Campania, tutte le misure necessarie al recupero e smaltimento di rifiuti senza creare un pericolo per la salute umana e senza recare pregiudizio all’ambiente, nonché di creare una rete adeguata e integrata di impianti di smaltimento, lo Stato era venuto meno agli obblighi ad esso incombenti in forza degli artt. 4 e 5 della direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 5 aprile 2006, 2006/12/CE, relativa ai rifiuti.

Nella successiva sentenza Commissione c. Italia del 16 luglio 2015, la Corte di giustizia aveva poi concluso che l’Italia aveva omesso di adottare le misure necessarie a dare esecuzione alla sentenza sopra citata, in violazione dell’art. 260, par 1, TFUE. In quel caso, la Corte di giustizia aveva notato che l’obbligo di disporre dei rifiuti senza mettere in pericolo la salute umana e senza recare pregiudizio per l’ambiente costituisce parte integrante delle politiche dell’Unione con riferimento all’ambiente, ai sensi dell’art. 191 TFUE. Quanto alla specifica situazione, la Corte di giustizia aveva notato significative disfunzioni quanto alla capacità della regione Campania di smaltire i rifiuti (consistenti complessivamente nell’oltre l’8% della produzione nazionale), e aveva concluso che ciò fosse idoneo a compromettere seriamente la capacità dell’Italia di raggiungere l’obiettivo di autosufficienza nazionale in tale materia. Di conseguenza, aveva condannato l’Italia a pagare una penalità di EUR 120 000 per ciascun giorno di ritardo nell’attuazione delle misure necessarie fino alla completa esecuzione di tale sentenza sopra citata, nonché una somma forfettaria di EUR 20 milioni.

Per rispondere all’eccezione del Governo, la Corte ha ricordato come la funzione della procedura di ricorso individuale di cui all’art. 34 CEDU sia quella di rendere giustizia individuale (par. 199 della sentenza), mentre i ricorsi per inadempimento presentati dinnanzi alla Corte di giustizia erano stati istituiti dalla Commissione europea rispettivamente ai sensi dell’art. 226 TEC e 260, par. 2, TFUE, e non da individuo specifico. La Corte anche aggiunto che tali procedure sono volte a far accertare l’inadempimento da parte di uno Stato membro ai propri obblighi derivanti dalla partecipazione all’Unione europea, e alla condanna al pagamento di sanzioni di carattere pecuniario (par. 200 della sentenza). Pertanto, come già affermato in precedenza (Karoussiotis c. Portogallo, par. 73-74), la Corte ha ribadito che un eventuale accertamento da parte della Corte di giustizia di un ricorso volto a far accertare l’inadempimento di uno Stato membro dell’UE dei propri obblighi non ha lo scopo di risolvere un caso individuale; pertanto, anche laddove istituito da un individuo, esso non avrebbe l’effetto di riconoscere agli individui che subiscano un danno come conseguenza di quell’inadempimento alcuna riparazione.

Sulla base di quanto sopra, la Corte ha ritenuto che le procedure dinnanzi alla Corte di giustizia invocate dal Governo non potessero considerarsi come un’istanza internazionale di inchiesta o di risoluzione equivalente a quella dinnanzi alla Corte stessa, e ha quindi rigettato l’eccezione.

 

Sulla questione dello status di vittima e l’esistenza di un obbligo positivo di protezione della vita da rischi derivanti da fonti di inquinamento

Il Governo aveva inoltre sollevato una duplice eccezione di carenza di status di vittima ai sensi dell’art. 34 CEDU, tanto per le associazioni ricorrenti, quanto per i ricorrenti individuali.

