La Convenzione europea dei diritti dell’uomo ha 70 anni.

Celebriamo quest’anno il 70° anniversario della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. 70 anni di pace in Europa, una condizione piuttosto eccezionale se guardiamo alla ricca e tormentata storia di questo continente, e una condizione sulla quale l’istituzione e il successo del sistema europeo dei diritti umani hanno contribuito ampiamente, anche se forse l’opinione pubblica europea – e non solo europea – non ne è pienamente consapevole.

Dopo la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 1948, atto solenne che, pur non essendo di per sé vincolante, ha un’importanza fondamentale nel diritto internazionale, avendo infranto il tabù del dominio riservato agli Stati per quel che riguarda il trattamento delle persone soggette alla loro giurisdizione, la Convenzione europea ha espresso la volontà politica, meno di due anni dopo, di istituire un meccanismo vincolante a livello regionale per la tutela dei diritti umani.

L’articolo 25 della Convenzione (ora articolo 34) stabilì il principio rivoluzionario, sebbene – al tempo – limitato e soggetto a una clausola facoltativa, del ricorso individuale, e gli articoli 53 e 54 (ora 46) quello non meno rivoluzionario secondo cui le Alte Parti Contraenti “… si impegnano a conformarsi alle decisioni della Corte nelle controversie di cui sono parti. “, accettando un meccanismo di monitoraggio sotto la supervisione dell’organo politico del Consiglio d’Europa, il Comitato dei Ministri.

Forse all’epoca gli Stati contraenti non erano pienamente consapevoli dell’entità della limitazione di sovranità che stavano accettando con la Convenzione. Per rendersi conto delle innumerevoli riforme, a livello amministrativo, legislativo e anche costituzionale che gli Stati contraenti hanno attuato in risposta alle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo che hanno evidenziato tensioni tra lo stato degli ordinamenti giuridici nazionale e gli obblighi derivanti dalla Convenzione, è sufficiente visitare il sito web del Dipartimento del Consiglio d’Europa per l’esecuzione delle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo. È stata da poco pubblicata una ricca scheda tematica sulle riforme che hanno un impatto costituzionale.

La Corte europea dei diritti dell’uomo, più giovane della Convenzione, ha poco più di 60 anni, avendo iniziato a lavorare nel 1959. In questi decenni la giurisprudenza della Corte – che copre praticamente tutti gli aspetti della la vita delle nostre società europee – non ha smesso di svilupparsi e, attraverso il meccanismo di monitoraggio che ho appena accennato, ha cambiato il volto giuridico del continente, oso credere rendendolo più vicino alle esigenze di persone e più robusto quanto alla sua tenuta democratica.

Sarebbe impossibile dare un’idea del contenuto della giurisprudenza della Corte di Strasburgo. Vorrei comunque fare riferimento alla duplice funzione di questa giurisdizione: da un lato quella di giudice del caso concreto, funzione che consente di rendere giustizia individualmente dando soddisfazione a coloro che sono stati vittime di un violazione della Convenzione e, d’altro lato, quella del suo interprete autorizzato dello strumento, quindi una funzione quasi costituzionale di guida dei tribunali nazionali.

Si è detto che quest’ultima funzione è stata esercitata in particolare durante i primi decenni di vita della Corte, ed è diventata scarsa negli ultimi tempi, poiché la Corte si è concentrata sui singoli aspetti dei ricorsi. Non sono davvero d’accordo con questa analisi. La massa di informazioni a cui mi riferivo, e che è possibile trovare sul sito web del Dipartimento del Consiglio d’Europa per l’esecuzione delle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo, mostra chiaramente che questa funzione quasi costituzionale della Corte di Strasburgo è ben viva.

È vero, tuttavia, che tra gli anni ’70 e ’80 la Corte ha adottato importanti sentenze che sono veri e propri pilastri e che hanno posto le basi del suo patrimonio giurisprudenziale. Penso che in questa occasione del 70 ° anniversario della Convenzione sia opportuno menzionarli brevemente, perché senza il coraggio e la determinazione dei giudici che hanno forgiato i principi in essi racchiusi, nulla sarebbe stato possibile.

