Riflessioni intorno agli effetti per l’Unione della secessione di parte del territorio di uno Stato membro.

I “no” hanno prevalso nel referendum del 18 settembre alla domanda “Should Scotland be an independent country?”, con il 55% dei voti. La prospettiva di avere un nuovo Stato in Europa si allontana, ma non rende una riflessione sulle conseguenze per l’Unione europea della secessione di una parte del territorio di uno Stato membro meno attuale ed importante. Da un lato, infatti, altre pretese indipendentiste hanno trovato nel caso scozzese motivo di rafforzarsi (si pensi alla Catalogna, innanzitutto, ma anche alle aspirazioni delle Fiandre o a quelle, per ora folkloristiche, del Veneto). Dall’altro, esplorare senza la fretta dell’urgenza quali sono le possibili strade giuridiche per rispondere alle aspirazioni popolari legittimamente espresse potrebbe consentire di trovare una soluzione che non sia destabilizzante per l’Unione.

I Trattati non offrono una risposta e nessun caso comparabile si è verificato in passato. Pur con questo limite, la prassi offre alcuni spunti di riflessione. Il precedente più simile è costituito dalla dichiarazione di indipendenza dell’Algeria, nel 1962, agli albori dell’integrazione europea. Fino ad allora, il TCEE si applicava all’Algeria, in quanto parte della Francia, alle condizioni previste dall’art. 227, co. 2. Nel dicembre del 1962, l’Algeria chiedeva di poter continuare ad applicare il diritto comunitario, richiesta che venne accolta e che produsse effetti fino all’adozione di una autonoma tariffa doganale. In quanto Stato non europeo, l’Algeria non avrebbe potuto presentare domanda di adesione.

Un secondo caso che merita di essere menzionato è quello della Groenlandia. Pur non costituendosi come nuovo Stato, la Groenlandia ottenne l’autogoverno dalla Danimarca e nel 1982, a seguito dell’esito positivo di un referendum, decise di non essere più assoggettata al diritto comunitario. La Danimarca propose una modifica dei Trattati, per inserire la Groenlandia tra i paesi e territori d’oltremare ai quali si applica lo speciale regime di associazione previsto nella parte quarta del trattato, con alcuni adattamenti. Proprio per il fatto che la Groenlandia non è mai stata un membro autonomo dell’Unione, bensì un territorio al quale il diritto dell’Unione si è applicato per un certo tempo (dall’adesione della Danimarca alle Comunità, al 1-1-1985, data di entrata in vigore del Trattato di revisione, firmato a Bruxelles, il 13 marzo 1984, in GUCE, L 29 del 1-2-1985) e in seguito è stato assoggettato allo speciale regime di associazione dei PTOM, sembra poco corretto parlare di recesso.

Infine, la riunificazione tedesca insegna che l’estensione del territorio e della popolazione di uno Stato membro non necessita di una modifica dei Trattati, ma che, in occasione della successiva revisione dei Trattati, la rappresentanza della Germania nelle istituzioni è stata adeguata alla sua nuova dimensione. Al contrario, il diritto derivato è stato adattato per consentirne l’applicazione anche ai nuovi Länder.

Gli effetti dell’indipendenza di una parte del territorio di uno Stato membro per l’Unione europea devono essere valutati in relazione allo Stato di origine, che subisce una diminuzione del territorio e della popolazione, e in relazione allo Stato di nuova indipendenza.

Dal punto di vista dello stretto diritto internazionale e dell’Unione europea, mi sembra innegabile che una Scozia indipendente (o una Catalogna, o qualunque altro territorio che seceda pacificamente dallo Stato al quale apparteneva) sia da considerare come uno Stato terzo, rispetto all’Unione europea. I Trattati istitutivi, infatti, vincolano solo le parti contraenti e si applicano al territorio delle parti contraenti, come definito da ciascuna, salvo deroga. Così, l’art. 52 TUE elenca gli Stati ai quali i trattati si applicano e l’art. 355 TFUE specifica a quali territori degli Stati membri i Trattati non si applicano, o si applicano a condizioni particolari, e a quali territori non appartenenti agli Stati membri i Trattati invece si applicano. Di conseguenza, ogni modifica territoriale di uno Stato elencato all’art. 52 non si riflette sulla qualità di membro, ma sull’ambito di applicazione territoriale dei Trattati. I precedenti, seppure non esattamente in termini, depongono in questo senso.

Uno Stato terzo europeo può presentare domanda di adesione e, ai sensi dell’art. 49 TUE, se il Consiglio europeo, su proposta della Commissione e previa approvazione del Parlamento, accetta la candidatura, l’adesione si perfeziona con l’entrata in vigore di un trattato, concluso dagli Stati membri e dallo Stato aderente, secondo le rispettive norme costituzionali. Gli Stati membri devono dunque acconsentire due volte all’ingresso del nuovo Stato: al momento della valutazione della candidatura e al momento della ratifica del trattato di adesione. Si potrebbe escludere che un voto negativo sia espresso dallo Stato membro di origine, dal momento che ha acconsentito alla secessione; non altrettanto il veto degli altri Stati che si oppongono alle istanze secessioniste presenti al loro interno.

Anche ammettendo che nessuno Stato si fosse opposto alla candidatura della Scozia, i negoziati di adesione avrebbero dovuto affrontare due temi principali: quale peso assegnare al paese nelle istituzioni e nel bilancio, e se estendere la medesime deroghe accordate al Regno Unito. Il primo tema non presenta caratteri peculiari ed è una questione di routine (che non vuol dire non sia complessa da negoziare). Il secondo tema, al contrario, è assai più delicato. L’Unione ha sempre sostenuto che nessuna deroga dovesse essere accordata ai nuovi aderenti e che le concessioni iscritte nei Trattati a favore del Regno Unito, dell’Irlanda e della Danimarca, non avrebbero potuto essere ottenute da alcuno dei nuovi aderenti. Invece, se lo Stato di nuova indipendenza secedesse da uno Stato membro che non gode di status privilegiato, solo il primo tema sarebbe oggetto di negoziazione.