Quanto alle associazioni, la Corte si è limitata a ribadire la giurisprudenza secondo cui una persona giuridica non è legittimata ad invocare diritti sostanziali che per loro natura spettano esclusivamente e ontologicamente a persone fisiche, quali il diritto alla vita, alla salute, o al godimento di una certa qualità della vita (parr. 216-217 della sentenza). Inoltre, pur avendo riconosciuto il ruolo fondamentale giocato dalle associazioni ricorrenti nel sollevare il problema di Terra dei fuochi, ha concluso che, in assenza di ragioni eccezionali, derivanti dalla specifica vulnerabilità dei propri membri, ciò non esclude l’obbligo per gli stessi di introdurre personalmente un ricorso (part. 218). Da ultimo, ha notato che l’eccezione stabilita in Verein KlimaSeniorinnen Schweiz and Others c. Svizzera, 2024, secondo cui le associazioni possono in alcuni casi ritenersi legittimate a introdurre un ricorso relativo a un diritto sostanziale, riguardava specificamente il contesto del cambiamento climatico, in ragione delle sue peculiarità e della natura di minaccia comune per l’umanità e la necessità di adottare un approccio volto a promuovere una condivisione intergenerazionale degli oneri (par. 220 della sentenza). Al riguardo, ampi argomenti sul perché la Corte avrebbe dovuto estendere tale eccezione anche a un contesto di gravissimo e incontrollato degrado ambientale sono fornite nelle condivisibili opinioni dei giudici Krenc e Serghides, cui dunque si rinvia integralmente (si veda anche Tigroudja).

Quanto ai ricorrenti individuali, l’eccezione del Governo era duplice: da un lato, sottolineava l’assenza di un provato nesso causale tra le violazioni lamentate e il danno asseritamente subito da tutti i ricorrenti; dall’altro lato, evidenziava come alcuni dei ricorrenti, o i loro parenti deceduti a causa di patologie cancerogene asseritamente derivanti dagli agenti tossici in questione, non risiedessero nell’area individuata nella legislazione nazionale come incisa dal fenomeno.

Al fine di pronunciarsi, la Corte ha fatto riferimento alla propria giurisprudenza secondo cui in tali casi esiste un obbligo positivo di protezione della vita laddove sia possibile dimostrare la “conoscenza” da parte dello Stato dell’esistenza di un “rischio reale ed imminente” per la vita degli individui. Senonché la giurisprudenza precedente, in casi simili, non si accontentava, ai fini dell’applicabilità dell’art. 2, dell’esposizione a una fonte di inquinamento potenzialmente idonea a produrre effetti dannosi per la salute e la vita, ma richiedeva la dimostrazione di un nesso tra la fonte di inquinamento e lo sviluppo di una patologia implicante un rischio per la vita, che veniva escluso in caso di dubbio (ad esempio, L.C.B. c. Regno Unito, 1998, par. 39; Di Sarno e altri c. Italia, 2012, par. 108; Brincat e altri c. Malta, 2014, parr. 83-85). Era invece solo con riferimento all’art. 8 che, nella giurisprudenza passata, la Corte aveva escluso la necessità della dimostrazione di un nesso causale, notando come questa disposizione garantisca più genericamente il diritto a una certa qualità di vita, e che l’esposizione a fonti di inquinamento necessariamente rende più vulnerabili a contrarre certe malattie (ad esempio, Tatar c. Romania, 2009, par. 94; Di Sarno e altri c. Italia, 2012, par. 108; Brincat e altri c. Malta, 2014, par. 85); questo sulla base del rilievo per cui tale disposizione non protegge solo da danni concreti alla salute e al benessere di una persona, ma anche dal rischio di tali danni, ove sia sufficientemente connesso al godimento di tali diritti, e quindi implica anche obblighi degli Stati di evitare o ridurre tale rischio (Verein KlimaSeniorinnen Schweiz and Others c. Svizzera, 2024, par. 437).

Nella sentenza Cannavacciuolo la Corte ha esteso all’art. 2 l’approccio precedentemente applicato solo con riferimento all’art. 8, eliminando la necessità della prova di un pregiudizio già esistente, e accontentandosi di un serio rischio affinché sorgano obblighi positivi di protezione del diritto alla vita, che in tal modo risulta davvero protetto in modo concreto ed effettivo (Acconciamessa e Hamann).

