I limiti al diritto di voto per il referendum sulla Brexit alla luce della cittadinanza europea

Premessa

L’European Union Referendum Act, approvato nel dicembre 2015, ha disciplinato lo svolgimento del referendum sul mantenimento della partecipazione del Regno Unito all’Unione europea. Per individuare i titolari del diritto di voto, la sec. 2 fa riferimento innanzitutto a coloro che partecipano alle elezioni parlamentari, cui poi si aggiungono alcune altre categorie indicate nell’Act, come ad esempio i membri della House of Lords o coloro che a Gibilterra sono titolari del diritto di voto per il Parlamento europeo. Il richiamo al Representation of the People Act 1985 fa sì che anche per il referendum sulla Brexit valga la cosiddetta “regola dei 15 anni”, la previsione cioè che nel caso in cui un cittadino britannico risieda all’estero e risulti essere stato iscritto per l’ultima volta nel registro per le elezioni del Parlamento più di 15 anni prima non può votare.

Tale disciplina, come si vedrà nel prosieguo, era stata già oggetto di contestazione innanzi sia alle Corti nazionali sia alla Corte di Strasburgo, che tuttavia ne avevano riconosciuto la legittimità. La sua applicazione rispetto al referendum europeo del prossimo 23 giugno ha però sollevato nuovi dubbi. Fin dai dibattiti che hanno accompagnato il procedimento di approvazione della legge, ci si è interrogati sull’opportunità/legittimità dell’esclusione dal voto dei cittadini britannici che, nell’esercizio del diritto alla libera circolazione all’interno dell’Unione europea, risiedano da più di quindici anni in un altro Paese membro. Successivamente sono stati rispettivamente un cittadino britannico residente in Italia e una cittadina residente in Belgio a rivolgersi alla England and Wales High Court (Administrative Court) per contestare la legittimità di tale previsione alla luce del diritto europeo, ritenendo che essa «restricts their directly effective EU law rights of freedom of movement in a manner that is not objectively justifiable» (Shindler & Anor v Chancellor of the Duchy of Lancaster & Anor [2016] EWHC 957 (Admin) (28 April 2016)p.to 2).

L’High Court con sentenza del 28 aprile 2016 ha rigettato la richiesta dei ricorrenti, ritenendo insussistente il conflitto con il diritto dell’Unione, nel senso che la disciplina oggetto di contestazione non costituirebbe una limitazione della libertà di circolazione e comunque, se anche lo fosse, la stessa sarebbe giustificata in quanto volta a perseguire un obiettivo legittimo, nel rispetto del principio di proporzionalità. Tale decisione è stata confermata – seppur con una motivazione in parte differente ‑ dalla England and Wales Court of Appeal (Civil Division) il 20 maggio 2016 (Shindler & Anor v Chancellor of the Duchy of Lancaster & Anor [2016] EWCA Civ 469, 20 May 2016) ed è divenuta definitiva dopo il rifiuto della Supreme Court, il successivo 24 maggio, di concedere la propria autorizzazione all’appello.

Nelle proprie motivazioni l’High Court aveva ripreso e fatte proprie le valutazioni espresse dalla England and Wales Court of Appeal (Civil Division) nel caso Preston del 2012, in cui era stata già valutata la legittimità della previsione della sec. 1(3)(c) del Representation of the People Act 1985 sulla perdita del diritto di voto in relazione al diritto dell’Unione europea, sempre con riferimento alla garanzia della libertà di circolazione, rifiutandosi tra l’altro di effettuare il rinvio pregiudiziale ai sensi dell’art. 267 TFUE alla Corte di giustizia (Preston, R (on the application of) v The Lord President of the Council [2012] EWCA Civ 1378 ,25 October 2012). Sul punto aveva addirittura affermato che «The 15 year rule in its application to the franchise for the EU referendum is, in our view, an a fortiori case. We are unable to accept that the prospect of disenfranchisement in a one-off referendum is a factor which could influence a decision whether to settle or remain in another Member State. We conclude, therefore, that it is not a measure which requires to be objectively justified under EU law» (p.to 40).

