Obbligo o diritto? La Corte di giustizia sull’integrazione dei beneficiari di protezione internazionale
- Il 4 febbraio 2025 la Corte di giustizia si è pronunciata nella causa C-158/23 Keren, affrontando il tema degli obblighi di integrazione civica per i beneficiari di protezione internazionale e delle conseguenze in caso di inadempimento. La sentenza ha offerto un’interpretazione dell’art. 34 della direttiva 2011/95/UE, che impone agli Stati membri di “facilitare, entro i limiti del possibile, l’assimilazione e la naturalizzazione dei rifugiati”.
La pronuncia solleva interrogativi più ampi: i programmi di integrazione devono essere considerati un diritto dei beneficiari di protezione internazionale o possono comportare obblighi il cui mancato adempimento può essere sanzionato? E fino a che punto gli Stati membri possono subordinare il godimento dei diritti da parte dello straniero al rispetto di requisiti di integrazione?
Il caso in esame riguarda un cittadino eritreo arrivato nei Paesi Bassi all’età di diciassette anni e successivamente riconosciuto beneficiario di protezione internazionale. Divenuto maggiorenne, in applicazione della legislazione nazionale, era stato informato dalle autorità nazionali circa l’obbligo di frequentare dei corsi e superare, entro i successivi tre anni, tutte le parti dell’esame di integrazione civica. Tuttavia, pur essendosi iscritto a dei corsi di integrazione civica, e nonostante avesse beneficiato di alcuni periodi di proroga del termine prescritto, aveva partecipato solamente ad alcuni corsi tra quelli obbligatori, senza peraltro superare i relativi esami.
Per tali motivi, gli era stata inflitta un’ammenda di 500 euro e gli era stato imposto l’obbligo di rimborsare interamente il prestito di 10 000 euro concessogli dal Servizio di esecuzione dell’istruzione dei Paesi Bassi per finanziare i costi di partecipazione al programma di integrazione.
- La Corte di Giustizia è stata chiamata a chiarire se gli Stati membri possano subordinare l’integrazione dei beneficiari di protezione internazionale ad obblighi specifici, quali il superamento di un esame di integrazione civica, prevedendo sanzioni pecuniarie in caso di mancato adempimento.
La normativa olandese , infatti, l’obbligo di superare un esame di integrazione civica, composto da una prova di conoscenza della lingua neerlandese almeno al livello A2 e da un test sulla società olandese. Questo obbligo doveva essere assolto entro tre anni, con possibilità di proroga in casi specifici. Il mancato superamento dell’esame comportava l’applicazione di una sanzione pecuniaria e l’obbligo di restituire l’eventuale prestito statale concesso per il finanziamento dei corsi in preparazione delle prove.
Pur riconoscendo agli Stati membri un certo margine di manovra nell’attuazione dell’art. 34 della direttiva 2011/95/UE, la Corte ha affermato che tale discrezionalità incontra limiti ben precisi.
In particolare, ha stabilito che gli Stati possono imporre obblighi di integrazione ai beneficiari di protezione internazionale, ivi inclusi degli esami di integrazione civica, a condizione che ciò non comprometta l’accesso effettivo ai diritti riconosciuti dalla direttiva. L’applicazione di sanzioni per il mancato superamento di tali esami deve dunque essere proporzionata, e non deve tradursi in una misura discriminatoria o eccessivamente gravosa. La finalità della sanzione, invero, non deve essere punitiva, ma piuttosto orientata a stimolare il conseguimento dell’obiettivo di integrazione, tenendo conto delle specifiche circostanze personali e familiari, nonché della particolare condizione di vulnerabilità, di ciascun beneficiario.
Quanto, poi, all’impatto economico di tali programmi sui destinatari, la Corte ha precisato che, in via generale, le spese relative alle misure di integrazione dovrebbero essere a carico dello Stato ospitante. Tuttavia, una lettura dell’art. 34 alla luce del principio di proporzionalità e dell’effetto utile non osterebbe, in via generale, ad un concorso alle spese da parte dei beneficiari di protezione internazionale che dispongano dei mezzi finanziari sufficienti a fare fronte ad un contributo economico, a condizione che tali costi non siano irragionevoli e non compromettano i diritti fondamentali garantiti dalla direttiva.