Ed infatti, la Corte ha accertato l’esistenza di un serio rischio per la vita umana come conseguenza all’esposizione alle sostanze in questione (parr. 385-386 della sentenza), e la consapevolezza da parte delle autorità di tale rischio (par. 387). Non ha richiesto altro: ha infatti aggiunto che “nonostante gli studi iniziali non hanno dimostrato una sicura, diretta correlazione tra l’esposizione all’inquinamento generato dallo smaltimento illegale di rifiuti e l’insorgere di certe malattie, hanno sollevato delle credibili preoccupazioni prima facie relative a serie, e potenzialmente letali conseguenze per la salute dei cittadini interessati, individualmente e collettivamente, rispetto alle quali ulteriori ricerche erano urgentemente necessarie come priorità” (par. 388 della sentenza). Sulla base di tali elementi, la Corte ha concluso che, prendendo in considerazione la natura del fenomeno in questione, vi fossero elementi sufficienti per ritenere che esistesse un rischio grave ed imminente per la vita (part. 390 della sentenza). A conclusione del ragionamento, la Corte ha aggiunto che un rischio porta al sorgere dell’obbligo anche quando non sia scientificamente certo: “in linea con un approccio precauzionale, in ragione del fatto che il rischio generale fosse conosciuto da lungo tempo, il fatto che non vi sia certezza scientifica sui precisi effetti che l’inquinamento possa aver avuto sulla salute di un ricorrente specifico non può negare l’esistenza di un obbligo di protezione, di cui uno degli elementi più importanti è la necessità di indagare, identificare e valutare la natura e il livello del rischio. Concludere diversamente nelle specifiche circostanze del caso concreto permetterebbe allo Stato di invocare il mancato adempimento o il ritardo nell’adempimento di un obbligo per negare la vera esistenza dell’obbligo in questione, in tal modo rendendo non effettiva la protezione fornita dall’art. 2” (par. 391 della sentenza).

Ora, se quanto al nesso di causalità la Corte ha adottato un approccio innovativo, favorevole ai ricorrenti, ha adottato un approccio completamente diverso quanto al secondo aspetto dell’eccezione del Governo.

Per individuare i soggetti lesi dalla violazione lamentata, la Corte ha fatto riferimento a una lista stilata dal Governo che ha definito l’area geografica qualificata come Terra dei fuochi (par. 7). La Corte ha anche notato con un rapporto del dodicesimo Comitato salute e igiene del Senato avesse espressamente affermato che il problema era estremamente peculiare in ragione di una serie di caratteristiche specifiche, in particolare (1) il fatto che non fosse limitato a un certo numero di fonti di inquinamento facilmente identificabili; (2) le diverse modalità con cui le sostanze inquinanti si sono diffuse e, di conseguenza, le diverse modalità con cui gli individui vi sono entrati in contatto; (3) la difficoltà di individuare le popolazioni a rischio. Sulla base di ciò, il Senato aveva affermato che “la lista dei comuni identificati nella legislazione e nei decreti era stata preparata sulla base di presunzioni; tuttavia, questo non significa che certe aree che non erano state incluse nella lista non fossero in realtà incise dal fenomeno” (par. 73 della sentenza). Tuttavia, la Corte ha rapidamente risposto che “senza mettere in dubbio il fondamento presuntivo della delimitazione dell’area geografica, la Corte considera che le autorità nazionali erano indubbiamente in possesso di prove e informazioni che le hanno indotte a identificare i comuni in questione, e non spetta alla Corte mettere in dubbio tale valutazione, che le autorità sono in una posizione migliore per compiere” (par. 247 della sentenza). Ha poi aggiunto di non avere “prove sufficienti a propria disposizione per concludere che i ricorrenti in questione vivessero, o che i loro parenti abbiano vissuto, in aree toccate dal fenomeno di inquinamento” (par. 248 della sentenza). Sulla base di ciò, ha concluso che i ricorrenti residenti, o i loro parenti deceduti che risiedevano, al di fuori dell’area individuata dal Governo, non potevano considerarsi vittime (par. 227 della sentenza).

Tale approccio sembra criticabile. È vero che la Corte lo aveva già adottato in Cordella e altri c. Italia, relativamente all’inquinamento derivante dall’Ilva. Tuttavia, in quel caso, la Corte aveva affermato che “i ricorrenti non hanno presentato degli elementi idonei a mettere in discussione l’estensione dell’area in questione” (par. 103). Nel caso Cannavacciuolo, invece, i ricorrenti avevano contestato fortemente, tanto nel rispondere all’eccezione di assenza di status di vittima (par. 248 della sentenza), quanto nelle loro doglianze nel merito (parr. 303 e 313), la delimitazione effettuata dal Governo, osservando che (1) l’inquinamento dell’aria derivante dall’incenerimento e il rilascio di agenti contaminanti nei corsi d’acqua sono in grado di diffondersi facilmente oltre i confini dei comuni; (2) alcuni comuni non inclusi nella lista sono adiacenti, o in certi casi completamente circondati, da comuni che sono inclusi nella stessa; e (3) altri comuni, seppur non inclusi nella lista, sono stati definiti dalle autorità come “luoghi di interesse nazionale” che necessitano di essere decontaminati.

