Assegni di natalità e maternità nella recente sentenza della Corte di giustizia: riflessioni “a caldo”

1. Queste riflessioni “a caldo” hanno per oggetto la sentenza della Corte di giustizia nel caso C-350/20, in merito al divieto di erogazione degli assegni di natalità e maternità, per come disciplinato nella normativa Italiana di recepimento della direttiva 2011/98 relativa a una procedura unica di domanda per il rilascio di un permesso unico che consente ai cittadini di paesi terzi di soggiornare e lavorare nel territorio di uno Stato membro e a un insieme comune di diritti per i lavoratori di paesi terzi che soggiornano regolarmente in uno Stato membro.

2. Brevissimamente, il contesto fattuale e il quesito pregiudiziale.

Le autorità italiane hanno rifiutato la concessione di un assegno di natalità e di un assegno di maternità a diversi cittadini di paesi terzi che soggiornano legalmente in Italia, titolari di un permesso unico di lavoro. Il rifiuto è stato motivato dalla circostanza che, contrariamente a quanto previsto nella legge n. 190/2014 e nel decreto legislativo n. 151/2001, tali persone non sono titolari dello status di soggiornanti di lungo periodo.

Alcuni di questi cittadini extra-UE hanno contestato tale rifiuto dinanzi ai giudici italiani.

Nell’ambito di dette controversie, la Corte suprema di Cassazione, ritenendo che la disciplina dell’assegno di natalità fosse in contrasto con la Costituzione, ha sottoposto alla Consulta questioni di legittimità costituzionale riguardanti sia la legge n. 190/2014, relativa all’assegno di natalità, sia il decreto legislativo n. 151/2001, relativo all’assegno di maternità.

In un tale contesto, la Corte costituzionale, ritenendo che il divieto di discriminazioni arbitrarie e la tutela della maternità e dell’infanzia, garantiti dalla Costituzione, dovessero essere interpretati alla luce dell’ordinamento UE, ha sottoposto alla Corte di giustizia la seguente questione pregiudiziale: «[s]e l’articolo 34 della Carta debba essere interpretato nel senso che nel suo àmbito di applicazione rientrino l’assegno di natalità e l’assegno di maternità, in base all’articolo 3, paragrafo 1, lettere b) e j), del regolamento n. 883/2004, richiamato dall’articolo 12, paragrafo 1, lettera e), della direttiva 2011/98, e se, pertanto, il diritto dell’Unione debba essere interpretato nel senso di non consentire una normativa nazionale che non estende agli stranieri titolari del permesso unico di cui alla medesima direttiva le provvidenze sopra citate, già concesse agli stranieri titolari di permesso di soggiorno dell’Unione per soggiornanti di lungo periodo».

Amplius, sull’ordinanza di rinvio si vedano, tra gli altri, Gallo e NatoGiubboniLazzeriniPassalacqua.

3. Il dispositivo.

La Corte di giustizia, nella sua pronuncia in Grande Sezione, conferma il diritto dei cittadini di paesi terzi titolari di un permesso unico di beneficiare di un assegno di natalità e di un assegno di maternità quali previsti dalla normativa italiana.

Tali cittadini sono i lavoratori di cui all’articolo 3, paragrafo 1, lettere b) e c), della direttiva 2011/98, ossia i) i cittadini di paesi terzi ammessi in uno Stato membro a fini diversi dall’attività lavorativa, ai quali è consentito lavorare e che sono in possesso di un permesso di soggiorno ai sensi del regolamento 1030/2002 del Consiglio che istituisce un modello uniforme per i permessi di soggiorno rilasciati a cittadini di paesi terzi, e ii) i cittadini di paesi terzi ammessi in uno Stato membro a fini lavorativi.

4. I profili maggiormente rilevanti sono quattro.

4.1. Il primo: la pronuncia rende palese l’importanza e l’utilità del dialogo pregiudiziale quando in gioco c’è la tutela di diritti fondamentali riconosciuti sia nell’ordinamento costituzionale di uno Stato membro sia nell’ordinamento UE. In casi di doppia pregiudizialità, con riferimento all’Italia, laddove vi sia incertezza circa la natura direttamente efficace di una o più norme UE e l’estensione del loro ambito di applicazione, il rinvio alla Corte di giustizia da parte della Corte costituzionale rappresenta un insostituibile strumento di collaborazione e fiducia tra le due giurisdizioni. La pronuncia, in questo modo, cristallizza, sul piano dell’articolo 267 TFUE, la progressiva e inesorabile perimetrazione e compressione, nella giurisprudenza costituzionale (v. in particolare, le decisioni n. 20/2019, n. 63/2019, n. 112/2019, n. 117/2019), del noto obiter dictum contenuto nella pronuncia n. 269/2017.

