L’ “origine etnica” quale fattore di discriminazione nella legislazione urbanistica in Danimarca
- Il 13 Febbraio 2025 sono state pubblicate le Conclusioni dell’Avvocata generale Ćapeta nella causa Slagelse Almennyttige Boligselskab, riguardante la regolamentazione dell’edilizia residenziale pubblica in Danimarca. Nel caso in esame, vertente sull’interpretazione dell’articolo 2, paragrafo 2, lettere a) e b) della direttiva 2000/43/CE, che attua il principio della parità di trattamento fra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica, la Corte dovrà chiarire la definizione di “origine etnica” ai sensi della direttiva e individuare i confini tra discriminazione diretta e indiretta basata su tale criterio. La rilevanza di tale attesa pronuncia è rafforzata anche dalla limitata giurisprudenza esistente sull’interpretazione della direttiva 2000/43/CE, nonostante il diritto antidiscriminatorio dell’UE abbia un impatto significativo sugli ordinamenti nazionali (M. Barbera, Alberto Guariso (a cura di), La tutela antidiscriminatoria: fonti, strumenti, interpreti, Torino, 2020).
- La vicenda oggetto del giudizio principale trae origine da più controversie pendenti presso i tribunali danesi, riguardanti la legislazione nazionale, la quale richiede l’elaborazione di nuovi piani urbanistici per l’edilizia pubblica in determinate aree residenziali dove la popolazione è costituita prevalentemente da «immigrati e loro discendenti provenienti da paesi non occidentali».
In particolare, la legge danese classifica le aree residenziali pubbliche in base a criteri demografici e socioeconomici, legati alle caratteristiche della popolazione ivi residente, quali il grado di occupazione lavorativa, il livello di criminalità, il grado di istruzione e il reddito medio dei residenti (nello specifico, punto n. 6 delle Conclusioni). Dunque, per “area residenziale vulnerabile” si intende un’area che soddisfa due dei criteri prima menzionati. Invece, una “una società parallela” (in precedenza definito “ghetto”) è un’area che soddisfa due dei quattro criteri socioeconomici, al pari di un’area residenziale vulnerabile, ma nella quale, inoltre, più del 50% dei residenti è costituito da «immigrati e loro discendenti provenienti da paesi non occidentali». Il giudice del rinvio ha ricavato il contenuto della distinzione tra “occidentali” e “non occidentali” dai documenti dall’Istituto danese di statistica (punto n. 10 delle Conclusioni). Infine, un’“area di trasformazione” (in precedenza, “area a forte ghettizzazione”) è un’area che ha soddisfatto i criteri di qualificazione come società parallela nei cinque anni precedenti.Nel 2018, a seguito delle modifiche alla legge sugli alloggi pubblici, le società che gestiscono l’edilizia residenziale pubblica e il consiglio comunale devono precisare, nel piano urbanistico, le modalità di riduzione al 40%, entro l’1 gennaio 2030, della percentuale di alloggi pubblici nelle “aree di trasformazione”. L’obiettivo dei nuovi piani urbanistici è disincentivare i fenomeni di ghettizzazione residenziale e sociale, evitando così la concentrazione in suddette zone di residenti privi di legami con la società danese.
Immaginando una Danimarca “senza società parallele” (Ü. Tireli, Shaping Strict Migrant Policies through Housing Strategies in Denmark, in Migration and Diversity, 2024, p. 151 ss.), i piani urbanistici prevedono la vendita di immobili a privati, la demolizione o la conversione degli alloggi, con conseguente risoluzione dei contratti di locazione. In tali casi, i comuni devono offrire ai residenti delle aree di trasformazione una nuova soluzione alloggiativa, coprendo i relativi costi.
Nel caso di specie, nelle due aree di trasformazione cui opera il nuovo piano urbanistico, Ringparken (a Slagelse) e Mjølnerparken (a Copenaghen), si è prevista la risoluzione unilaterale di più contratti di locazione di alloggi pubblici. Chiamato a pronunciarsi sull’illegittimità del piano urbanistico su richiesta dei locatari privati dell’alloggio, il giudice del rinvio si è chiesto se tale risoluzione unilaterale del contratto di locazione, discendente dalla legge sugli alloggi pubblici, possa essere qualificata come discriminazione sulla base dell’origine etnica in violazione della direttiva 2000/43/CE. Infatti, il giudice ritiene non sia possibile dedurre dalla formulazione dell’articolo 2 paragrafo 2, lettere a) e b), della direttiva o dalla giurisprudenza della Corte di giustizia, se il termine “origine etnica”, in circostanze come quelle del caso di specie, debba essere interpretato nel senso che ricomprenda un gruppo di persone definite come «immigrati e loro discendenti provenienti da paesi non occidentali». In caso di risposta affermativa, il giudice ha richiesto chiarimenti alla Corte anche sulla natura, diretta (Articolo 2, paragrafo 2, lettera a) della direttiva 2000/43 CE) o indiretta (Articolo 2, paragrafo 2, lettera b) della direttiva 2000/43/CE), di tale discriminazione.
