“Se domani tocca a me, voglio essere l’ultima” La violenza domestica nei confronti delle donne può fondare il riconoscimento dello status di rifugiato. La Corte di giustizia si pronuncia nel caso WS

1. Con una decisione di indubbia importanza nella materia del diritto di asilo, il 16 gennaio la Grande sezione della Corte di giustizia si è pronunciata nella causa WScontro Intervyuirasht organ na Darzhavna agentsia za bezhantsite pri Ministerskia savet, precisando le condizioni per beneficiare della protezione internazionale, ai sensi della direttiva 2011/95/UE, nel caso di donne vittime di violenza domestica. La controversia nel procedimento principale riguardava, infatti, una cittadina turca, di origine curda, musulmana (sunnita) e divorziata, costretta a sposarsi a 16 anni e vittima di numerosi episodi di violenza nel corso della vita coniugale. A seguito della fuga (per cui era collocata in una casa di accoglienza per donne vittime di violenza sulla base della decisione di un tribunale turco), del divorzio e di un successivo matrimonio, aveva dichiarato di aver subito minacce di morte da parte del marito e di componenti della propria cerchia familiare. Come ha sottolineato l’avvocato generale Richard de la Tour, nel preambolo delle proprie conclusioni presentate il 20 aprile 2023, “la violenza domestica nei confronti delle donne è diventata una delle principali preoccupazioni delle nostre società, dopo essere stata a lungo sottovalutata dalle autorità quanto a gravità e alle conseguenze di tali atti. Gli omicidi nei confronti delle donne all’interno della cerchia familiare, ora chiamati «femminicidi» nel linguaggio comune, sono stati denunciati pubblicamente. Le autorità pubbliche hanno preso coscienza della necessità di proteggere meglio le donne vittime di violenza nella loro cerchia familiare e di dare prova di un maggiore rigore nei confronti degli autori di tali violenze”. Ciononostante, il riconoscimento della protezione internazionale (in particolare dello status di rifugiato) nei confronti delle donne che sono fuggite dal loro paese, e che non possono o non vogliono farvi ritorno per il timore di subire violenze all’interno della cerchia familiare, è risultato complesso nella pratica e controverso sotto un profilo teorico. Non stupisce che nelle osservazioni presentate (tra gli altri, dai governi francese e tedesco) sia stato, da alcuni, ribadito che lo status di rifugiato non può essere concesso a tutte le donne vittime di violenze domestiche, in quanto si tratta di un problema comune a tutti gli Stati, e da altri deplorato il frequente automatico ricorso alla protezione sussidiaria, con conseguente diniego dei motivi di persecuzione legati al genere. Per tale motivo la decisione emessa dalla Corte di giustizia costituisce un precedente significativo e suscettibile di incidere in misura rilevante sul diritto internazionale dei rifugiati, ben al di fuori dei confini europei (come confermato dall’eco ricevuta dalla pronuncia a livello mondiale).

2. La Convenzione di Ginevra del 1951 subordina il riconoscimento dello status di rifugiato, nei confronti di chi si trovi fuori dello Stato di cui ha la cittadinanza o, se apolide, di domicilio abituale, alla sussistenza di un fondato timore di persecuzione riconducibile a cinque motivi (razza, religione, nazionalità, opinioni politiche e appartenenza ad un particolare gruppo sociale). Il genere non è stato incluso tra i motivi (dai lavori preparatori si deduce che la proposta di aggiungere la parola “sesso”, pur formulata, fu respinta), né la Convenzione offre una nozione di persecuzione, che possa chiarire se la violenza domestica sia ad essa riconducibile. Nel 1985, UNHCR, nel raccomandare agli Stati di riorientare i propri programmi al fine di tenere conto delle specifiche esigenze di donne e ragazze, riconosceva “che gli Stati, nell’esercizio della loro sovranità, sono liberi di adottare l’interpretazione secondo cui le donne richiedenti asilo che subiscono trattamenti duri o inumani per aver trasgredito i costumi sociali della società in cui vivono possono essere considerate un “particolare gruppo sociale” ai sensi dell’articolo 1 A(2) della Convenzione delle Nazioni Unite sui Rifugiati del 1951”. Fu, in ogni caso, l’avvio di un processo che portò nel 2002 all’adozione di linee guida specificamente dedicate alla “persecuzione di genere nel contesto dell’articolo 1A(2) della Convenzione del 1951 e/o del Protocollo del 1967 relativi allo status dei rifugiati”, nelle quali si dava atto del prevalente orientamento maschile nei primi cinquant’anni di applicazione della Convenzione (per cui molte domande presentate da donne erano state respinte), evidenziando l’accresciuta analisi e comprensione delle questioni di genere nella giurisprudenza e nella pratica degli Stati.