Va segnalato che nel caso Schindler la riflessione sulla possibilità di controllare l’European Union Referendum Act 2015 alla luce del diritto dell’Unione è stata affrontata prendendo in considerazione anche l’art. 50 TUE, che prevede per gli Stati membri la possibilità di recesso dall’Unione in conformità alle proprie norme costituzionali. Proprio su questo aspetto la Court of Appeal ha assunto una posizione differente da quella dei giudici di prima istanza, ritenendo che il rinvio operato dalla disposizione del TUE alla disciplina costituzionale nazionale abbia la conseguenza di sottrarre la procedura di recesso dalla sfera di applicazione del diritto dell’Unione. Le considerazioni al riguardo sono nette: «…a decision by a Member State to withdraw from the EU is an exercise of national sovereignty of a special kind for which the TEU has made the express provision that this may be done in accordance with a Member State’s own constitutional requirements. That is hardly surprising. It would have been surprising if the Member States had agreed that a Member who wishes to withdraw from the EU altogether could only do so if the decision to withdraw did not infringe one or more fundamental EU rules». (p.to 16).

Il recesso del Regno Unito dall’Unione europea: una procedura senza controllo?

Prima di svolgere alcune riflessioni sulla limitazione del diritto di voto dei cittadini britannici alla luce del diritto dell’Unione, dunque, è necessario soffermarsi brevemente sulla valutazione della Court of Appeal appena citata.

Nella motivazione vengono prese in considerazione diverse sentenze della Corte di giustizia, che i giudici di prima istanza avevano utilizzato per giustificare il riferimento al diritto dell’Unione. Tra queste merita di essere richiamata ‑ anche in vista delle considerazioni che verranno svolte nei prossimi paragrafi – quella sul caso Rottmann relativo alla legislazione tedesca in materia di cittadinanza (o megliodi revoca della cittadinanza). La disciplina della cittadinanza, com’è noto, è una delle espressioni indiscusse, anche sul piano del diritto internazionale, della sovranità dello Stato, tuttavia la partecipazione all’Unione europea e in particolare il rapporto inscindibile tra cittadinanza nazionale e cittadinanza europea fa sì che, secondo la Corte, «con tutta evidenza» la vicenda in oggetto – che determinava come conseguenza per la persona interessata il venir meno dello status di cittadino europeo e dei diritti che dallo stesso derivano ‑ «ricade, per sua natura e per le conseguenze che produce, nella sfera del diritto dell’Unione» (p.to 42).

La Court of Appeal, tuttavia, ritiene che l’esercizio del diritto di recesso costituisca un’espressione peculiare della sovranità, che in forza dell’art. 50 TUE sarebbe lasciata completamente nella discrezionalità degli Stati membri senza alcun rapporto con il diritto dell’Unione. Anzi «[a]n obvious reason why a Member State might wish to withdraw is that it found such rules unacceptable and was no longer willing to be bound by them» (p.to 16). La valutazione che si è sinteticamente richiamata non appare tuttavia persuasiva. Il riferimento alle norme costituzionali contenuto nell’art. 50 TUE può essere letto come una conseguenza della scelta di non disciplinare in modo uniforme a livello di Unione le modalità di esercizio del diritto di recesso, che vengono così determinate da ciascuno Stato membro. Ciò però non significa che nel momento in cui viene stabilita la procedura per il recesso (o la stessa è applicata) lo Stato non sia ancora parte dell’Unione e non sia vincolato ai valori su cui la stessa si fonda. E’ del resto difficile immaginare che quei valori, che corrispondono al patrimonio comune europeo, nel momento in cui un Paese decide di recedere dall’Unione vengano qualificati alla stregua di «rules unacceptable».

Non è possibile in questa sede approfondire ulteriormente un argomento così complesso; va però evidenziato come la valutazione espressa dalla Court d’Appeal appaia in linea con l’atteggiamento di sempre maggiore resistenza – di cui l’ipotesi del recesso dall’Unione appare l’esempio più estremo – rispetto ai vincoli europei. Il pensiero va immediatamente al dibattito in corso sui rapporti con la CEDU, che vede tra le possibili soluzioni l’abrogazione dell’Human Rights Act con cui nel 1998 si è giunti, dopo quasi 50 anni, all’incorporazione della Convenzione, e la sua sostituzione con un British Bill of Rights, maggiormente rispettoso della tradizione britannica.

