Il fenomeno del meat sounding al vaglio della Corte di giustizia e della Commissione

A seguito della decisione n. 465835, con la domanda di pronuncia pregiudiziale depositata in data 13 luglio 2023, causa C-438/23, il Conseil d’État francese (9a e 10a sezione) ha rimesso alla Corte di giustizia alcune questioni in merito al fenomeno del meat sounding e al relativo margine di discrezionalità in cui gli Stati Membri possono operare. Le risposte di cui siamo in attesa saranno di vitale importanza per i prossimi sviluppi dell’etichettatura degli alimenti a base vegetale.

I quesiti attualmente al vaglio della Corte muovono da tre ricorsi – inizialmente distinti, poi riuniti –rispettivamente avviati dall’associazione Protéines France, dall’Unione Vegetariana europea (EVU) insieme all’Associazione Végétarienne de France (AVF), nonché dalla società Beyond Meat, contro il Ministre de l’Économie, des Finances et de la Souveraineté industrielle et numérique, diretti all’annullamento del Décret n. 2022-947 del 29 giugno 2022. Tale decreto, a partire dall’ottobre del 2022, ha vietato in Francia l’utilizzo della terminologia propria dei settori tradizionalmente associati alla carne e al pesce per designare prodotti trasformati contenenti proteine vegetali, e quindi ad essi non comparabili. A sostegno della sua illegittimità, i ricorrenti invocano principalmente che il provvedimento è stato adottato secondo una procedura irregolare e con sviamento di potere, in quanto pur dichiarando di essere destinato a proteggere i consumatori, l’obiettivo ultimo era invece nell’interesse dei produttori di carne. Inoltre, l’atto violerebbe il requisito di chiarezza in materia di etichettatura sancito dal regolamento (UE) n.1169/2011, nonché le regole relative alle pratiche commerciali sleali tra imprese e consumatori nel mercato interno (v. punti da 19 a 23 della domanda di rinvio pregiudiziale). Nello specifico, i Giudici dell’UE sono chiamati a pronunciarsi sulle seguenti questioni: (1) se le disposizioni inerenti al principio di informazione ai consumatori di cui all’art. 7 del regolamento (UE) n. 1169/2011, e all’uso delle denominazioni che designano prodotti alimentari di origine animale per descrivere, commercializzare o promuovere prodotti contenenti proteine vegetali di cui all’art. 17 del regolamento (UE) n. 1169/2011, siano da considerarsi armonizzate, ai sensi e per gli effetti dell’art. 38, par. 1, del medesimo regolamento, escludendo così che uno Stato membro possa intervenire in materia con misure nazionali che regolamentino o vietino l’uso di queste denominazioni; (2) ammesso che uno Stato membro possa intervenire, se una misura nazionale che stabilisca i livelli di proteine vegetali al di sotto dei quali è consentito l’uso di denominazioni di prodotti di origine animale per commercializzare prodotti con proteine vegetali, e/o che vieti l’uso di alcune denominazioni, anche se accompagnate da indicazioni supplementari, possa considerarsi effettivamente proporzionale rispetto al raggiungimento dell’obiettivo di garantire una maggior trasparenza delle informazioni ai consumatori, finalità dichiaratamente perseguita dall’atto francese (v. punto 32 della domanda di rinvio).

La medesima censura del meat sounding prevista dalla Francia è stata avanzata anche dal legislatore italiano, a mezzo della recentissima legge 1 dicembre 2023 n. 172. Più nel dettaglio, all’art. 3, per produrre e commercializzare sul territorio nazionale prodotti trasformati contenenti esclusivamente proteine vegetali, la suddetta normativa vieta l’uso di: «(a) denominazioni legali, usuali e descrittive, riferite alla carne, ad una produzione a base di carne o a prodotti ottenuti in prevalenza da carne; (b) riferimenti alle specie animali o a gruppi di specie animali o a una morfologia animale o un’anatomia animale; (c) terminologie specifiche della macelleria, della salumeria o della pescheria; (d) nomi di alimenti di origine animale rappresentativi degli usi commerciali.» Rimangono esclusi dal divieto, invece, i prodotti in cui le proteine animali sono presenti in prevalenza rispetto alle proteine vegetali, purché ciò non induca in errore il consumatore sulla composizione dell’alimento, e le combinazioni di prodotti di origine animale con altri tipi di prodotti alimentari ad essi aggiunti senza sostituirli o costituirne un’alternativa.