La stessa Corte aveva in passato affermato di non poter fare cieco affidamento, ai fini della determinazione dello status di vittima in materia ambientale, sulle determinazioni delle autorità nazionali (Tatar c. Romania, 2009, par. 96), specialmente quando queste sono chiaramente incoerenti o si contraddicono. In questi casi, ha detto la Corte, è essa stessa a dover esaminare la totalità delle prove disponibili, come la versione dei fatti data dai ricorrenti, certificati medici, e rapporti e studi realizzati da enti e istituti privati (Dubetska e altri c. Ucraina, 2011, par. 107). In simili casi, la Corte si è anche ampiamente basata sulla nozione di prossimità alla fonte di inquinamento (Kotov e altri c. Russia, 2022, par. 102; Pavlov e altri c. Russia, 2022, par. 62).

In Cannavacciuolo, è stata la stessa Corte ad accertare che la delimitazione realizzata dal Governo non poteva ritenersi appropriata. Ed infatti, nel valutare se le autorità nazionali avessero rispettato l’obbligo di “realizzare una valutazione omnicomprensiva del fenomeno di inquinamento, in particolare identificando le aree interessate e la natura e l’estensione della contaminazione” (par. 395 della sentenza), ha notato come le stesse autorità avessero osservato che il problema era stato sottostimato (par. 404 della sentenza) ed era più vasto di quello accertato dalle autorità (par. 405 della sentenza). La Corte ha quindi ritenuto che le misure adottate dal Governo fossero state insufficienti (parr. 401-410 della sentenza), anche in quanto alcuni nuovi rapporti, datati 2018 e 2021, dimostravano che il fenomeno persiste, che nuove aree incise continuano ad essere scoperte e che non sono state adottate misure per aggiornare le aree (part. 411 della sentenza). Pertanto, nell’indicare misure generali, ha affermato che lo Stato è tenuto a sviluppare ulteriori misure volte a identificare le aree incise dal fenomeno in questione (part. 495 della sentenza), in quanto costituiscono un prerequisito essenziale per l’adozione di misure volte a gestire il rischio (part. 496 della sentenza).

Tutto ciò sembra in netta contraddizione con quanto affermato dalla Corte al par. 247, secondo cui le autorità avrebbero indubbiamente fondato la delimitazione geografica su prove e informazioni sufficienti.

 

L’assenza di rimedi interni e il rispetto del termine di sei mesi

Il Governo aveva anche eccepito che i ricorrenti avevano omesso di esaurire una serie di rimedi interni.

La Corte ha ritenuto ogni rimedio invocato dal Governo non effettivo. Quanto ai rimedi di carattere risarcitorio – come l’azione di risarcimento ai sensi dell’art. 2043 del codice civile – ha notato come la doglianza dei ricorrenti riguardasse l’omissione dello Stato di prendere misure protettive appropriate, tra cui la decontaminazione delle aree, e ha quindi concluso che il rimedio non avrebbe fornito una riparazione sufficiente (part. 273 della sentenza). Quanto alla possibilità di sottoporre un reclamo al Ministro dell’ambiente, ha notato come si tratti di un rimedio gerarchico e discrezionale, che non conferisce al reclamante un diritto a un’azione specifica del Ministro, che mantiene ampio margine di discrezionalità (par. 274 della sentenza), e che il Governo non aveva in ogni caso provato in che termini il rimedio in questione avrebbe potuto concretamente offrire una riparazione ai ricorrenti. Da ultimo, la Corte ha ritenuto che il Governo non avesse dimostrato in che modo un’azione collettiva avrebbe fornito una riparazione adeguata rispetto alle circostanze specifiche del caso (par. 276 della sentenza).

Da ultimo, il Governo aveva eccepito che tutti i ricorsi erano stati esperiti oltre il termine di sei mesi dal momento in cui i ricorrenti avrebbero avuto conoscenza dell’esposizione al rischio lamentato.