- La direttiva in questione, in conformità con l’articolo 19 TFUE, si fonda sulla considerazione che le discriminazioni razziali ed etniche ostacolino il raggiungimento degli obiettivi stabiliti dal trattato CE. Tali discriminazioni, infatti, rischiano di compromettere l’occupazione, la protezione sociale, il miglioramento delle condizioni di vita e la qualità di queste, nonché la coesione economica e sociale e la solidarietà (considerando n. 9 della direttiva). Il contrasto alle discriminazioni all’interno dell’UE è rafforzato, inoltre, dagli articoli 21 e 21 della Carta di Nizza, che sanciscono rispettivamente il principio di uguaglianza davanti alla legge e di non discriminazione.
L’ampio ambito applicativo della direttiva costituisce uno degli elementi più di rilievo della normativa, posto che il divieto di non discriminazione sulla base della razza e dell’origine etnica si estende a diverse prestazioni sociali, quali l’assistenza sanitaria, l’istruzione, la sicurezza sociale. Ed anzi, tale divieto è suscettibile di applicazione più rigorosa in riferimento proprio ai servizi più che al settore lavoristico.
Ciononostante, la direttiva 2000/43/CE è lacunosa nel tracciare i contorni dei fattori di discriminazione vietati. Effettivamente, permangono in dottrina opinioni contrastanti proprio in merito all’impiego di nozioni così controverse quali parametri di valutazione giuridica (C. Favilli, La non discriminazione nell’Unione europea, Torino, 2008; C. Nardocci, Razza e etnia, Napoli, 2016). Invece, minori criticità si riscontrano nella ricognizione dei comportamenti potenzialmente discriminatori, data l’indicazione di quattro tipologie di discriminazioni vietate (diretta, indiretta, molestia e ordine di discriminare).
Nel caso di specie, le aree di trasformazione, soggette a riduzione secondo i nuovi piani urbanistici, si distinguono dalle altre aree residenziali pubbliche solo per la maggiore presenza di residenti “immigrati e loro discendenti provenienti da paesi non occidentali”. In assenza di indicazione su cosa debba intendersi per “origine etnica” ai sensi della direttiva, il giudice del rinvio, con la prima questione pregiudiziale, chiede se la distinzione tra immigrati “occidentali” e “non occidentali” e loro discendenti costituisca una distinzione fondata sull’origine etnica ai sensi di tale direttiva. La società che gestisce l’edilizia residenziale pubblica sostiene che tale nozione non sia fondata sull’origine etnica, bensì sulla nazionalità, che è infatti esclusa dall’ambito di applicazione della direttiva ai sensi del suo articolo 3, paragrafo 2. La ratio di tale esclusione è legata alla volontà di rispettare la competenza nazionale in materia di immigrazione; tuttavia, tale esclusione rischia di consentire differenze di trattamento in ragione della nazionalità che costituiscono, invece, discriminazione basate sulla razza o origine etnica (D. Stazzari, Discriminazione razziale e diritto. Un’indagine comparate per un modello “europeo” dell’antidiscriminazione, Padova, 2008).
- L’Avvocata generale ha sviluppato le proprie argomentazioni a partire da talune questioni preliminari, ossia dalla natura stessa della prestazione sociale in oggetto, facendo rientrare l’alloggio pubblico nell’ambito di applicazione dell’articolo 3, paragrafo 1, lettera h) della direttiva. Ne deriva che uno Stato membro conserva la libertà di organizzare un sistema di alloggi pubblici e di determinare i criteri di accesso; tuttavia, nell’adottare tali norme, non può discriminare sulla base della razza o dell’origine etnica, in virtù della competenza europea stabilita dall’articolo 19 TFUE (punto n. 47 delle Conclusioni).
In seguito, per rispondere al primo quesito pregiudiziale, l’Avvocata generale ha esaminato il concetto di “origine etnica”, osservando come il legislatore dell’Unione abbia incluso questo fattore di discriminazione accanto a quello di “razza” per sottolineare il legame tra queste nozioni e i costrutti sociali, piuttosto che con comuni e specifiche caratteristiche ereditate. Effettivamente, una parte della dottrina ha sottolineato come l’opzione “origine etnica” invece che “etnia” determini lo spostamento del focus delle tutele dallo status attuale di una persona, o gruppo di persone, al loro passato, per poi generare una serie di interrogativi per i quali non si rinviene una posizione univoca e condivisa.
Pertanto, il termine “origine etnica” deve comunque essere interpretato in combinazione con il termine “razza”, nel senso di «percezione, in una determinata società, dell’esistenza di un gruppo che può essere riconosciuto come diverso, sulla base di determinate caratteristiche socioculturali quali la lingua, la letteratura, la musica, i costumi o altri elementi analoghi», determinando una divisione tra “noi” e “loro”, in cui la linea di demarcazione dipende da determinate caratteristiche fisiche e socioculturali o, quanto meno, dalla percezione dell’esistenza di differenze in tali caratteristiche (punto n. 73 delle Conclusioni).