In sede d’appello, i ricorrenti avevano contestato anche sul piano interno la legittimità della disciplina del referendum europeo, chiedendo ‑ secondo quanto riportato nella sentenza della Court d’Appeal ‑ che la stessa fosse dichiarata «unconstitutional in so far as it conflicts with the fundamental common law constitutional right of British citizens to vote» (p.to 3). Si tratta anche in questo caso di un tema il cui approfondimento va oltre l’obiettivo di questa breve nota, toccando aspetti fondamentali del costituzionalismo britannico come il rapporto tra giudici e legislatore e la possibilità di un giudizio di costituzionalità. Tuttavia è importante considerare la risposta dei giudici d’appello, secondo cui «The short answer to this new point is that there is no such common law right […] which could take precedence over an Act of Parliament» (p.to 49). Pur lasciando aperta ogni riflessione sulla possibilità di controllo sugli atti del Parlamento alla luce della common law, la Court d’Appeal esclude che il cittadino possa far valere il proprio diritto di voto rispetto alla scelta fatta dal legislatore.

Nel caso in esame, dunque, all’eventuale esclusione della valutazione dell’European Union Referendum Act sulla base del diritto dell’Unione, non avrebbe corrisposto la possibilità di un controllo alla luce delle “norme costituzionali” nazionali. Forse anche nel Regno Unito, tradizionale patria dei diritti, l’eventuale decisione di “liberarsi” dai vincoli europei – sovranazionali e internazionali – non porta necessariamente con sé un rafforzamento della posizione del singolo. In questa prospettiva, la scelta della High Court di verificare la legittimità dell’esclusione del diritto di voto per i cittadini residenti all’estero (da più di 15 anni) rispetto alla libertà di circolazione prevista dal diritto dell’Unione ha costituito certamente uno strumento di garanzia per i ricorrenti, anche se – a mio parere – sarebbe stato possibile, probabilmente, seguire una via diversa e più forte nell’individuazione del parametro di giudizio.

Il diritto di voto dei cittadini residenti all’estero e la liberà di circolazione ai sensi del diritto dell’Unione europea

Prima di analizzare la decisione delle Corti britanniche sulla partecipazione al voto per il referendum sulla Brexit, può essere opportuno dedicare un breve spazio al tema più generale della legittimità, alla luce del diritto dell’Unione, della “regola dei 15 anni”. Nella decisione Preston del 2012, la Court of Appeal – riprendendo le considerazioni svolte dalla High Court nella sentenza oggetto di impugnazione (Preston, R (on the application of) v Wandsworth Borough Council & Anor [2011] EWHC 3174 (Admin) ,01 December 2011) – pur riconoscendo che la disciplina delle elezioni parlamentari rientra nelle competenze proprie di ciascuno Stato membro, sicché l’attribuzione e le limitazioni del diritto di voto sono riconducibili esclusivamente alle legislazione nazionale, non di meno ha ritenuto che il legislatore debba comunque tenere in considerazione le ricadute che le sue scelte hanno rispetto al diritto dell’Unione. Si trattava, dunque, di valutare se la perdita del diritto di voto per l’elezione della Camera dei comuni, come conseguenza della decisione di risiedere in un altro Paese dell’Unione europea per più di 15 anni, avesse l’effetto di limitare l’esercizio della libertà fondamentale di circolazione garantita ai cittadini europei.

Al riguardo i giudici britannici hanno ritenuto, innanzitutto, non provata l’incidenza della previsione contestata sulla libertà di circolazione: la stessa sarebbe, infatti, «too indirect and uncertain» per assumere rilievo (p.to 76). La perdita del diritto di voto costituisce certamente uno svantaggio per il cittadino britannico che decide di risiedere in un altro Stato membro, ma non ogni svantaggio – evidenzia la Corte  – si traduce automaticamente in una limitazione o in un disincentivo alla libertà di spostarsi (p.to 79). Nel caso di specie, dunque, non sarebbe necessaria una specifica giustificazione, rispettosa dei parametri europei, del provvedimento contestato.

