Una “sedia vuota” al Consiglio europeo del 14-15 dicembre 2023

«Il Consiglio europeo decide di avviare i negoziati di adesione con l’Ucraina e la Repubblica di Moldova». Così si legge al punto 15 delle Conclusioni del 14-15 dicembre 2023, che seguono la raccomandazione della Commissione di inizio novembre e dell’esortazione del Parlamento del giorno precedente.

La questione dell’adesione dell’Ucraina (per una cronologia si v. https://www.consilium.europa.eu/it/policies/enlargement/ukraine/) suscita un vivace dibattito, dove non è facile separare le questioni giuridiche da quelle politiche. Sia i favorevoli sia i contrari concordano sul fatto che l’Unione odierna non è equipaggiata con regole di funzionamento che ne assicurino l’operatività dopo l’allargamento. A quanto pare, si è ritornati alla vecchia e mai risolta contrapposizione tra allargamento (ossia aumento del numero degli Stati membri) e approfondimento (ossia le riforme al funzionamento dell’Unione) che aveva accompagnato l’allargamento ad est dei primi anni duemila, ma cercando di fare tesoro di quell’esperienza. Questa segnalazione non intende affrontare questo tema, ma un altro. I media nei giorni precedenti alla riunione avevano dato la notizia che Viktor Orbán, primo ministro ungherese, avrebbe votato contro ogni decisione di avviare i negoziati. Chi legge le sole Conclusioni non vi scorge nulla di anomalo: nessuna indicazione di voto contrario o assenza di consenso. In realtà, dai media si apprende che il presidente ungherese era fuori dall’aula di riunione quando le conclusioni sono state approvate. Stando a Politico, sembra che, prendendo spunto da dichiarazioni dello stesso Orbán rilasciate al settimanale Le Point, secondo cui più che porre il veto, egli non voleva partecipare ad una decisione che reputa sbagliata, il cancelliere tedesco Olaf Scholz, d’intesa con alcuni altri Capi di Stato e di Governo, ha suggerito al primo ministro ungherese di lasciare l’aula nel momento in cui il Consiglio europeo decideva sull’avvio dei negoziati. La soluzione di compromesso raggiunta ha evitato il rischio che Orbán tenesse fede alle minacce e ponesse il veto, ma non ha posto fine alla sua opposizione di principio, che egli non ha mancato di ribadire sui social. La minaccia del veto è stata da Orbán spostata su altre questioni in discussione, cioè la revisione del quadro finanziario pluriennale e i finanziamenti all’Ucraina. Sul primo fronte, nelle Conclusioni si legge che la soluzione trovata è appoggiata da 26 Stati e che si tornerà sul tema in una riunione straordinaria a gennaio. Quanto al secondo fronte, le Conclusioni si limitano a rinnovare il perdurante impegno di Unione e Stati membri a sostenere finanziariamente l’Ucraina. Orbán, stando ai media, cerca di usare il veto come merce di scambio per ottenere lo sblocco dei fondi la cui erogazione all’Ungheria è sospesa, ai sensi del regolamento sul un regime generale di condizionalità, per proteggere il bilancio dell’Unione dagli effetti di un “ecosistema normativo” che non garantisce a sufficienza il rispetto dello Stato di diritto. Quello mantenuto dal primo ministro ungherese è un veto meno mediatico, ma altrettanto fastidioso per il perseguimento degli obiettivi dell’Unione.

La presente segnalazione vuole riflettere brevemente sull’escamotage trovato per arrivare all’avvio dei negoziati. Lasciare l’aula per evitare di votare contro una decisione non è pratica comune, a detta delle persone informate consultate dai media che hanno riferito sul tema. Lo stesso Scholz ha sottolineato che è una soluzione eccezionale a cui non si dovrebbe ricorrere sovente. Qualcuno l’ha chiamata una forma di astensione costruttiva.

Quella di dare avvio ai negoziati con l’Ucraina non è una decisione prevista dall’art. 49 TUE. Tale disposizione, invero piuttosto laconica, si limita a stabilire che il Consiglio dell’Unione approva la domanda di adesione. Il Consiglio europeo, a partire dalla riforma del Trattato di Lisbona, è menzionato nell’art. 49, come l’autore dei criteri di ammissibilità ai quali le istituzioni deliberanti (Commissione, Parlamento europeo e Consiglio) si attengono per valutare la candidatura dell’aspirante membro. A fronte di queste scarne previsioni, è ben noto che nella prassi si è sviluppata una articolata procedura nel corso della quale il Consiglio europeo svolge un ruolo essenziale. La decisione di dare avvio ai negoziati è una di esse. Poiché però si pone tra le maglie (larghe) della procedura delineata dal Trattato, tale decisione non è assunta con un voto espresso, ma è contenuta nelle Conclusioni, che sono adottate per consensus. Questa particolare regola di voto non richiede un voto espresso, ma l’assenza di contrarietà dei componenti dell’organo. Con queste modalità di approvazione, in termini giuridici, parlare di astensione costruttiva per descrivere quanto successo durante il Consiglio europeo non ha senso, perché uscire dall’aula non è equiparabile ad astenersi, che anzi presuppone la partecipazione alla votazione. Inoltre, l’istituto, che è regolato all’art. 31, par. 1, co. 2, TUE, può essere usato nell’ambito della PESC e comporta che lo Stato che si astiene non è vincolato all’atto. Da questo punto di vista, l’astensione costruttiva è diversa dall’astensione ordinaria, che invece comporta che lo Stato che si astiene è vincolato all’atto adottato.

Uscire dall’aula è dunque equiparabile all’assenza dalla partecipazione al voto. Tale passo non può non ricordare la “crisi della sedia vuota”, cioè la mancata partecipazione della Francia, per alcuni mesi negli anni 1965-66, ai lavori del Consiglio che paralizzò l’allora Comunità economica europea. Nel caso attuale, l’uscita dall’aula era intesa ed è servita ad agevolare, non ad ostacolare, il funzionamento del Consiglio europeo. Un effetto dirompente come quello causato dalla mossa francese oggigiorno dovrebbe essere scongiurato, visto che sia il regolamento interno del Consiglio, sia quello del Consiglio europeo indicano il quorum deliberativo (rispettivamente metà e due terzi dei componenti).

In conclusione, l’assenza di Orbán gli ha evitato di essere la causa della paralisi dell’Unione e non ha impedito l’adozione di una decisione che ha grande significato politico, ma nessuna rilevanza giuridica, tanto è vero che dovranno seguire altre numerose (qualcuno le ha quantificate in più di 70) decisioni all’unanimità del Consiglio dell’Unione prima che l’Ucraina possa aderire all’Unione, rinviando la questione ad un futuro indeterminato. Ma non è un modello da incoraggiare, perché indebolisce la legittimità del Consiglio europeo stesso. Sembra invece positivo che le Conclusioni non facciano menzione dell’escamotage, così che la questione possa passare nel dimenticatoio ed essere relegata ai libri di storia dell’Unione europea.


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