- Un punto cruciale della sentenza in commento riguarda l’interpretazione dell’art. 34 della direttiva 2011/95/UE in relazione alla natura dei programmi di integrazione. La Corte ha chiarito che mentre gli Stati membri hanno l’obbligo di facilitare l’integrazione dei beneficiari di protezione internazionale, non vi è alcun obbligo in capo a questi ultimi di soddisfare determinati requisiti (come superare esami o partecipare a corsi), per mantenere il loro status o accedere ai diritti e ai vantaggi previsti dalla direttiva.
In tal senso, emerge un “diritto positivo all’integrazione”, da intendersi quale dovere degli Stati membri di garantire ai beneficiari di protezione internazionale l’accesso a programmi di integrazione, senza che tali programmi diventino una condizione per l’esercizio dei diritti fondamentali. In altri termini, l’integrazione è un obiettivo da facilitare, ma non può rappresentare una precondizione per l’accesso ai diritti riconosciuti ai beneficiari di protezione internazionale in virtù del loro status.
L’interpretazione fornita dalla Corte chiarisce che il diritto all’integrazione non può essere subordinato al superamento di requisiti specifici imposti dagli Stati membri come, nel caso di specie, un esame di integrazione. I programmi di integrazione, pur rappresentando una parte importante del processo di inclusione nella società ospitante, devono essere visti come uno strumento volto a facilitare l’integrazione sociale, economica e culturale dei beneficiari di protezione internazionale, non come una condizione indispensabile per il godimento dei diritti derivanti dal loro status.
La Corte ha più volte sottolineato che, pur potendo gli Stati membri organizzare e applicare tali programmi liberamente, l’obiettivo principale è quello di fornire gli strumenti necessari per un inserimento efficace nella società, non quello di sanzionare la mancata partecipazione. L’integrazione, dunque, non può in ogni caso essere posta a condizionamento dei diritti e dei vantaggi attribuiti ai beneficiari di protezione internazionale dalla direttiva 2011/95/UE.
L’approccio delineato dalla Corte conferma l’importanza di considerare l’integrazione come un processo positivo e inclusivo. La direttiva non impone agli Stati membri di obbligare i beneficiari di protezione internazionale a dimostrare una “completa” integrazione prima che possano godere dei loro diritti, ma piuttosto garantisce loro il diritto ad avere accesso a strumenti che facilitano tale processo. La finalità principale, enfatizza la Corte, è di favorire un’integrazione efficace, che avvenga nel rispetto delle condizioni individuali dei destinatari, tenendo conto della loro vulnerabilità e delle difficoltà uniche che possono incontrare. Ciò significa che, mentre gli Stati membri hanno la facoltà di definire misure specifiche per agevolare l’integrazione, queste non devono mai compromettere i diritti già acquisiti dai beneficiari di protezione internazionale, né devono essere utilizzate per penalizzare chi non riesce a soddisfare tali requisiti. In sostanza, l’integrazione deve rimanere un obiettivo da raggiungere, ma non una conditio sine qua non per l’esercizio dei diritti fondamentali.
- La sentenza Keren conferma un orientamento giurisprudenziale già emerso in materia di integrazione degli stranieri, enfatizzando la necessità di garantire un equilibrio tra gli obiettivi degli Stati membri e i diritti dei beneficiari di protezione internazionale. Da un lato, riconosce la legittimità di politiche di integrazione che prevedano obblighi specifici per i beneficiari, dall’altro pone un chiaro limite affinché tali obblighi non diventino un ostacolo alla realizzazione degli obiettivi della direttiva.