Pochi giorni fa, la legge 172/2023 in esame, è stata bocciata dalla Commissione a causa della violazione della procedura di notifica prevista dalla direttiva (UE) 2015/1535 (TRIS). Tale disciplina prevede che qualora uno Stato membro intenda introdurre leggi che potrebbero creare ostacoli al mercato interno debba notificare il disegno di legge, prima della sua entrata in vigore, alla Commissione e agli altri Stati membri, sospendendo l’iter legislativo interno per tre o sei mesi, perché ne venga valutata la compatibilità con il diritto dell’Unione europea. Il testo di legge italiano, contenendo tra le varie disposizioni anche il divieto di vendita, produzione e commercializzazione della c.d. “carne coltivata”, era quindi assoggettato alla procedura TRIS. Inizialmente, dopo la sua approvazione in Parlamento, il disegno legislativo era stato correttamente notificato (notifica n. 2023/675/IT) alla Commissione il 1° dicembre 2023, poi subito ritirato, e successivamente rinotificato solo dopo essere divenuto formalmente legge, senza attendere il termine del periodo di sospensione imposto dalla direttiva. Nonostante l’atto fosse accompagnato da una lettera che chiariva l’impegno del Governo di adeguarsi a eventuali osservazioni formulate dalla Commissione, quest’ultima, sulla scorta della violazione della procedura TRIS, il 29 gennaio 2024 ha archiviato la notifica del testo di legge da parte dell’Italia, a mezzo della comunicazione 2024/0244. La Commissione ha poi invitato lo Stato membro «a informarla del seguito dato, anche alla luce della giurisprudenza pertinente della Corte di giustizia», aggiungendo di non avere, in questa fase, ulteriori osservazioni. Resta da capire, quindi, quale sarà il futuro della legge 172/2023, posto che in passato la Corte di giustizia ha deliberato che le leggi adottate in violazione della procedura possono essere dichiarate inapplicabili dai tribunali nazionali.

Tornando al merito della questione, se è vero che il decreto francese e la legge italiana sono pionieri nel vietare la designazione di prodotti vegetali con nomi che richiamano la carne, è altrettanto vero che, più in generale, non costituisce una novità il divieto di impiegare, per gli stessi prodotti, denominazioni evocative di alimenti di origine animale.

Nel 2017, infatti, la Corte di giustizia veniva interrogata da un Tribunale regionale tedesco nell’ambito di una controversia riguardante, invece, il settore del latte e dei prodotti lattiero-caseari. Con la sentenza in parola, meglio nota come TofuTown (VII Sezione, 14 giugno 17, Verband Sozialer Wettbewerb eV vs. TofuTown.com GmbH, C-422/16, ECLI:EU:C:2017:458), la Corte ha considerato non legittimo l’impiego della denominazione «latte» e delle denominazioni che il regolamento (UE) n. 1308/2013 (regolamento OCM unica) riserva unicamente ai «prodotti lattiero-caseari» per designare, all’atto della relativa commercializzazione o pubblicizzazione, un prodotto puramente vegetale, e ciò anche nel caso in cui tali denominazioni siano completate da indicazioni esplicative o descrittive indicanti l’origine vegetale del prodotto in questione – ad esempio, “hamburger di soia”, “polpette vegetali”, “macinato vegano”, “salsiccia di tofu” – (cfr., in tal senso, sentenza del 16 dicembre 1999, UDL, C-101/98, ECLI:EU:C:1999:615, punti da 26 a 29 e da 33 a 35).

Il fondamento normativo della decisione si rinviene nell’art. 78, par. 2, del reg. 1308/2023 che, in combinato disposto con l’allegato VII, parte III, stabilisce che le denominazioni utilizzate in tutte le fasi della commercializzazione e della pubblicità, quali «siero di latte, crema di latte o panna, burro, latticello, […], formaggio, yogurt, kefir, […],» nonché «le denominazioni ai sensi […] dell’art. 17 del reg. (UE) 1169/2011 [le c.d. denominazioni legali] effettivamente utilizzate per i prodotti lattiero-caseari» possono essere utilizzate nell’Unione solo per i prodotti lattiero-caseari come ivi definiti, cioè per quei prodotti derivati esclusivamente dal latte. A tal fine, quest’ultimo è a sua volta definito esclusivamente come «il prodotto della secrezione mammaria normale, ottenuto mediante una o più mungiture, senza alcuna aggiunta o sottrazione». La norma prevede poi che tali termini possano essere eventualmente impiegati, anche insieme ad altri, per designare prodotti composti in cui però nessun elemento sostituisce o intende sostituire un componente qualsiasi del latte e di cui il latte o un prodotto lattiero-caseario costituisce una parte fondamentale.