Comunque, anche qualora tale giustificazione fosse ritenuta necessaria, la regola prevista dalla sec. 1(3)(c) del Representation of the People Act 1985 risulterebbe secondo la Court of Appeal legittima, in quanto basata su un criterio, quello della residenza, idoneo a caratterizzare la disciplina del diritto di voto e rispettosa del principio di proporzionalità nell’individuazione della soluzione. Viene citata al riguardo la decisone Shindler v United Kingdom della Corte di Strasburgo, che aveva ritenuto a sua volta la normativa britannica non in contrasto con l’art. 3 del Primo protocollo della CEDU, che garantisce il diritto di voto. La stessa Corte di giustizia, del resto, nella decisione Eman and Sevinger relativa ai cittadini olandesi residenti ad Aruba, richiamata anch’essa in motivazione (p.to 85), aveva stabilito che «55. … non sembra che, in principio, il criterio legato alla residenza sia inadeguato per determinare chi goda del diritto di elettorato attivo e passivo per le elezioni del Parlamento europeo».

La residenza all’estero per almeno 15 anni viene considerata un parametro oggettivo da cui dedurre l’attenuarsi del legame con il Paese di appartenenza (con cui sussiste cioè il rapporto di cittadinanza), cui consegue il venir meno della possibilità di partecipare, attraverso l’elezione dei componenti dell’Assemblea parlamentare, alle decisioni politiche nazionali. La durata del periodo di riferimento è stata ritenuta accettabile anche dalla Corte di Strasburgo, che ‑ in considerazione del margine d’apprezzamento che spetta agli Stati in relazione alla disciplina delle elezioni parlamentari ‑ nella sentenza prima citata ha concluso che «the restriction imposed by the respondent State on the applicant’s right to vote may be regarded as proportionate to the legitimate aim pursued» (p.to 118).

Si è voluto richiamare sinteticamente la decisione del 2012, che rileva come precedente per il caso Shindler, per mettere in luce la possibilità di una lettura differente, che può risultare utile anche per l’analisi della disciplina del referendum sulla Brexit. Al di là di ogni valutazione sul merito della scelta fatta dal legislatore britannico (che è comunque oggetto di discussione anche a livello nazionale: v. i riferimenti in I. White, Overseas Voters, briefing paper for the House of Commons Library, n. 5923, 10.05.2016), infatti, la verifica della sua coerenza con il diritto dell’Unione europea meriterebbe di essere svolta, a mio parere, in relazione, piuttosto che alla libertà di circolazione, alla cittadinanza europea stessa, di cui la libertà di circolazione è una – e senza dubbio la più importante – delle espressioni.

E’ evidente che nel caso in esame la titolarità della cittadinanza europea non è messa in discussione, tuttavia ci si può interrogare se sia legittimo che il cittadino europeo, in conseguenza dell’esercizio di una sua libertà fondamentale, venga limitato nel godimento dei propri diritti politici. Egli risulta, infatti, titolare nel Paese europeo di residenza del diritto di voto per le elezioni a livello locale (sostanzialmente amministrative) e per quelle del Parlamento europeo a livello sovranazionale; non può invece votare per le elezioni dell’Assemblea parlamentare, né dello Stato di cui ha la cittadinanza, né di quello in cui risiede, salvo che ovviamente non abbia ottenuto la relativa cittadinanza.

Il quadro è apparentemente coerente: sono garantite le ipotesi di diritto di voto espressamente riconosciute al cittadino europeo dal diritto dell’Unione, mentre il diritto di voto al Parlamento nazionale è lasciato alla disciplina di ciascuno Stato, che in situazioni particolari – come quella in esame – può escluderlo. Tuttavia, com’è noto, la cittadinanza europea deriva da quella nazionale e implica l’attribuzione di nuovi diritti. Risulta difficile comprendere come l’esercizio di uno dei diritti connessi alla cittadinanza europea possa portare alla limitazione di quelli espressione della cittadinanza nazionale. Spostarsi tra i Paesi dell’UE non dovrebbe essere considerato alla pari del trasferimento in un qualsiasi Paese straniero, neppure quando entrano in gioco profili essenziali della sovranità nazionale, come il diritto di voto.

La democrazia, e con essa il principio rappresentativo che ne è elemento consustanziale, costituisce uno dei valori fondanti dell’Unione, che in questo caso verrebbe leso, a livello nazionale, proprio come conseguenza dell’esercizio di un diritto previsto dall’UE. Il controllo sempre più stringente che l’Unione svolge sul rispetto da parte degli Stati membri del principio di rule of law e dei valori comuni dovrebbe implicare un approccio differente rispetto alla disciplina del diritto di voto per le elezioni parlamentari.