Già nel 2015, nella causa C-579/13, aveva esaminato una normativa olandese che imponeva ai cittadini di paesi terzi soggiornanti di lungo periodo l’obbligo di sostenere un esame di integrazione civica, prevedendo una sanzione pecuniaria in caso di inadempienza. In quell’occasione, la Corte aveva interpretato gli articoli 5, paragrafo 2, e 11, paragrafo 1, della direttiva 2003/109/CE, chiarendo che, sebbene gli Stati membri abbiano la facoltà di richiedere il rispetto di condizioni di integrazione conformemente alla legislazione nazionale, tale margine di discrezionalità non può tradursi in misure che ostacolino anziché favorire l’integrazione degli stranieri. Anche se il caso riguardava uno status giuridico diverso, la decisione della Corte evidenzia un principio di fondo, oggi ribadito ed ampliato nella sentenza Keren: le normative nazionali in materia di integrazione devono essere applicate in modo da promuovere l’inclusione degli stranieri, in linea con gli obiettivi della direttiva rilevante nel caso di specie.
- Sulla medesima linea di continuità si pone, poi, il principio secondo cui la valutazione dello Stato deve essere effettuata caso per caso, tenendo conto delle specifiche situazioni individuali. Questo aspetto era appunto già stato già evidenziato nella causa C-579/13, dove la Corte aveva affermato che le condizioni di integrazione non possono essere applicate in modo automatico e generalizzato, ma devono sempre considerare le circostanze personali del soggetto interessato (§ 49). L’approccio delineato dalla Corte conferma dunque l’importanza di un’analisi individualizzata dei requisiti e delle misure di integrazione, evitando che esse si traducano in barriere sistematiche all’accesso ai diritti riconosciuti dalla direttiva. Innanzitutto, è necessario che la disciplina nazionale tenga conto, nei contenuti, nelle modalità e negli obblighi imposti ai destinatari dei programmi di integrazione, delle circostanze particolari che caratterizzano la situazione specifica dei beneficiari di protezione internazionale, così come delle eccezionali difficoltà di integrazione cui devono fare fronte. La vulnerabilità connessa alla loro condizione, invero, impone una valutazione il più possibile individualizzata e volta a facilitarne l’integrazione nella società ospitante, in funzione delle loro capacità individuali (§ 70). Circostanze specifiche, quali l’età, il livello di istruzione, la situazione finanziaria o lo stato di salute della persona interessata devono essere prese in considerazione quali fattori condizionanti l’esito finale dei percorsi di integrazione, finanche a determinare l’esenzione dalla partecipazione ai programmi e agli esami di integrazione civica. Del pari, particolari condizioni di vita atte a dimostrare un livello già sufficiente di integrazione nella società ospitante dovrebbero essere considerate al fine di dispensare il beneficiario di protezione internazionale dall’obbligo di superare tale esame.
- In conclusione, la decisione della CGUE nella causa Keren, se da un lato conferma la facoltà degli Stati di delineare autonomamente i programmi di integrazione, dall’altro ribadisce che tali misure non possono ledere l’effettività dei diritti garantiti dalla direttiva 2011/95/UE. In particolare, la Corte sottolinea l’importanza di un approccio individualizzato nella valutazione delle misure di integrazione e delle eventuali sanzioni per il loro mancato rispetto. Le politiche di integrazione non possono essere applicate in modo rigido e uniforme ed anzi implicano, alla luce dei Considerando 41 e 47 della direttiva 2011/95/UE, un dovere in capo agli Stati membri di garantire ai beneficiari di protezione internazionale l’accesso ai programmi predisposti a tal fine, garantendo che questi siano effettivamente accessibili e rispondano alle esigenze individuali dei singoli destinatari.
Indubbiamente, l’orientamento della Corte assume una particolare rilevanza in un contesto caratterizzato da politiche migratorie nazionali e sovranazionali sempre più restrittive, che devono confrontarsi con un quadro normativo spesso poco chiaro e incoerente, soprattutto per quanto riguarda i diritti dei soggetti coinvolti.
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