3. È, infatti, a partire dagli anni duemila, e soprattutto nell’ultimo decennio che si assiste ad un’evoluzione significativa sul tema. A livello internazionale, la Convenzione per l’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne (CEDAW) del 1979, promossa in seno alle Nazioni Unite, ed entrata in vigore nel 1981 non affronta esplicitamente il tema della violenza di genere, ma attraverso le sue raccomandazioni generali e, più recentemente la propria giurisprudenza (a seguito dell’entrata in vigore nel 2000 del protocollo opzionale, che ha istituito meccanismi di monitoraggio e denuncia circa il rispetto degli obblighi convenzionali), il Comitato CEDAW ha ampliato la portata potenziale della Convenzione. In particolare, nel 2017 il Comitato CEDAW, con la raccomandazione n. 35, ha aggiornato la precedente raccomandazione n. 19 del 1992, in cui già aveva chiarito che la discriminazione contro le donne, come definita nell’art. 1 della Convenzione, include la violenza di genere, cioè “la violenza che è diretta contro una donna perché è una donna o che colpisce le donne in modo sproporzionato”, e che questo tipo di violenza costituisce una violazione dei loro diritti umani, affermando che l’opinio juris e la prassi degli Stati nel corso dei precedenti 25 anni “suggeriscono che il divieto di violenza di genere contro le donne si è evoluto in un principio di diritto internazionale consuetudinario”. E a partire dal caso T. c. Ungheria, nel 2005, sempre più numerose sono state le situazioni in cui il Comitato ha riscontrato una violazione degli obblighi discendenti dalla Convenzione in casi di violenza domestica (che rappresenta proprio uno degli ambiti di maggiore attività del Comitato).

4. A livello regionale europeo, occorre menzionare la Convenzione di Istanbul, promossa dal Consiglio d’Europa. Sottoscritta nel 2011 ed entrata in vigore nel 2014, è stata ratificata da 37 Stati del Consiglio d’Europa (la Turchia nel 2021 ha deciso di recedere). Nel giugno 2023 anche l’Unione europea ha ratificato la Convenzione, formalmente in vigore per l’UE dal 1° ottobre 2023. La “Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica” è il primo strumento in Europa a stabilire un quadro giuridicamente vincolante specificamente rivolto a prevenire la violenza di genere, proteggere le vittime di violenza e punire gli autori di violenza. La Convenzione di Istanbul si distingue, rispetto agli altri strumenti internazionali, in quanto contiene specifiche disposizioni (Capitolo VII) volte a tutelare la condizioni di migranti e rifugiati. In particolare, l’art. 60 richiede agli Stati parti “di adottare le misure legislative o di altro tipo necessarie per garantire che la violenza contro le donne basata sul genere possa essere riconosciuta come una forma di persecuzione ai sensi dell’articolo 1, A (2) della Convenzione relativa allo status dei rifugiati del 1951 e come una forma di grave pregiudizio che dia luogo a una protezione complementare / sussidiaria” e di accertarsi che “un’interpretazione sensibile al genere sia applicata a ciascuno dei motivi della Convenzione, e che nei casi in cui sia stabilito che il timore di persecuzione è basato su uno o più di tali motivi, sia concesso ai richiedenti asilo lo status di rifugiato, in funzione degli strumenti pertinenti applicabili”. L’art. 61 richiama gli Stati all’applicazione del divieto di respingimento, nei confronti delle donne vittime di violenza e bisognose di protezione. A livello UE, la direttiva qualifiche richiede agli Stati membri di tenere conto del genere quando valutano una richiesta di protezione, in particolare in relazione all’accertamento se l’atto in questione costituisce un atto di persecuzione e se la persona rientra in un particolare gruppo sociale (artt. 4, 9 e 10).