Come emerge dalla disposizione e dalla ricostruzione offerta dalla Corte, quindi, proprio perché il prodotto lattiero-caseario deriva esclusivamente dal latte deve contenerne i componenti, viceversa, laddove uno di questi sia stato sostituito, anche solo parzialmente, non potrà essere designato con una delle denominazioni sopra elencate. Parimenti, qualsiasi prodotto puramente vegetale, non contenendo né latte, né prodotti lattiero-caseari, è sottoposto allo stesso divieto, anche laddove siano aggiunte indicazioni esplicative o descrittive indicanti l’origine vegetale del prodotto.

La regola generale di cui al punto 5 del menzionato allegato VII, parte III, vuole poi che le suddette denominazioni non siano utilizzate per nessun altro prodotto, ammettendo tuttavia che da tale limitazione restino esclusi «i prodotti la cui natura esatta è chiara per uso tradizionale e/o qualora le denominazioni siano chiaramente utilizzate per descrivere una qualità caratteristica del prodotto». La Commissione, a mezzo dell’allegato I alla decisione 2010/791/UE, ha individuato l’elenco dei prodotti oggetto della deroga i quali, riportando l’esempio italiano, al momento sono solamente quattro: «latte di mandorla, burro di cacao, latte di cocco e fagiolini al burro.»

Seguendo il ragionamento svolto dalla Corte nella pronuncia TofuTown, sarebbe legittimo attendersi che le stesse conclusioni investissero anche i prodotti puramente vegetali quando evocativi di alimenti propri del settore della carne, posto che i principi e gli interessi sui quali poggia la decisione in esame potrebbero essere senza dubbio estesi anche ad essi. La normativa UE in materia, infatti, indica, precisamente all’allegato I al regolamento (CE) n. 853/2004, cosa può essere designato con i termini «carni», «preparazioni di carni», «prodotti della pesca», «prodotti a base di carne», «prodotti della pesca trasformati», sempre riconducendosi all’origine animale dell’alimento. Laddove le carni e i prodotti della pesca vengono definiti facendo espresso riferimento a tutte le parti commestibili di un dato elenco di animali, di conseguenza, i prodotti di carne o pesce trasformati sono quelli che risultano dalla loro trasformazione, o ancora dall’ulteriore trasformazione di tali prodotti trasformati. È chiaro, dunque, anche in questo caso, che per definirsi tali, questi alimenti debbano comunque sempre contenere carne o pesce, automaticamente escludendo i prodotti puramente vegetali.

Nella caso TofuTown, la Corte ha mantenuto un’interpretazione estensiva del divieto di cui all’art. 78, par. 2, del reg. 1308/2013 e del relativo allegato, ritenendo che escludere la possibilità di impiegare le denominazioni elencate per designare i prodotti vegetali si conformi e contribuisca al raggiungimento degli obiettivi del regolamento stesso, mirando, in linea con i suoi considerando 64 e 76, al miglioramento delle condizioni economiche della produzione, della commercializzazione e della qualità dei prodotti, nonché alla protezione dei consumatori e delle condizioni di concorrenza del mercato. Qualora, invece, tale divieto non fosse operativo, ad avviso della Corte l’utilizzo delle denominazioni non consentirebbe di identificare in maniera certa i prodotti contenenti le caratteristiche del latte animale, sia causando notevoli rischi di confusione, a discapito dei consumatori, sia rendendo ancor più difficile migliorarne le condizioni economiche di produzione e commercializzazione (v. punti 43 e 44 sent. TofuTown). Sulla base di tali argomenti, dunque, le disposizioni del regolamento invocate sono state ritenute perfettamente rispondenti al principio di proporzionalità che a livello di Unione europea legittima l’adozione degli atti da parte delle Istituzioni (v. punto 45 sent. TofuTown).

Da ciò emerge che il divieto di utilizzo di denominazioni evocative dei prodotti lattiero-caseari per prodotti puramente vegetali, legittimato dalla Corte, si fonda su due principi cardine del diritto alimentare UE: la necessità che le informazioni sugli alimenti fornite al consumatore siano «precise, chiare e facilmente comprensibili», ai sensi dell’art. 7, co. 2, del reg. 1169/2011, nonché la tutela degli interessi di mercato. Di conseguenza, dovrebbe poggiare sulle medesime basi giuridiche anche il divieto di utilizzo, per gli stessi prodotti vegetali, di denominazioni evocative della carne e della pesca. Tuttavia, la posizione che la Corte assume nella medesima pronuncia, non chiarifica con certezza tale conclusione.

