Le conseguenze di passati episodi di tortura imputabili al paese d’origine: “semplice” inespellibilità o protezione sussidiaria?
Possono le conseguenze fisiche e psicologiche di passati episodi di tortura consentire il riconoscimento della protezione sussidiaria nel sistema comune europeo di asilo? Qual è, in tale caso, l’ambito di applicazione della direttiva qualifiche che introduce detta forma di protezione, rispetto al ricorso all’articolo 3 della Cedu? E con riguardo agli altri strumenti internazionali di contrasto alla tortura?
Questi, alcuni degli interrogativi sottesi al caso del signor MP sul quale, con sentenza pubblicata il 24 aprile scorso, si è pronunciata la Corte di Giustizia dell’Unione europea.
I fatti di causa
La vicenda alla base della domanda pregiudiziale riguarda il signor MP, cittadino dello Sri lanka, che nel gennaio 2009 presentava una domanda di protezione internazionale basata sul timore di essere sottoposto, in caso di rimpatrio nel paese d’origine, a persecuzione in ragione della propria appartenenza all’organizzazione “Tigri per la liberazione dell’Îlam Tamil”.
A sostegno della propria domanda, il signor MP adduceva l’avere subito in precedenza torture e allegava documentazione medica comprovante le gravi conseguenze psicologiche delle stesse, le quali avrebbero potuto aggravarsi irrimediabilmente in caso di rimpatrio a causa della carenza e delle difficoltà di accesso alle strutture di assistenza psichiatrica nel Paese d’origine.
Tanto l’Upper Tribunal che la Court of Appeal (Inghilterra e Galles) del Regno Unito escludevano il riconoscimento sia dello status di rifugiato sia della protezione sussidiaria, riconoscendo invece che il signor MP dovesse considerarsi inespellibile in virtù dell’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, il quale come è noto fa divieto agli Stati di espellere una persona verso uno Stato ove potrebbe essere sottoposto a tortura o trattamenti inumani e degradanti.
Il signor MP si rivolgeva allora alla Corte Suprema ritenendo che tale decisione adottasse un’interpretazione eccessivamente restrittiva della lettera b) dell’articolo 15 della direttiva 2004/83/CE. La Corte Suprema rinviava dunque alla Corte di Giustizia e domandava se la protezione sussidiaria di cui all’art 2 lett e), in combinato disposto con l’art. 15 lettera b) potesse comprendere “un rischio effettivo di danno grave alla salute fisica o psichica del richiedente in caso di ritorno nel paese di origine, derivante da precedenti episodi di tortura o di trattamento inumano o degradante imputabili a detto paese”.
L’avvocato generale Yves Bot tracciava due possibili opzioni risolutive.
La prima di esse, avrebbe portato la Corte ad escludere la possibilità di ricomprendere per il tramite della lettera b) dell’articolo 15 “un rischio effettivo di danno grave alla salute fisica o psichica derivante da precedenti episodi di tortura o trattamenti inumani e degradanti” sulla base di due ordini di motivi: la valutazione del danno grave è un giudizio prognostico, che valuta il rischio di subire in futuro trattamenti inumani e degradanti; in secondo luogo, perché, nel caso di specie, è assente un responsabile diretto o indiretto di tale danno grave, il quale invece deve sempre sussistere ai fini dell’applicazione della direttiva.
Alternativamente, la Corte poteva interpretare la direttiva qualifiche alla luce dell’articolo 3 CEDU in combinato disposto con l’articolo 14 della Convenzione Contro la Tortura (CCT), il quale impone agli Stati che ne sono parte di dotarsi di tutte le procedure atte ad assicurare alle vittime di torture idonea riparazione. Attraverso di essa sarebbe stato possibile sostenere, in presenza di una violazione dell’art. 14 della CCT da parte di uno Stato non membro dell’Unione, che la richiesta della protezione sussidiaria da parte di una vittima di torture potesse ben essere interpretata quale richiesta di riparazione, il che avrebbe consentito, in analogia con quanto avviene nel sistema di repressione dei crimini internazionali, un’estensione della giurisdizione allo Stato responsabile dell’esame della domanda. Una simile interpretazione avrebbe significato il pieno “riconoscimento (da parte degli Stati membri dell’Unione) del diritto a beneficiare di un risarcimento o dei mezzi necessari a una riabilitazione la più completa possibile”.