5. È in questo quadro evolutivo, di accresciuta consapevolezza e sensibilità rispetto al tema della violenza di genere, ma nel quale ancora si afferma con grande difficoltà il riconoscimento dello status di rifugiato nei confronti delle donne vittime di violenza domestica, che si inserisce l’importante pronuncia della Corte di giustizia. La questione era stata sottoposta alla Corte nel 2021, dal Tribunale amministrativo di Sofia (Bulgaria), incerto sulla possibilità di riconoscere una forma di protezione (ed in caso affermativo su quale tipologia). La domanda di protezione era stata, infatti, respinta dall’Agenzia nazionale per i rifugiati (DAB), avendo questa ritenuto che i motivi invocati da WS per lasciare la Turchia, in particolare gli atti di violenza domestica e le minacce di morte da parte del coniuge e all’interno della sua cerchia familiare, non fossero pertinenti ai fini del riconoscimento di tale status, nella misura in cui non potevano essere collegati ad alcuno dei motivi di persecuzione. Neppure le era stata riconosciuta la protezione sussidiaria. Non essendo stato accolto il ricorso avverso il diniego, la questione è stata sottoposta alla Corte nell’ambito di un ulteriore procedimento di esame fondato su un nuovo elemento di prova (una decisione di un tribunale penale turco che condannava l’exmarito a una pena privativa della libertà di cinque mesi per il reato di minacce perpetrate nei suoi confronti nel settembre 2016). Il giudice del rinvio ha, quindi, chiesto se, ai fini dell’interpretazione dell’art. 10, par. 1, lettera d) della direttiva 2011/95 (che definisce i criteri per la valutazione dell’appartenenza ad un particolare gruppo sociale), e tenuto conto del considerando 17 (che, nell’applicazione della direttiva, vincola gli Stati membri agli obblighi previsti dagli strumenti di diritto internazionale di cui sono parti), si debbano prendere in considerazione la CEDAW e la Convenzione di Istanbul (sebbene la Repubblica di Bulgaria non sia parte di quest’ultima convenzione). Il giudice ha osservato che gli atti elencati agli articoli da 34 a 40 della Convenzione di Istanbul, vale a dire, in particolare, la violenza fisica o sessuale, i matrimoni forzati o le molestie, rientrano nell’ambito delle violenze contro le donne fondate sul genere che sono menzionate, in modo non esaustivo, al considerando 30 della direttiva 2011/95 e possono essere qualificate come «atti di persecuzione», ai sensi dell’art. 9, par. 2, lettere a) e f), di tale direttiva. Alla Corte è stato chiesto, pertanto, di chiarire in che misura una cittadina di un paese terzo, che affermi di correre il rischio di essere esposta ad atti di violenza domestica commessi nell’ambito del suo nucleo familiare, una volta di ritorno nel suo paese di origine, possa beneficiare di una protezione internazionale ai sensi dell’art. 2, lett. a), della direttiva 2011/95. Il giudice di rinvio si è interrogato, considerate le numerose incertezze, circa il modo in cui tenere conto del genere del richiedente al fine di stabilire: a) i motivi della persecuzione (art. 10 dir. 2011/95 “appartenenza ad un determinato gruppo sociale”) e, nel caso in cui le violenze siano commesse da un soggetto non statale, b) il nesso causale tra tali motivi e la mancanza di protezione concessa dal paese di origine (art. 9, par. 3, di tale direttiva). L’ultima questione riguarda le condizioni in presenza delle quali una richiedente potrebbe ottenere la protezione sussidiaria ai sensi dell’art. 2, lettera f), dir. 2011/95 nel caso in cui non possa essere considerata una rifugiata. In particolare, il giudice del rinvio aveva chiesto alla Corte se gli atti che l’interessata avrebbe rischiato di subire, in caso di ritorno nel suo paese di origine, dovessero essere qualificati come «danno grave» ai sensi dell’art. 15 di tale direttiva.