Penso a Golder c. Regno Unito del 1975, sul diritto di accesso al giudice e i criteri d’interpretazione della Convenzione, a Engel c. Paesi Bassi del 1976, sull’interpretazione autonoma dei termini contenuti nel testo convenzionale, a Handyside c. Regno Unito, sempre del 1976, sul margine di apprezzamento, a Tyrer c. Regno Unito del 1978 sull’interpretazione evolutiva della Convenzione, che ha introdotto la dottrina dello “strumento vivente”, a Soering c. Regno Unito del 1989, che ha permesso l’applicazione indiretta della Convenzione, così rendendo gli Stati responsabili non solo dei loro propri comportamenti, ma anche dei rischi ai quali essi potrebbero esporre le persone sottoposte alla loro giurisdizione espellendoli o estradandoli verso altri Stati. Ce ne sono naturalmente molte altre, ma qui mi limiterei a ricordare queste oldies but goldies.

Torno sulla democrazia. Penso che la Convenzione sia una polizza assicurativa molto efficace contro i rischi di possibili derive autoritarie. Questa è stata, credo, la geniale intuizione degli autori della Convenzione che, ancorando questo strumento al sistema di valori del Consiglio d’Europa, vale a dire la democrazia pluralistica, lo Stato di diritto e i diritti umani, hanno voluto preservare il continente dai rischi dell’autoritarismo che, come essi ben sapevano, aveva portato alla dittatura, alla guerra e persino al genocidio.
Il ricordo di questa emergenza si è perso oggi? È un dato di fatto che, diversi fattori, come la crisi economica, il terrorismo, l’emergere di massicce migrazioni verso l’Europa e oggi la crisi sanitaria, hanno favorito il sorgere di ideologie sovraniste, che trovano difficile accettare pienamente il principio della democrazia liberale, che è l’unico compatibile con il sistema della Convenzione.

Ora, come il Preambolo della Convenzione chiarisce, i diritti umani non possono vivere e prosperare al di fuori di una democrazia effettiva. Il pericolo è quello dell’erosione del sistema democratico: si cominciano a violare i diritti dell’opposizione e si attenta all’indipendenza della magistratura, la stampa è imbavagliata, a volte anche gli oppositori vengono imprigionati. Le politiche volte a eliminare i controlli e gli equilibri tentano di indebolire, o addirittura eliminare, gli attori istituzionali essenziali per il processo democratico. Ai loro occhi la giustizia, la stampa e l’opposizione diventano il nemico.

È un dato di fatto che lo sviluppo degli eventi in Europa ha portato negli ultimi anni a una situazione in cui si possono osservare pressioni sul principio democratico dello Stato di diritto, mentre aumentano le manifestazioni di intolleranza nei confronti degli organismi per i diritti umani, interni e internazionali, inclusa la Corte europea dei diritti dell’uomo.

La mia generazione ha a lungo pensato che la democrazia una volta installata non sarebbe stata reversibile. Eravamo fiduciosi che la democrazia fosse lì per tutta l’eternità. Era un’illusione? Spero davvero che non sia così, ma oggi ci troviamo di fronte a un fenomeno di disincanto che ha il potenziale per minare la democrazia.

Per le giovani generazioni, l’adesione immediata all’idea di diritti umani non è più ovvia. Le ragioni sono molteplici e affondano le loro radici nei fenomeni di crisi di cui ho accennato poco fa.

Un segnale preoccupante è il crescente numero di accertamenti di violazioni dell’articolo 18 della Convenzione. Questa disposizione stabilisce che tutte le restrizioni che possono essere imposte ai diritti e alle libertà protette dalla Convenzione devono perseguire esclusivamente e strettamente i fini per i quali esse sono permesse e non altri scopi. Se uno Stato è trovato in violazione di questa disposizione, la situazione è grave, perché questo vuol dire che lo stesso Stato, scientemente, in mala fede, ha violato la Convenzione, cercando poi di “nascondere le sue tracce”. Un esempio flagrante è l’incarcerazione di un oppositore politico con il pretesto di false accuse penali (Ilgar Mammadov c Azerbaijan, CEDH, 22 maggio 2014). Dall’entrata in vigore della Convenzione la violazione di questa disposizione è stata constatata quindici volte. Ora, di questi quindici casi cinque si sono verificati nel 2018 e tre nel 2019. Si è notato, molto giustamente, che la moltiplicazione di queste evenienze rischia di rendere banale un segnale di allarme che invece dovrebbe mantenere tutta la sua gravità (A. NUSSBERGER, « The European Court of Human Rights at Sixty – Challenges and Perspectives », European Convention on Human Rights Law Review, vol. 1, 2020, à la page 13).

