È discriminatoria l’esclusione di un lavoratore straniero dal beneficio degli assegni familiari per non aver provato l’ingresso regolare dei figli minori, nati in un Paese terzo, nel territorio di uno Stato membro.

  1. Con la sentenza del 19 dicembre 2024, nella causa C-664/23, la Corte di Giustizia dell’Unione europea si è pronunciata in merito ad una questione pregiudiziale sollevata dalla Cour d’appel de Versailles (Corte d’appello di Versailles). Quest’ultima, in qualità di giudice del rinvio, ha manifestato i propri dubbi sulla corretta interpretazione dell’articolo 12, paragrafo l, lettera e) della Direttiva 2011/98/EU. Tale disposizione sancisce il diritto dei lavoratori di Paesi terzi, titolari di un permesso di soggiorno che consente loro di lavorare in uno Stato membro dell’Unione, di beneficiare dello stesso trattamento riservato ai cittadini dello Stato membro in cui soggiornano nei settori della sicurezza sociale, come definiti dal Regolamento (CE) n. 883/2004.
    Il giudice di Versailles si è interrogato, alla luce della recente evoluzione della giurisprudenza europea, sempre più aperta nel rafforzare il principio di parità di trattamento in materia previdenziale (a titolo esemplificativo si vedano le sentenze del 24 aprile 2012, Kamberaj, C- 571/10, del 21 giugno 2017, Martinez Silva , C-449/16, nonché la sentenza del 20 novembre 2020, C-302/19 – cosiddetta “sentenza INPS”), se l’articolo 12 richiamato osti ad una normativa nazionale che vieta di considerare rilevanti ai fini dell’erogazione di una prestazione di previdenza sociale ad un soggetto titolare di permesso unico i figli nati in un Paese terzo. In particolare, il giudice francese si riferisce all’ipotesi in cui tali figli non siano entrati nel territorio dello Stato membro tramite ricongiungimento familiare ovvero non siano stati prodotti documenti che comprovino la regolarità del loro ingresso nel territorio di tale Stato, considerato che la sussistenza di tale requisito non è richiesta per i figli dei cittadini nazionali o di altro Stato membro.

 