Inoltre, l’Avvocata ha evidenziato le differenze anche rispetto ai due soli precedenti giurisprudenziali in materia: il caso CHEZ aveva, infatti, determinato l’ingresso della discriminazione indiretta su base etnica per associazione; mentre nel caso Feryn venivano chiariti i contorni della discriminazione diretta su base etnica di carattere collettivo. Nel caso di specie, il gruppo dei “non occidentali” cui fa riferimento la normativa danese, non è infatti un gruppo etnicamente omogeneo e, conseguentemente, la questione sollevata attiene alla discriminazione nei confronti di tutte le etnie salvo quella dominante nella società di cui trattasi. Per l’Avvocata generale, il fatto che gli «immigrati e loro discendenti provenienti da paesi non occidentali» non costituiscano, di per sé, un gruppo etnico omogeneo, è irrilevante se il criterio sulla base del quale essi sono stati collocati in tale gruppo è quello dell’origine etnica. Peraltro, l’interpretazione opposta ostacolerebbe una lotta efficace contro le discriminazioni fondate sull’origine etnica. Sulla base di tale considerazione, l’Avvocata suggerisce alla Corte di dichiarare che la situazione tra immigrati occidentali e non occidentali e loro discendenti sia fondata sull’origine etnica.
Accertata la sussistenza del criterio etnico discriminatorio, l’Avvocata riflette sulla forma di discriminazione, a partire dalle definizioni di discriminazione diretta e indiretta contenute nella direttiva 2000/43/CE, facendo emergere, nel caso di specie, la forma di discriminazione diretta, manifestatasi nella risoluzione unilaterale dei contratti di locazione e nel fenomeno di stigmatizzazione nei confronti dei locatari delle aree di trasformazione. Ai sensi della direttiva, sussiste discriminazione diretta quando, a causa della sua razza od origine etnica, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra in una situazione analoga.
Il primo motivo a sostegno della natura di discriminazione diretta, spiega l’Avvocata, è che la normativa pone tali locatari in una posizione precaria in relazione alla sicurezza del loro diritto a un’abitazione, determinando così un trattamento meno favorevole rispetto ai residenti di altri quartieri in una situazione analoga, in cui la maggioranza della popolazione è di origine “occidentale”. In altri termini, anche se i locatari sono stati scelti in base a criteri diversi rispetto alla loro “origine etnica”, essi corrono un rischio maggiore di vedersi rescindere unilateralmente il contratto di locazione a causa del criterio etnico che viene utilizzato per classificare la loro zona residenziale (ciò accertabile anche tramite «semplici calcoli matematici», punto n. 162 delle Conclusioni).
Con riferimento alla conseguente stigmatizzazione del gruppo di residenti “non occidentali”, l’Avvocata ritiene che la normativa danese si basi su stereotipi e pregiudizi, e non su dati e basi scientifiche, data l’impossibilità di verificare se la scarsa conoscenza linguistica dei residenti e gli altri criteri socioeconomici escludano, di per sé, il desiderio dei residenti di integrarsi nella società danese (Punto n. 153 delle Conclusioni).
In definitiva, la ratio della modifica dei piani urbanistici, ossia quella di modificare la struttura delle aree residenziali pubbliche per favorire l’integrazione dei residenti, rischia solo di limitare, anziché aumentare, la possibilità di integrazione nella società danese.
- Come già accennato, il caso in esame è uno dei pochi relativi all’interpretazione della direttiva 2000/43. Tuttavia, l’omessa indicazione della definizione di “origine etnica” e l’esclusione della nazionalità quale criterio discriminatorio potrebbero, da un lato, depotenziare l’effetto utile della direttiva stessa ma, in alternativa, attraverso l’attività interpretativa della Corte, garantire ampi spazi di garanzia e tutela delle vittime di discriminazione, stabilendo criteri generali e ambiti applicativi uniformi in tutti gli Stati membri.
Allo stesso modo, il caso solleva interrogativi sui diversi modelli di interazione sociale elaborati dalle scienze sociali, ossia l’assimilazionismo e il pluralismo. La politica danese, congiuntamente anche ad altre politiche nazionali (Dalla Danimarca alla Spagna: ecco l’Europa dei quartieri ghetto, su IlSole24Ore, 15 Ottobre 2024), sembra promuovere più la prospettiva dell’assimilazione, sollevando dubbi di compatibilità con i principi di uguaglianza e non discriminazione.
In definitiva, la vicenda in esame, collocata anche nel contesto sociale europeo sempre più multiculturale e multietnico, dimostra anche la chiara consapevolezza che il contrasto alle discriminazioni si svolge in ambiti più ampi e complessi della società e delle sue strutture di aggregazione, assistenzialismo e rappresentanza.