Per quanto riguarda lo Stato membro il cui territorio ottiene l’indipendenza, ma che risulta diminuito per estensione territoriale e popolazione, la sua posizione dell’Unione dovrebbe essere rinegoziata. Poiché nell’Unione la dimensione dello Stato non è irrilevante, uno Stato diminuito dovrà avere un peso ridotto, commisurato a quello degli Stati della medesima “stazza”. Se talvolta l’effetto sarà automatico, in altri casi sarà necessaria una modifica del diritto derivato, come per il contributo finanziario all’Unione oppure la determinazione della consistenza della popolazione ai fini del calcolo delle maggioranze in seno al Consiglio. Particolare attenzione merita la quota di parlamentari che ciascuno Stato elegge, che va appunto calcolata tenendo conto della popolazione. Nel caso dell’indipendenza della Scozia, il Regno Unito avrebbe perso circa il 10% della popolazione, e si sarebbe trovato con circa 3 milioni di abitanti in meno dell’Italia (che elegge 73 deputati) e con una decina in più della Spagna (che ne elegge 54). Verosimilmente, questa riduzione si sarebbe tradotta nella perdita alcuni deputati, da riassegnare ad altri Stati. I seggi tolti al Regno Unito non sarebbero necessariamente pari a quelli attribuiti alla Scozia, quale nuovo membro: in base alla popolazione, sarebbe posta tra Bulgaria (17 deputati) e Danimarca (13 deputati). Una “ripesatura” di tutti gli Stati sarebbe forse necessaria per una più equa distribuzione dei seggi.

Se un’interpretazione di stretto diritto consente di individuare una strada da seguire per regolare le aspirazioni “europee” della parte del territorio di uno Stato membro, la soluzione prospettata (adesione ex art. 49 TUE per lo Stato di nuova indipendenza, e modifiche al diritto derivato per lo Stato membro) potrebbe apparire poco opportuna. In primo luogo, perché la procedura di adesione è pensata per Stati che sono estranei all’Unione ed è intesa a consentire l’applicazione graduale dell’acquis. La Scozia (o altro Stato nato da secessione da uno Stato membro) applicherebbe già il diritto dell’Unione europea. In secondo luogo, non tenere in alcun conto le aspirazioni della popolazione, che desidera l’indipendenza e la permanenza dell’Unione, potrebbe apparire come una sorta di ingiustificata punizione per aver espresso, per via pacifica e democratica, istanze secessioniste. Da tali ragioni deriva la proposta di regolare la partecipazione della Scozia all’Unione senza passare per la via dell’adesione, ma attraverso una revisione dei Trattati ai sensi dell’art. 48 TUE. In questo modo, dicono i sostenitori della tesi, si potrebbero accorciare i tempi, perché una domanda di adesione deve essere formulata da uno Stato e quindi non prima del perfezionamento dell’indipendenza (che per la Scozia si faceva decorrere dal marzo 2016), mentre la revisione potrebbe essere avviata dal giorno successivo al referendum; si rispetterebbe il volere della popolazione, in ossequio ai principi democratici. La soluzione prospettata presenta però degli inconvenienti di non poco conto. A parere di chi scrive, l’ostacolo principale non sta nell’oggetto della procedura (l’adesione comporta pur sempre una revisione dei Trattati), ma nel fatto che sarebbe negoziata dai soli Stati membri, senza coinvolgimento del nuovo Stato. È vero che lo Stato membro a cui appartiene il territorio che acquista l’indipendenza potrebbe negoziare in favore del proprio territorio, oppure attribuire alle autorità del territorio il compito di negoziare. Tuttavia, il consenso alla revisione dovrebbe essere dato da tutti gli Stati membri (con gli stessi rischi di veto già menzionati in relazione al trattato di adesione), ma non dallo Stato di nuova indipendenza, il cui consenso non è necessario perché non è Stato membro, né, fino alla acquisizione dell’indipendenza, neppure Stato. Lo Stato di nuova indipendenza potrebbe esprimere un consenso con effetto retroattivo una volta acquisita l’indipendenza, ma solo se l’accordo di revisione è già entrato in vigore. Altrimenti resterebbe terzo rispetto al trattato di revisione e non potrebbe esservi ammesso perché non membro dell’Unione. Se lo Stato di nuova indipendenza non approvasse il trattato di revisione già in vigore, si arriverebbe all’assurda conseguenza che esso non potrebbe essere applicato perché non può creare obblighi per lo Stato che non lo ha accettato. Salvo cessare di produrre effetti per il venir meno delle circostanze che lo hanno giustificato.

Visto il carattere insufficiente del diritto vigente, una soluzione nuova ad un problema nuovo dovrebbe essere trovata. Si potrebbe pensare di negoziare un accordo al solo fine di definire le condizioni della partecipazione del nuovo Stato all’Unione, al di fuori delle ipotesi di adesione e revisione, tra gli Stati membri, con la delegazione dello Stato a cui appartiene il territorio che ha dichiarato l’indipendenza composta dalle due entità, ma con un solo diritto di voto, la cui entrata in vigore sia subordinata alla condizione che il nuovo Stato lo approvi al momento dell’acquisto dell’indipendenza, ma la cui applicazione possa retroagire al momento dell’acquisto dell’indipendenza.


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