  1. La questione è sorta in relazione ad una controversia che ha coinvolto TX – cittadino armeno, titolare di una carta di soggiorno “vita privata e familiare” (articolo L423-23 del Code de l’entrée et du séjour des étrangers et du droit d’asile (CESEDA)) -, e la Caisse d’allocation familiales des Hautes-de-Seinne (Cassa per assegni familiari del dipartimento Hauts-de-Seinne, Francia; d’ora in poi la “CAF”), la quale, nel valutare i diritti di TX alle prestazioni familiari previste dalla normativa previdenziale francese (si rimanda all’articolo L. 512-2 del Codice della previdenza sociale), si è rifiutata di prendere in considerazione due dei suoi tre figli minori, in quanto nati in un Paese terzo ed entrati irregolarmente in Francia.
    A fronte di tale rigetto TX ha presentato ricorso al Tribunal des affaires de sécurité sociale de Nanterre (Tribunale della previdenza sociale di Nanterre, Francia), che, con la sentenza del 21 dicembre 2018, ha accolto integralmente le sue istanze, riconoscendogli il diritto alle prestazioni familiari con decorrenza direttamente dalla data di presentazione della domanda, considerando, ai fini della determinazione del quantum, anche i due figli minori nati all’estero. Tuttavia, tale pronuncia è stata successivamente annullata dalla Cour d’appel de Versailles, che, nel novembre 2019, si è limitata a confermare l’iniziale decisione della CAF. La controversia è così giunta dinnanzi alla Cour de Cassation (Corte di cassazione, Francia) che, nel giugno 2022, ha annullato quanto deciso in secondo grado per “difetto di motivazione”, rinviando la causa alla Cour d’appel de Versailles in diversa composizione.
    Nel valutare la vicenda, quest’ultima ha deciso di sollevare alcune questioni pregiudiziali dinanzi alla Corte di giustizia, al fine di valutare la compatibilità della normativa francese con la normativa europea applicabile al caso di specie. In particolare, il giudice del rinvio ha ritenuto di esaminare la controversia alla luce della Direttiva 2011/98/EU, ravvisandone i presupposti applicativi. Infatti, da un lato, le prestazioni familiari oggetto di controversia ricadono nell’ambito di applicazione del Regolamento n. 883/2004, che all’articolo 1, lettera z) definisce quest’ultime come “tutte le prestazioni in natura o in denaro destinate a compensare i carichi familiari […]”, a cui rinvia proprio l’articolo 12, paragrafo 1, lett. e) della direttiva menzionata; dall’altro, TX, essendo titolare di permesso unico, è un cittadino di un Paese terzo ammesso a lavorare in uno Stato membro e, conseguentemente, nei suoi confronti deve trovare applicazione il principio di parità di trattamento di cui all’articolo 12, paragrafo 1, lettera e). Il giudice del rinvio ha innanzitutto osservato che, nonostante l’articolo 12, paragrafo 2, lettera b) della citata Direttiva riconosca in capo agli Stati membri la facoltà di limitare la portata applicativa del principio di parità di trattamento in funzione dello status di determinati cittadini di Paesi terzi, alcuna facoltà di deroga viene prevista con riferimento alle condizioni dei familiari del beneficiario di un permesso unico giunti nel territorio dello Stato membro ospitante (come invece previsto nella normativa francese).
    Dubbi interpretativi sono stati sollevati altresì in relazione ai considerando n. 20 e 24 della citata Direttiva, i quali, per l’individuazione dei titolari dei diritti discendenti dalla Direttiva, fanno riferimento ai familiari del lavoratore di un Paese terzo ammessi tramite la procedura di ricongiungimento familiare (v. Direttiva 2003/86/CE relativa al diritto al ricongiungimento familiare). Rispetto a tali considerando, il giudice del rinvio ha anzitutto ribadito che le prestazioni familiari in esame non sono versate ai familiari dei lavoratori stranieri, bensì al richiedente in ragione del numero di figli a carico. Inoltre, il giudice francese ha manifestato perplessità, alla luce della sentenza del 25 novembre 2020 resa nella causa C-302/19 (la cosiddetta “Sentenza INPS”), relativamente all’applicazione delle norme in materia di ricongiungimento familiare per la determinazione del diritto alle prestazioni di sicurezza sociale di un soggetto titolare di permesso unico. Quest’ultima pronuncia – concernente una controversia relativa all’ inclusione dei figli e della coniuge residenti all’estero tra i beneficiari ai fini dell’erogazione dell’Assegno per il nucleo familiare per un lavoratore straniero titolare di permesso unico lavoro –, non solo ha ampliato i profili applicativi del principio di parità di trattamento di cui all’articolo 12, paragrafo 1, ma ha contestualmente fortemente limitato, in capo agli Stati membri, la facoltà di deroga rispetto a tale principio nel settore in esame, cioè quello della previdenza sociale (cfr. A. Guariso, Cittadini extra – UE e accesso alle prestazioni di assistenza in Immigrazione, asilo e cittadinanza, VI ed., pagg. 569-570; L. Ricci, ANF per familiari all’estero: l’incerta fine della discriminazione in italianequalitynetwork, 24 maggio 2023). In terzo ed ultimo luogo, il giudice del rinvio ha messo in luce come la portata innovativa di quest’ultima pronuncia sia stata talmente pregnante dall’aver condotto la stessa Commissione europea, nell’aprile del 2022, a presentare una proposta di revisione della Direttiva 2011/98/UE, prevedendo, tra l’altro, di modificare il già citato considerando n. 24 al fine di allinearlo ai principi di diritto contenuti nella cosiddetta “Sentenza INPS”. Sul punto si rammenta che, in tale pronuncia, lo stesso giudice europeo aveva precisato come il contenuto di tale considerando non fosse stato ripreso da alcuna disposizione della Direttiva 2011/98/EU (cfr. “Sentenza INPS”, punto n. 31).

 