La Corte ha distinto situazioni diverse. Quanto ai ricorrenti che agivano come vittime dirette delle omissioni lamentate, e che risiedono nei comuni rientranti nell’area della Terra dei fuochi, ha ritenuto che la violazione lamentata abbia natura continua e che, persistendo ancora oggi, il termine di sei mesi non ha ancora cominciato a decorrere (par. 283 della sentenza). Per quanto riguarda i ricorrenti che agivano come vittime dirette, ma che a un certo momento hanno smesso di risiedere nell’area, ha considerato che la violazione lamentata fosse cessata al momento del trasferimento (par. 284 della sentenza). Per i ricorrenti che agivano come vittime indirette in ragione del decesso dei propri familiari, ha considerato che la violazione fosse cessata al momento del decesso (par. 285 della sentenza). Pertanto, in assenza di rimedi interni, e in applicazione dei principi generali rilevanti, la Corte ha ritenuto che il termine di sei mesi cominciasse a decorrere dal momento in cui i ricorrenti erano divenuti “consapevoli” del rischio a cui essi o i loro familiari erano esposti (par. 286 della sentenza).

La Corte ha quindi cercato di identificare il momento in cui tale consapevolezza potesse dirsi esistente, sulla base di una serie di indici fattuali: (1) nell’ottobre 2013 le dichiarazioni rese nel 1997 da collaboratore di giustizia al Parlamento erano state declassificate e rese pubbliche; e (2) il primo atto normativo che aveva affrontato il problema, il decreto legge n. 136 del 10 dicembre 2013, aveva definito la situazione come “emergenza ambientale” e ha espressamente fatto riferimento alla gravità della situazione per la salute della popolazione della Campania, e aveva adottato “misure urgenti e straordinarie” per la protezione della salute e la decontaminazione delle aree interessate; (3) poco dopo, il 23 dicembre 2013, era stato adottato il primo decreto inter-ministeriale volto alla individuazione dei comuni inclusi nella Terra dei fuochi. La Corte ha quindi ritenuto che, sulla base di tali atti, lo Stato avesse pubblicamente riconosciuto la gravità del fenomeno e del rischio che ne derivava, e ha concluso che il 31 dicembre 2013 fosse il momento a partire dal quale potesse ritenersi che i ricorrenti fossero sufficientemente a conoscenza del rischio cui erano esposti (par. 292 della sentenza).

Sulla base di ciò la Corte ha concluso che: per i soggetti morti prima di tale data, il ricorso avrebbe dovuto essere introdotto entro 6 mesi dalla stessa; per i soggetti morti dopo tale data, il ricorso avrebbe dovuto essere introdotto entro 6 mesi dal decesso; per i ricorrenti che era sono trasferiti dall’area interessata prima di tale data, il ricorso avrebbe dovuto essere introdotto entro sei mesi dalla stessa.

 

La violazione riscontrata

Quanto al merito, la Corte ha ritenuto che vi fosse stato una violazione di tutti gli obblighi che la stessa ha ritenuto sussistere, ai sensi dell’art. 2 CEDU, in una situazione quale quella del caso, segnatamente: (1) l’obbligo di identificare le aree inquinate e verificare il livello di inquinamento dell’aria, del suolo e dell’acqua (parr. 398- 411); (2) l’obbligo di adottare misure volte a mitigare il rischio (parr. 412-423); (3) l’obbligo di indagare l’impatto del fenomeno in questione sulla salute della popolazione (parr. 424-430); (4) l’obbligo di combattere il fenomeno in questione, tramite il monitoraggio del territorio da parte delle forze dell’ordine (parr. 432-434), l’istituzione di indagini e processi penali contro i responsabili (parr. 435-447) e l’adozione di misure volte a risolvere il problema della gestione dei rifiuti (parr. 448-453); e, da ultimo, (5) l’obbligo di informare la popolazione dei rischi generati dal fenomeno per la loro salute e la loro vita, in modo da consentire eventuali scelte consapevoli al riguardo (parr. 454-458).

Nel complesso, la Corte ha ritenuto che le misure adottate dallo Stato siano state estremamente tardive (par. 460) e che, anche quando tali misure hanno cominciato ad essere implementate, sono state isolate e insufficienti e, data la mancanza di coordinamento tra le autorità a vario titolo coinvolte, si sono rivelate non effettive (parr. 461-462).