Tutti coloro che amano la democrazia dovrebbero quindi augurare lunga e prospera vita alla Convenzione dei diritti dell’uomo e alla sua Corte.

Per quanto riguarda il nostro Paese, direi che i valori della Convenzione sono penetrati in profondità nell’ordinamento giuridico italiano e, quel che forse più conta, nella coscienza degli attori del mondo del diritto, soprattutto giudici ed avvocati, che nel loro quotidiano agire la fanno vivere. Così, credo, migliorando la vita di tutti noi. Oramai sia la Corte costituzionale sia i giudici “comuni” prestano grande attenzione alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo.

Deve essere sottolineata l’importanza della collaborazione tra la Corte di Strasburgo e i giudici nazionali, la cui azione sarà fondamentale per il futuro del sistema europeo di tutela dei diritti umani. Il giudice nazionale è il primo, e probabilmente il più importante, garante dei diritti previsti dalla Convenzione.

In questo contesto è molto importante il Protocollo 16. Non posso chiudere queste brevissime note senza un accenno a questo strumento, che consente alle corti supreme e costituzionali nazionali di rivolgersi alla Corte europea dei diritti dell’uomo, nel quadro di una procedura giudiziaria concreta, per ottenere un parere non vincolante sull’interpretazione della Convenzione. Il Protocollo è ora entrato in vigore ed è già stato attivato da due corti superiori europee, la Corte di cassazione francese e la Corte costituzionale armena.

Oltre ad avvicinare la protezione della Convenzione ai suoi diretti beneficiari, rendendo potenzialmente inutile un successivo ricorso a Strasburgo, il Protocollo proclama anche simbolicamente la necessità della collaborazione tra il giudice nazionale e il giudice europeo per il raggiungimento dei fini della Convenzione. Non c’è futuro per quest’ultima, a sommesso avviso di chi scrive, sia detto incidentalmente, senza questa collaborazione.

Anche per questa ragione è auspicio di chi scrive che il nostro Parlamento riprenda l’esame del disegno di legge di autorizzazione alla ratifica di questo strumento, esame che per il momento è stato accantonato.

Tagliare fuori il nostro Paese da questa forma di collaborazione particolarmente intensa con la Corte di Strasburgo potrebbe difficilmente essere considerata una scelta lungimirante.

A tacer d’altro, le corti italiane, perdurando l’assenza di ratifica del nostro Paese, rimarrebbero escluse dalla possibilità di stimolare sviluppi giurisprudenziali importanti in aree finora inesplorate, quali presumibilmente saranno quelle oggetto delle richieste di pareri delle corti nazionali nel quadro del Protocollo n. 16.

A sommesso avviso di chi scrive, infatti, la giurisprudenza elaborata dalla Corte in sede consultiva non sarà chiusa da un cordone sanitario e riservata all’uso degli Stati ratificanti il Protocollo, ma sarà evidentemente giurisprudenza della Corte a tutti gli effetti.

Ne è una riprova la sentenza della nostra Corte costituzionale n. 230 del 2020, che in un caso di “omogenitorialità” ha tranquillamente citato il parere reso dalla Grande Camera della Corte di Strasburgo del 10 aprile 2019 in materia di maternità surrogata reso a richiesta della Corte di cassazione francese senza neanche porsi il problema della sua elaborazione nel quadro di uno strumento internazionale non ratificato dal nostro Paese.

Sarà un caso, ma la sentenza n. 230 della Corte costituzionale è stata pubblicata il 4 novembre 2020, giorno del 70° anniversario della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.

Guido Raimondi, Presidente di sezione della Corte di cassazione, già Presidente della Corte europea dei diritti dell’uomo


facebooktwittergoogle_plusmailfacebooktwittergoogle_plusmail