Tuttavia, l’A.G. metteva in guardia dagli ostacoli sostanziali e procedurali che si opponevano ad una pur così ambiziosa interpretazione della direttiva e che sono così riassumibili:
1) il sistema di protezione offerto dalla direttiva e quello discendente dalla CCT perseguono scopi diversi e richiedono autonoma interpretazione. Il primo infatti è volto a concedere, sul territorio dello Stato membro dell’Ue, protezione contro il rischio di essere sottoposto a torture nel paese d’origine; il secondo, invece, impegna gli Stati a non fare ricorso alla tortura e ad altri trattamenti inumani o degradanti e conseguentemente li obbliga alle riparazioni di cui al citato articolo 14 nei confronti delle vittime;
2) sarebbe superata la volontà del legislatore europeo estendendo l’applicazione della lett b dell’art. 15 a casi non contemplati,
3) si aprirebbe la strada ad un probabile considerevole aumento delle domande di protezione e dei conseguenti obblighi per gli Stati,
4) rimane intatta la possibilità di accedere in casi simili a quelle forme di tutela per motivi caritatevoli o umanitari riconducibili all’articolo 3 Cedu,
5) Infine, il caso di specie, privo di qualsiasi riferimento a una violazione intenzionale dell’assistenza, non sembrava il più adatto ad un’interpretazione estensiva di questo tipo.
L’ A.G pertanto proponeva che la Corte dichiarasse che “ la definizione contenuta nell’articolo 2, lettera e), in combinato disposto con l’articolo 15, lettera b), della direttiva 2004/83, non contempla il rischio effettivo di danno grave alla salute fisica o psichica derivante dalle torture subite in passato dal richiedente e di cui il paese di origine è responsabile, nel caso in cui egli vi sia rimpatriato, senza che a ciò ostino l’articolo 3 della CEDU e l’articolo 14, paragrafo 1, della Convenzione contro la tortura.”
Il ragionamento della Corte
La Corte di Giustizia chiamata a pronunciarsi sulla materia ha optato per una terza via, ossia:
“L’articolo 2, lettera e), e l’articolo 15, lettera b), della direttiva 2004/83/CE del Consiglio, del 29 aprile 2004, … letti alla luce dell’articolo 4 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, devono essere interpretati nel senso che è ammissibile allo status di protezione sussidiaria il cittadino di un paese terzo torturato in passato dalle autorità del suo paese di origine e non più esposto a un rischio di tortura in caso di ritorno in detto paese, ma le cui condizioni di salute fisica e mentale potrebbero, in un tale caso, deteriorarsi gravemente, con il rischio che il cittadino di cui trattasi commetta suicidio, in ragione di un trauma derivante dagli atti di tortura subiti, se sussiste un rischio effettivo di privazione intenzionale in detto paese delle cure adeguate al trattamento delle conseguenze fisiche o mentali di tali atti di tortura, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare.”
Il ragionamento della Corte si articola in tre passaggi fondamentali.
Innanzitutto essa muove da una ricostruzione sistematica della protezione offerta sottolineando come, stante i requisiti dell’attualità e dell’effettività del rischio di danno grave, il solo fatto di avere subito in precedenza torture, pur dovendo essere considerato un indizio rilevante del bisogno di protezione, non sia sufficiente di per sé ai fini del riconoscimento della stessa e dall’altro; quando il rischio effettivo di danno grave consiste nell’essere sottoposti a tortura o trattamenti inumani o degradanti, esso deve essere interpretato e applicato nel rispetto dei diritti garantiti dall’articolo 4 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, tenendo conto della relativa giurisprudenza.