4.2. Il secondo: la pronuncia sembra introdurre un’eccezione all’interpretazione rigorosa del test di ricevibilità delle domande pregiudiziali laddove la Corte di giustizia, dopo aver ricordato che «le questioni relative all’interpretazione del diritto dell’Unione proposte dal Giudice nazionale […] godono di una presunzione di rilevanza» (punto 39) e che «una direttiva non può, certamente, essere invocata dai privati per fatti anteriori al suo recepimento al fine di veder disapplicate disposizioni nazionali preesistenti che sarebbero contrarie a tale direttiva» (punto 40), sottolinea che, nel caso di specie, il giudice rimettente non è colui chiamato a pronunciarsi direttamente sulle controversie principali, bensì un giudice costituzionale «a cui è stata rimessa una questione di puro diritto – indipendente dai fatti addotti dinanzi al giudice di merito – questione alla quale esso deve rispondere alla luce sia delle norme di diritto nazionale che delle norme del diritto dell’Unione» (punto 40). Ciò al fine di fornire all’insieme dei giudici italiani una pronuncia dotata di effetti erga omnes.

Ora, come rilevato dalla Commissione, i fatti di cui al procedimento principale sono anteriori al 25 dicembre 2013, data di scadenza del termine di recepimento della direttiva 2011/98 di cui al suo articolo 16, par. 1.

In questa prospettiva, mi sembra che la Corte di giustizia proponga un ragionamento innovativo, privilegiando un’interpretazione flessibile dei presupposti di ricevibilità delle domande pregiudiziali qualora la domanda sia effettuata da un giudice costituzionale anziché da un giudice ordinario. L’esigenza di assicurare un’interpretazione autentica del diritto UE che sia a beneficio di un giudice, qual è quello costituzionale, deputato a fornire un’interpretazione, a sua volta, autentica, vincolante, erga omnes, dell’ordinamento nazionale, nelle sue intersezioni con quello europeo, infatti, sembra prevalere sull’esigenza di assicurare che la domanda pregiudiziale sia sempre ancorata, in concreto, alla controversia che l’hanno generata.

4.3. Il terzo: la pronuncia ha al cuore il diritto derivato, in primis l’articolo 12, par. 1, lett. e) della direttiva n. 2011/98 e l’articolo 3, par. 1, lett. b) e j) del regolamento n. 883/2004, non già l’articolo 34 della Carta, pur essendo questa disposizione al centro dell’ordinanza di rinvio della Consulta. La Corte di giustizia si limita ad osservare che, grazie al rinvio al regolamento n. 883/2004, l’articolo 12, paragrafo 1, lett. e), della direttiva 2011/98 «dà espressione concreta al diritto di accesso alle prestazioni di sicurezza sociale di cui all’articolo 34, paragrafi 1 e 2, della Carta».

Perché un siffatto minimalismo argomentativo in relazione alla Carta e alla sua efficacia interna? Per due ragioni, verosimilmente. In primo luogo, la direttiva n. 2011/98 e il regolamento n. 883/2004, nelle disposizioni rilevanti, sono sufficientemente dettagliati, dunque anche precisi, chiari e incondizionati, per essere immediatamente applicati, nei procedimenti interni, dalle autorità nazionali, ad iniziare dai giudici. In secondo luogo, trattandosi di procedimenti concernenti situazioni verticali, non di rapporti inter-individuali, la Carta, con la sua salvifica capacità di rendere applicabile direttive che altrimenti non lo sarebbero in relazione a controversie di tipo orizzontale, non è necessaria e, dunque, resta sullo sfondo.

4.4. Il quarto: la pronuncia chiarisce una volta per tutte qual è il campo di applicazione del diritto secondario, con riferimento a cittadini extra-UE titolari di permesso unico, non soggiornanti di lungo periodo. Nel farlo, la Corte di giustizia prima ricorda che la Repubblica italiana «non si è avvalsa della facoltà offerta agli Stati membri di limitare la parità di trattamento come previsto all’articolo 12, paragrafo 2, lett. b), della direttiva 2011/98» (punto 64). Successivamente, nonostante alcune peculiarità proprie dell’ordinamento italiano, la Corte, facendo perno sulla duplice circostanza che sia l’assegno di natalità sia quello di maternità sono attribuiti in via automatica e che una tale attribuzione risponde a determinati criteri oggettivi definiti ex lege (non cioè sulla base di una valutazione discrezionale delle esigenze personali del richiedente), conclude che l’assegno di natalità «costituisce una prestazione familiare» ai sensi dell’articolo 3, par. 1, lett. j), del regolamento n. 883/2004 (punto 60) e l’assegno di maternità «si riferisce al settore della sicurezza sociale» di cui all’articolo 3, par. 1, lett. b), del regolamento n. 883/2004 (punto 62).

Sotto questo profilo, i giudici UE sono netti e il loro ragionamento è, de facto, nel segno di una “condanna”, senza se e senza ma, della normativa italiana (e di quelle analoghe in altri Paesi membri).

5. In conclusione, due considerazioni aggiuntive. La prima: è da ricordare che, proprio in merito alla disciplina italiana oggetto del giudizio qui in commento, la Commissione, nel luglio 2019, aveva avviato una procedura d’infrazione, la n. 2019/2011, contro lo Stato italiano. La seconda: l’impatto della sentenza sarà significativo non soltanto rispetto all’attribuzione degli assegni di natalità e maternità, ma anche ad altre prestazioni sociali, come, ad esempio, il “bonus asilo nido” (v. articolo 1(355) della legge n. 232/2016), che, attualmente, non sono previste per i cittadini di paesi terzi privi del permesso di soggiorno di lungo periodo.


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