Il Regno Unito non è l’unico Paese che prevede la perdita del diritto di voto a seguito della residenza prolungata in un altro Paese dell’Unione ‑ come ricordato da ultimo nell’analisi pubblicata nel dicembre 2014 dall’European Parliamentary Research Service, su Disenfranchisement of EU citizens resident abroad. Situation in national and European elections in EU Member States ‑, ma tale soluzione non ha mancato di sollevare critiche. Le stesse Istituzioni europee hanno messo in luce la difficoltà in cui si vengono a trovare i cittadini europei; nella Relazione sulla Cittadinanza del 2010 la Commissione europea si era impegnata ad avviare «una discussione con gli Stati membri per individuare le opzioni strategiche per impedire che i cittadini dell’UE perdano i loro diritti politici in conseguenza dell’esercizio del diritto alla libera circolazione» (così la Relazione della Commissione europea sulla cittadinanza dell’Unione, Eliminare gli ostacoli all’esercizio dei diritti dei cittadini dell’Unione). Una soluzione potrebbe essere quella di riconoscere ai cittadini europei che si avvalgono della libertà di circolazione il diritto di voto per l’elezione del Parlamento dello Stato membro di residenza, dopo un periodo di tempo che attesti il loro legame con il Paese di accoglienza. In questo modo la cittadinanza dell’Unione, oltre ad attribuire nuovi diritti, rafforzerebbe quelli riconosciuti dagli Stati membri, collocandoli nella prospettiva europea (per un approfondimento su questi aspetti si rinvia a J. Shaw, EU Citizenship and Political Rights in an Evolving European Union, in Fordham Law Review, vol. 75, 2007, p. 2549 ss. e ai contributi raccolti da R. Bauböck, P. Cayla, C. Seth (a cura di), Shoud EU Citizens Living in other Member State Vote there in National Elections?, EUI Working Paper RSCAS 2012/32).

Il diritto di voto per il referendum sul recesso del Regno Unito dall’Unione europea

Come si è cercato di illustrare, la valutazione – alla luce del diritto dell’Unione – della disciplina elettorale nazionale può essere svolta mettendo al centro, più che i singoli diritti spettanti al cittadino europeo, la stessa cittadinanza europea che è alla base di tali diritti. Questo ragionamento può essere applicato, a maggior ragione, in relazione alla regolamentazione del voto per il referendum sulla Brexit, perché una delle sue potenziali conseguenze è proprio la perdita della cittadinanza europea.

Nel caso Schindler, in forma più ampia nella motivazione della High Court, viene presa in esame – come si è già ricordato – la decisione Rottmann della Corte di giustizia, relativa alla disciplina tedesca sulla revoca della cittadinanza, che nella vicenda in esame rischiava di condurre il soggetto interessato ad una situazione di apolidia, con la conseguente perdita della cittadinanza europea, di cui aveva goduto originariamente come cittadino austriaco e successivamente come cittadino tedesco. La Corte, pur ritenendo tale ipotesi astrattamente possibile, rinviava al giudice nazionale la valutazione della legittimità della soluzione adottata alla luce del diritto dell’Unione, sulla base di alcuni parametri di riferimento individuati in motivazione. Si trattava di svolgere un controllo sull’esercizio di una delle espressione più pregnanti della sovranità nazionale – quella di decidere quali sono i cittadini dello Stato – e tale controllo veniva giustificato in forza delle sue ricadute sulla cittadinanza europea, considerato che secondo la Corte «lo status di cittadino dell’Unione è destinato ad essere lo status fondamentale dei cittadini degli Stati membri» (p.to 43).

Nonostante questo espresso riferimento, tuttavia, nelle argomentazioni dei giudici britannici non viene dato rilievo alla circostanza che il referendum di giugno possa avere come conseguenza, nel caso si approvi il recesso del Regno Unito dall’Unione, il venir meno per tutti i cittadini del Regno Unito della cittadinanza europea. E’ evidente, tuttavia, che proprio per questa ragione la votazione referendaria coinvolge gli elettori in una scelta politica/costituzionale le cui ricadute riguardano anche, e in modo particolare, coloro che risiedono in un altro Paese membro, grazie all’esercizio della libertà di circolazione. I giudici, invece, riprendono le conclusioni del caso Preston, che aveva escluso – come si è visto – la contrarietà al diritto dell’Unione della “regola dei 15 anni” per la partecipazione alle elezioni al Parlamento nazionale, ritenendo che le stesse possano valere anche rispetto al voto per il referendum sulla Brexit.