6. L’art. 2, lettera d), della direttiva 2011/95 (conformemente all’art. 1, sezione A, della Convenzione di Ginevra), menziona l’«appartenenza a un determinato gruppo sociale», senza operare riferimenti al «genere» del richiedente protezione internazionale nella definizione della nozione di «rifugiato», né prevedere che la violenza di genere contro le donne possa costituire, di per sé, un motivo di protezione internazionale. Occorre, tuttavia ricordare che l’art. 78, par. 1, TFUE, prescrive che il regime europeo di asilo sia conforme non solo alla Convenzione di Ginevra e al Protocollo del 1967 relativo allo status dei rifugiati, ma anche ai «trattati pertinenti». E, come si è detto, la Convenzione di Istanbul contiene disposizioni esplicite al riguardo e le raccomandazioni generali n. 19 e 35 del Comitato per l’eliminazione della discriminazione contro le donne completano la CEDAW (sebbene l’Unione non ne sia parte, tutti gli Stati membri l’hanno ratificata), integrando un approccio basato sul genere, definendo la violenza di genere e prescrivendo agli Stati Parti di adottare misure generali ispirate a quelle adottate nell’ambito della Convenzione di Istanbul. La rilevanza di questi strumenti, ai fini dell’interpretazione della direttiva, diventa quindi un elemento estremamente rilevante e la Corte ha giudicato che entrambi debbano essere ritenuti pertinenti e, richiamando il considerando n. 17, che occorra interpretare le disposizioni della direttiva, in particolare l’art. 10, par. 1, lettera d), di quest’ultima, nel rispetto della Convenzione di Istanbul (che appunto riconosce la violenza contro le donne basata sul genere come una forma di persecuzione), anche se taluni Stati membri, tra cui la Repubblica di Bulgaria, non l’hanno ratificata. Per quanto attiene alle condizioni prescritte dall’art. 10, par. 1, lettera d), la Corte ha rilevato che le donne, nel loro insieme, possono essere considerate come appartenenti a un gruppo sociale ai sensi della direttiva 2011/95, costituendo l’appartenenza al sesso femminile una caratteristica innata e la circostanza che si siano sottratte a un matrimonio forzato o, nel caso di donne sposate, abbiano abbandonato il tetto coniugale, una «storia comune che non può essere mutata», ai sensi di tale disposizione. Per quanto riguarda la seconda condizione di identificazione di un «determinato gruppo sociale», relativa alla «identità distinta» del gruppo nel paese d’origine, la Corte ha rilevato che le donne possono essere percepite in modo diverso dalla società circostante e può essere riconosciuta loro un’identità distinta in tale società, in ragione, in particolare, di norme sociali, morali o giuridiche vigenti nel loro paese d’origine. Di conseguenza, esse possono beneficiare dello status di rifugiato quando, nel loro paese d’origine, sono esposte, a causa del loro sesso, a violenze fisiche o mentali, incluse le violenze sessuali e domestiche.

7. Per quanto attiene alla sussistenza del nesso causale, occorre ricordare che, ai sensi dell’art. 6, lettera c), dir. 2011/95, affinché soggetti non statuali possano essere qualificati come «responsabili della persecuzione o del danno grave», deve essere dimostrato che i soggetti che offrono protezione, di cui all’art. 7 di tale direttiva, tra cui in particolare lo Stato, non possono o non vogliono fornire la protezione contro tali atti (non è sufficiente la capacità, ed in particolare la sussistenza di un quadro giuridico adeguato, ma è necessaria la volontà di proteggere contro tali persecuzioni o danni gravi, e quindi la sua attuazione effettiva, che implica l’individuazione e la punizione di atti del genere). Pertanto, conclude la Corte, in presenza di un atto di persecuzione perpetrato da un soggetto non statuale, la condizione stabilita all’art. 9, par. 3, dir. 2011/95 (che presuppone un collegamento tra i motivi di persecuzione e gli atti di persecuzione) è soddisfatta qualora tale atto si basi su uno dei motivi di persecuzione menzionati all’art. 10, par. 1, di tale direttiva, quand’anche la mancanza di protezione non si basasse su tali motivi. Ma tale condizione è ritenuta soddisfatta anche qualora la mancanza di protezione si basi su uno dei motivi di persecuzione menzionati in quest’ultima disposizione, quand’anche l’atto di persecuzione perpetuato da un soggetto non statuale non si fondi su tali motivi.

8. Infine, quanto alla possibilità di applicare la protezione sussidiaria, qualora le condizioni per il riconoscimento dello status di rifugiato non siano soddisfatte, la Corte conclude che l’art. 15, lettere a) e b), della direttiva 2011/95 (che proteggono rispettivamente contro il rischio di essere condannati alla pena di morte o di essere giustiziati ovvero di essere esposti a tortura o altra forma di pena o trattamento inumano o degradante) debba essere interpretato nel senso che la nozione di «danno grave» ricomprende la minaccia effettiva, gravante sul richiedente, di essere ucciso o di subire atti di violenza da parte di un membro della sua famiglia o della sua comunità, a causa della presunta trasgressione di norme culturali, religiose o tradizionali.

9. In conclusione, le affermazioni della Corte, che hanno operato frequenti richiami a linee guida ed orientamenti di UNHCR sulla protezione internazionale (cfr. in particolare i punti 41, 56, 61) e che la Corte ribadisce godono di una pertinenza particolare, rafforzano la protezione contro un fenomeno odioso, offrendo argomentazioni a supporto di un più ampio riconoscimento dello status di rifugiato nei casi di violenza di genere. Ma come è stato altresì posto in luce, perché questi timori possano adeguatamente essere espressi e colti dalle autorità competenti, sono necessarie formazione degli operatori e la predisposizione di condizioni di accoglienza adeguate a farle emergere. È auspicabile che nella prossima riforma del sistema europeo di asilo se ne te tenga conto.


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