  1. Per risolvere i dubbi interpretativi sollevati dal giudice francese, la Corte di Giustizia ha preso le mosse dall’interpretazione del considerando 26 della Direttiva 2011/98, come già aveva fatto nella nota “Sentenza INPS”. In tale pronuncia i giudici di Lussemburgo hanno chiarito che, sebbene in caso di mancanza di armonizzazione a livello unionale, spetti a ciascuno Stato membro stabilire le condizioni per la concessione delle prestazioni di sicurezza sociale, il diritto alla parità di trattamento previsto dalla Direttiva 2011/98/EU costituisce “la regola generale” e le deroghe previste dalla Direttiva non possono che essere interpretate “restrittivamente”. Segnatamente le deroghe previste dalla normativa europea “possono essere invocate solo qualora gli organi competenti nello Stato membro interessato per l’attuazione di tale direttiva abbiano chiaramente espresso l’intenzione di avvalersi delle stesse” (si vedano i punti 20 e 23 della “Sentenza INPS” e sentenza del 5 ottobre 2010, Elchinov, C-173/09, punto 40).
    Quanto al caso di specie, la Corte ha ricordato che l’articolo 12, paragrafo 1, lettera e)
    in combinato disposto con l’articolo 3, paragrafo 1, lettera c) sancisce indubbiamente il diritto alla parità di trattamento tra i cittadini nazionali e cittadini di Paesi terzi ammessi ai fini lavorativi in uno Stato membro nei settori della previdenza sociale. Ebbene, dal momento che la normativa applicata dalla CAF preclude ai cittadini di Paesi terzi titolari di un permesso unico l’accesso alle medesime condizioni dei cittadini francesi alle misure di prestazione familiare per i figli (imponendogli, peraltro, un sistema di certificazione più gravoso), è evidente che la disciplina previdenziale francese realizzi un trattamento concretamente meno favorevole per i cittadini stranieri. Pertanto, essa si pone in contrasto con il principio di parità di trattamento e, di conseguenza, non può/deve essere applicata.
    Inoltre, la normativa francese si pone in violazione dell’articolo 12, paragrafo 2, lettera b) della citata Direttiva, che, tra le ipotesi tassative di deroghe al diritto di parità di trattamento, non contempla alcuna possibilità rispetto ad un lavoratore titolare di permesso unico i cui figli, nati in un Paese terzo, non dimostrino di essere regolarmente entrati nel territorio dello Stato membro. A ciò si aggiunge il fatto che eventuali deroghe al principio di parità di trattamento possono essere invocate solo nell’ipotesi in cui gli organi competenti dello Stato membro per l’attuazione della Direttiva abbiano manifestato esplicitamente l’intenzione di avvalersene (cfr. punto 26 della “Sentenza INPS”). Tuttavia, il governo francese non ha mai espresso la volontà di avvalersi di tale facoltà. Ne discende così che, secondo il giudice europeo, uno Stato membro non può fare appello al proprio obbligo di vigilanza rispetto alla normativa relativa al ricongiungimento familiare per giustificare una mera deroga al principio di parità di trattamento mai prevista dal legislatore unionale nella Direttiva 2011/98/EU.

 

  1. In conclusione, è possibile evidenziare come, in tema di parità di trattamento di cui all’articolo 12, paragrafo 1 della Direttiva 2011/98/EU, la giurisprudenza europea continui a confermarne l’inflessibilità e l’ampia portata, rafforzando maggiormente l’indirizzo interpretativo già adottato anche nella “Sentenza INPS”: il principio di parità di trattamento in favore dei titolari di permesso unico lavoro può essere derogato solo in ipotesi espressamente previste dalla Direttiva 2011/98/EU. Dunque, volgendo lo sguardo al diritto nazionale italiano, vale sottolineare come tale pronuncia potrà avere dei riflessi sulla normativa interna in materia di Assegno unico universale di cui al D. lgs. 230/2021, che ad oggi rappresenta l’unico strumento di sostegno al reddito per i figli a carico. Rispetto a tale strumento, preme brevemente precisare che, lo scorso luglio, la Commissione europea, dopo aver avviato una procedura di infrazione, ha deferito l’Italia alla Corte di Giustizia, ravvisandovi dei profili di incompatibilità con il diritto unionale per violazione del principio della parità di trattamento: entrambi i requisiti, la residenza biennale in Italia e la presenza – sempre in Italia – dei figli concretizzano difatti una discriminazione nei confronti dei lavoratori mobili dell’Unione europea (v. comunicato stampa della Commissione europea). Tornando, però, ai riflessi della pronuncia in esame rispetto alla disciplina nazionale, è necessario premettere che per l’erogazione di tale prestazione si fa riferimento all’articolo 3 del D.P.C.M n. 159/2013 (“Regolamento concernente la revisione delle modalità di determinazione e i campi di applicazione dell’Indicatore della situazione economica equivalente (ISEE)”), che definisce il nucleo familiare come l’insieme dei “soggetti componenti la famiglia anagrafica alla data di presentazione della DSU”. La conseguenza è l’automatica esclusione dei familiari irregolari dal novero dei membri appartenenti alla famiglia anagrafica ed è questo il caso dei figli minori che, non entrati regolarmente nel territorio italiano, non risultano ancora iscritti al registro nazionale anagrafico (cfr. A. Guariso, Cittadini extra – UE e accesso alle prestazioni di assistenza in Immigrazione, asilo e cittadinanza, VI ed., pagg. 566 e ss.). Ne discende de facto l’impossibilità per il genitore di accedere al godimento di tale sostegno al reddito, in quanto tale prestazione è strettamente correlata al numero dei figli a carico. Sotto tale profilo sarà quindi necessario un adattamento, da parte del legislatore nazionale, della normativa interna al fine di superare l’attuale impostazione che, come già chiarito, fa esclusivamente riferimento al nucleo familiare anagrafico nell’ottica di estendere il godimento di tale prestazione anche nei confronti dei cittadini stranieri, i cui figli minori per diverse ragioni non risultano ancora iscritti nei registri anagrafici.