La Corte, pertanto, si richiama alla giurisprudenza più recente (Corte Europea dei diritti dell’ Uomo del 13 December 2016 Paposhvili contro Belgio ricorso n. 41738/10; Corte di Giustizia 16 febbraio 2017 causa C‑578/16 PPU C.K., H.F., A.S. contro Republika Slovenija) e ricorda come questa ricomprenda nell’alveo dell’articolo 3 CEDU anche i casi in cui un’espulsione, un allontanamento o anche un trasferimento siano idonei ad esacerbare in modo “significativo e irrimediabile” il disturbo mentale di cui soffre la persona. In questi casi, specialmente quando tali provvedimenti possano mettere in pericolo la vita stessa della persona, devono considerarsi contrari al principio di non refoulement nonché, come ricorda la Corte, una violazione dell’articolo 5 della direttiva 2008/115, interpretato alla luce dell’articolo 19 della Carta.
Ai fini della concessione della protezione sussidiaria, però, la Corte ritiene che debba essere necessariamente soddisfatto un requisito ulteriore. Infatti, se l’allegazione di un aggravamento sostanziale delle condizioni di salute fisiche o psichiche della persona può, nei limiti di cui sopra, dirsi sufficiente ad impedirne l’allontanamento, lo stesso non può essere detto ai fini della protezione sussidiaria: occorre che accanto ad esso si riscontri la privazione intenzionale dell’assistenza necessaria al fine di trattare i disturbi di cui la persona soffre e che sono conseguenza delle torture subite. Tale requisito si verificherebbe secondo la Corte quando le stesse autorità, nonostante l’obbligo di cui all’articolo 14 della Convenzione Contro la Tortura, non siano disposte a garantirne la riabilitazione. Un rischio del genere potrebbe anche presentarsi qualora risultasse che dette autorità abbiano un comportamento discriminatorio in termini di accesso ai servizi di assistenza sanitaria, avente l’effetto di rendere più difficile, per taluni gruppi etnici o alcune categorie di persone, nelle quali rientrerebbe MP, l’accesso al trattamento dei postumi fisici o mentali degli atti di tortura commessi da tali autorità. Si insiste, dunque, affinché sia presente quell’ elemento caratterizzante le forme di protezione internazionale e rappresentato dall’ impegno degli Stati parte ad offrire protezione a un soggetto che non goda della protezione da parte del proprio Stato (perché questo non può o non vuole concedergliela) cui fa da specchio, salvo casi eccezionali, un certo grado di individualizzazione della vicenda del richiedente.
Ciò deriva, infatti, secondo la Corte, dal fatto che, come rilevato dall’Avvocato Generale nelle sue conclusioni, i sistemi giuridici istituiti dalla Convenzione Contro la Tortura e dalla direttiva 2004/83/CE perseguono scopi diversi.
Tuttavia, tale diversità di scopo non impedisce il riconoscimento della protezione sussidiaria anche qualora il rischio di tortura sia cessato, purché, l’impossibilità di accesso a cure mediche da cui conseguirebbe l’aggravamento sostanziale delle condizioni della vittima di tortura sia risultato di detta privazione intenzionale.
Spetta, in ogni caso, al giudice nazionale il compito di decidere se sia ravvisabile un rischio di privazione intenzionale, come sopra definito, nel caso di specie.
Il caso, dunque, si inserisce nel solco tracciato dai cosiddetti “medical cases”, rispetto ai quali, da tempo si ravvisa una dialettica tra la Corte di Giustizia dell’Unione Europea e la Corte Europea dei diritti dell’uomo sui limiti e le possibilità espansive del principio di non refoulement, aggiungendo ulteriori profili. In particolare, richiamandosi a tali precedenti, la pronuncia in esame amplia la portata della protezione sussidiaria, includendo anche il cittadino di un paese terzo torturato in passato dalle autorità del suo paese di origine e non più esposto a un rischio di tortura in caso di ritorno in detto paese, ma le cui condizioni di salute fisica e mentale potrebbero, in un tale caso, deteriorarsi gravemente, se sussiste un rischio effettivo di privazione intenzionale in detto paese delle cure adeguate al trattamento delle conseguenze fisiche o mentali di tali atti di tortura.