Proseguendo il ragionamento svolto nel precedente paragrafo si possono prospettare però delle chiavi di lettura differenti.

Innanzitutto, va evidenziato che l’European Union Referendum Act 2015 ha operato alcune scelte precise in ordine all’attribuzione del diritto di voto, che si discostano da quelle per le elezioni parlamentari. Il riferimento, per quello che qui interessa, è in particolare al riconoscimento del diritto di voto per il referendum ai cittadini di Gibilterra, che non godono invece del diritto di voto per le elezioni del Parlamento del Regno Unito. Proprio i cittadini di Gibilterra, com’è noto, si erano rivolti alla Corte di Strasburgo per contestare la loro esclusione anche dalle elezioni per il Parlamento europeo. A seguito della decisione di condanna nel caso Matthew, il Regno Unito aveva modificato la propria legislazione elettorale per permettere la loro partecipazione alle elezioni europee (Matthews c. Regno Unito).

La scelta di estendere a questi soggetti il diritto di voto per il referendum sulla Brexit sembra quindi collegarsi alla loro titolarità del diritto di voto per il Parlamento europeo. La situazione dei cittadini britannici che risiedono da oltre 15 anni in un altro Paese dell’UE è molto simile a quella dei cittadini di Gibilterra: entrambi non hanno il diritto di voto per il Parlamento nazionale, ma entrambi hanno il diritto di voto per il Parlamento europeo (seppur, i primi, nello Stato di residenza). Non si comprende, dunque, la ragione di un trattamento differenziato rispetto alla partecipazione al referendum. E’ forse una questione di numeri, considerato che gli abitanti di Gibilterra sono meno di 30.000, mentre i cittadini britannici che vivono in un altro Paese europeo sono oltre un milione e molti potrebbero essere soggetti alla “regola dei 15 anni”?

Le considerazioni appena fatte rafforzano l’ipotesi di utilizzare come riferimento per analizzare la normativa nazionale la cittadinanza europea. Nella decisione Shindler (e prima ancora in Preston) il parametro di riferimento sul piano europeo è stata la libertà di circolazione. I giudici britannici, di conseguenza, non hanno ritenuto che l’esclusione dal voto al referendum, analogamente a quella per le elezioni nazionali, incida in modo determinante sull’esercizio di tale libertà. Non rilevano la sussistenza di differenze significative tra le due situazioni ed anche qualora vi fossero non sarebbero tali da inficiare il giudizio di ragionevolezza della soluzione adottata.

Diverse dovrebbero essere le conclusioni, a mio parere, nel momento in cui si prendesse come parametro di giudizio per valutare il rispetto del diritto dell’Unione la cittadinanza europea. Ciò vale, come si è visto, per la disciplina del voto in generale, ma a maggior ragione di quello che decide sulla partecipazione del Regno Unito all’Unione europea. Quest’ultimo infatti potrebbe avere come conseguenza diretta, in caso di esito positivo, la perdita per tutti i cittadini britannici della cittadinanza europea.

L’art. 50 del TUE stabilisce la possibilità per i Paesi membri di recedere dall’Unione, secondo le procedure previste da ciascun ordinamento. Nel momento in cui viene deciso, come nel Regno Unito, di utilizzare il voto popolare, cioè il coinvolgimento diretto dei cittadini, risulta difficile giustificare – alla luce del diritto dell’Unione – l’esclusione di quelli che risiedono in un altro Paese membro. Non è in gioco infatti la limitazione di uno dei diritti fondamentali connessi con la cittadinanza europea, ma la perdita della cittadinanza stessa.

Nel momento in cui si sceglie di dare ai cittadini britannici, che in quanto tali sono anche cittadini europei, il diritto di votare su tale scelta fondamentale, appare irragionevole che quelli tra di loro che hanno esercitato i diritti connessi alla cittadinanza europea per tale ragione siano esclusi dalla decisione sul suo mantenimento.


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