Muovendo dal presupposto che i prodotti lattiero-caseari e quelli della carne e della pesca fanno parte di settori diversi, addirittura appartenenti a due risalenti Organizzazioni Comune dei Mercati distinte, la Corte sostiene «che il confronto tra gli strumenti tecnici usati per disciplinare i vari settori di mercato non può costituire una base valida per dimostrare la fondatezza della censura di discriminazione fra prodotti dissimili, sottoposti a norme diverse» (v. punti da 49 a 51 sent. TofuTown). Ciò significa, secondo la TofuTown, che non sottoporre i produttori di alimenti vegetariani o vegani sostitutivi della carne o del pesce a restrizioni nell’uso delle denominazioni simili a quelle cui sono soggetti i produttori di alimenti vegetariani o vegani sostitutivi del latte o dei prodotti lattiero-caseari non può essere considerato contrario al principio della parità di trattamento.

Benché la vicenda investa la commercializzazione di prodotti vegetali in un ramo che, seppur attiguo, rimane distinto da quello ad oggetto dei recenti interventi legislativi francese e italiano, la posizione assunta dalla Corte nella vicenda fin qui analizzata costituisce il punto di partenza quando si esaminano ulteriori applicazioni del fenomeno del meat sounding. Nonostante, infatti, la sentenza emessa all’esito del rinvio pregiudiziale sul caso TofuTown riguardi un caso specifico e delimitato, prendendo le mosse da essa, alcuni Stati Membri hanno dato a tale interpretazione la forma di vero e proprio divieto, operante a livello nazionale. Sia la Francia, sia l’Italia, peraltro, ne hanno giustificato l’introduzione riprendendo in parte le motivazioni alla base del reg. 1308/2013: la legge italiana dispone espressamente, all’art. 3, che la censura è stata adottata al precipuo scopo di «tutelare e valorizzare il patrimonio zootecnico nazionale, […], assicurando nel contempo un elevato livello di tutela della salute umana e degli interessi dei cittadini che consumano e il loro diritto all’informazione»; così come il decreto francese, adottato in applicazione dell’art. L. 412-10 del Code de la consommation, fa rinvenire nella trasparenza ai consumatori la propria base giuridica.

Come anticipato, siamo in attesa di conoscere quale sia, a 7 anni di distanza dalla sentenza TofuTown, la posizione della Corte di giustizia rispetto alla questione rimessale in via pregiudiziale dal Consiglio di Stato francese e, al contempo, gli sviluppi, per ciò che concerne il merito, della legge italiana. Sarà necessario interrogarsi, ancora una volta, su quali siano i concetti di trasparenza e di errore nell’informazione al consumatore, per valutare se il meat sounding sia davvero una minaccia per gli equilibri concorrenziali del mercato. Particolarmente sottile, infatti, può essere il confine tra un’informazione «precisa, chiara e facilmente comprensibile» o fuorviante e ingannevole, soprattutto quando la particolarità decettiva non è palese e immediatamente percepibile dal destinatario. Ciò potrebbe accadere, appunto, quando termini evocativi della carne vengono affiancati ad altre parole utilizzate a completamento, indicanti l’origine vegetale del prodotto: forse non si produrrebbe nel consumatore un errore di percezione dell’alimento in sé, ma potrebbe risultare, in senso più ampio, un condizionamento indiretto dato dallo snaturamento delle definizioni cui ciascuno è tradizionalmente abituato. La difficoltà di valutare l’impiego di certi termini o meno sta qui, «nel carattere parzialmente inconsapevole di tali effetti» (U. Volli, 2003). Questo, unito al fatto che rispetto al passato dovrà essere ponderata tra i fattori anche una diversa e plausibilmente più acuta capacità critica del consumatore – ormai «consumato-re», «consum-attore» e «consum-autore» (G. Fabris, 2010) – nonché alla circostanza che l’adozione di uno strumento (il divieto) in un settore di mercato (quello lattiero-caseario) non ne giustifica l’automatico riconoscimento anche in un altro (quello della carne), rendono niente affatto scontate la futura pronuncia della Corte e le eventuali nuove osservazioni della Commissione rispetto al contenuto della legge italiana 172/2023.


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