Verso una “cittadinanza di residenza”? La Corte di giustizia conferma l’evoluzione in corso

Verso una “cittadinanza di residenza”? La Corte di giustizia conferma l’evoluzione in corso

Con sentenza del 6 giugno 2023 (O.G., C-700/21) la Grande Sezione della Corte di giustizia si è pronunciata in un interessante caso di mandato d’arresto europeo (d’ora in poi: MAE) e diritti del cittadino di paese terzo. Inserendosi nell’ormai ampio filone giurisprudenziale in materia di MAE (relativo a profili quali, inter alia, stato di diritto, carenze del sistema giudiziario, Brexit, su cui v. Colombo, Giraldin, Rosanò), la decisione aggiunge un inedito e importante tassello in quanto conferma il processo evolutivo di interazione tra la cittadinanza dell’Ue e la rilevanza della residenza dei cittadini di paesi terzi, favorendo l’avvicinamento tra le due posizioni sulla base del principio di uguaglianza davanti alla legge.

La vicenda e le questioni all’esame della Corte

O.G., cittadino moldavo, veniva condannato in via definitiva in Romania a cinque anni di reclusione per evasione fiscale e altri reati tributari. Le autorità romene emettevano un MAE finalizzato all’esecuzione della pena. La Corte d’appello di Bologna disponeva la consegna di O.G., il quale si opponeva evidenziando di avere uno stabile radicamento lavorativo-familiare in Italia.

La questione raggiungeva la Corte costituzionale, chiamata a vagliare la legittimità dell’art. 18-bis, L. n. 69 del 2005 (Disposizioni per conformare il diritto interno alla decisione quadro 2002/584/GAI del Consiglio, del 13 giugno 2002, relativa al mandato d’arresto europeo e alle procedure di consegna tra Stati membri). La norma italiana, recependo l’art. 4, punto 6 della decisione quadro, delinea la facoltà di rifiutare la consegna della persona destinataria del MAE, ma ne limita l’applicabilità esclusivamente al cittadino dell’Unione europea, italiano o di altro Stato membro. Esclude, pertanto, in maniera assoluta ed automatica, i cittadini dei paesi terzi, i quali non possono scontare in Italia la pena inflitta nello Stato membro emittente (Romania nel caso di specie), anche se residenti o dimoranti legittimamente nel territorio italiano, e anche qualora dimostrino di avere instaurato solidi legami di natura socio-economica, familiare e lavorativa con l’Italia. Vale la pena sottolineare che la citata legge italiana era già risultata problematica in quanto, originariamente, prevedeva la garanzia di non esecuzione del MAE in favore dei soli cittadini italiani. La Corte costituzionale era quindi intervenuta con la sentenza n. 227/2010 che aveva censurato la scelta del legislatore (segnatamente l’art. 18, co. 1, lett. r) conducendo al riallineamento della posizione tra cittadini italiani e di altri Stati membri legittimamente residenti o dimoranti in Italia (in argomento v. Amalfitano; sulla travagliata saga della legge attuativa della decisione quadro sul MAE v. inoltre Amalfitano-Aranci). Con riforma del 2019 (l. 4 ottobre 2019, n. 117 – legge di delegazione europea 2018), infine, era stato introdotto l’art. 18-bis, che ora include sì i cittadini europei, ma esclude quelli di paesi terzi, pur se in una comparabile situazione di residenza o dimora legittima ed effettiva in Italia.

In questo quadro, la Consulta ha interpellato la Corte di giustizia circa la compatibilità di tale diversità di trattamento con l’art. 4, punto 6 della decisione quadro 2002/584, interpretato alla luce dell’art. 7 della Carta DFUE. Con un secondo quesito pregiudiziale, inoltre, ha chiesto chiarimenti circa i criteri in base ai quali valutare il livello di attaccamento del cittadino di paese terzo con lo Stato membro di esecuzione della pena, ai fini dell’eventuale rifiuto della consegna allo Stato membro emittente il MAE (per un’analisi dell’ordinanza di rinvio pregiudiziale della Corte costituzionale, v. Amalfitano-Aranci).

Il superamento della cittadinanza

La ratio della disciplina dell’Ue sul MAE risiede nella realizzazione di un efficiente sistema normativo-procedurale di cooperazione giudiziaria, a sua volta funzionale all’obiettivo dell’Unione di “offrire ai suoi cittadini” uno Spazio di libertà, sicurezza e giustizia (E.D.L., C-699/21, §32; art. 2, par. 2, TUE). Affinché ciò avvenga, il principio del riconoscimento reciproco assume valore centrale e permea l’intero apparato di cooperazione giudiziaria penale: di conseguenza, come regola, gli Stati membri devono eseguire il MAE, il rifiuto di darvi esecuzione rappresentando un’eccezione, da interpretarsi restrittivamente (E.D.L., §34).

La decisione quadro prevede, nondimeno, alcuni motivi di non esecuzione del MAE, di carattere obbligatorio (art. 3) ovvero facoltativo (artt. 4 e 4-bis). Nel recepire questi ultimi, gli Stati membri dispongono di un “potere discrezionale certo” (Wolzenburg, C‑123/08, §61; X, C-665/20 PPU, §41), ma non illimitato, poiché subordinato al rispetto dei diritti fondamentali. Tra questi, nel caso di specie, viene in rilievo il principio di uguaglianza davanti alla legge, garantito ex art. 20 Carta DFUE, che gli Stati membri hanno obbligo di rispettare nell’attuazione del diritto dell’Ue (e dunque, evidentemente, in sede di trasposizione del motivo di non esecuzione facoltativa del MAE ex art. 4, punto 6 della citata decisione quadro). Tale garanzia, che assurge a principio generale del diritto dell’Ue (État belge, C-930/19, §57), ha una portata generale, non prevedendo limitazioni del suo campo d’applicazione (“tutte le persone sono uguali davanti alla legge”).

Su questa base, e stante la comparabilità della situazione tra un soggetto legittimamente ed effettivamente residente o dimorante in Italia che sia cittadino europeo od extra-europeo, emerge con evidenza l’erronea scelta del legislatore italiano nel senso di ancorare alla cittadinanza dell’Unione la fruibilità del motivo facoltativo di non esecuzione del MAE, escludendo tout court i cittadini di paesi terzi. La Corte di giustizia lo chiarisce evidenziando la vocazione inclusiva dell’art. 4, punto 6 della decisione quadro, come si evince dal tenore letterale, dall’obiettivo e dal contesto normativo in cui lo stesso si inserisce. Anzitutto, la formulazione testuale non dà alcun rilievo alla cittadinanza (se non a quella dello Stato membro di esecuzione del MAE, prevedendo che la persona ricercata sia cittadina di tale Stato). Analogamente, l’obiettivo (vale a dire, l’agevolazione del reinserimento sociale della persona, una volta scontata la pena) esclude il rilievo della cittadinanza, così come il contesto normativo complessivo, che conferma la ratio risocializzante e di recupero di qualsiasi persona condannata, indipendentemente dalla nazionalità.

La disciplina italiana ha privilegiato la forma sulla sostanza, valorizzando un legame di diritto (la cittadinanza), rispetto a quello di fatto (residenza e/o dimora). Il diritto dell’Ue, al contrario, al primo tipo di connessione predilige il secondo, nell’ottica di garantire la prospettiva di reinserimento sociale a chiunque abbia instaurato un attaccamento con la comunità dello Stato membro di esecuzione della pena detentiva. Nelle parole dell’Avvocato Generale Sánchez-Bordona, infatti, nella normativa dell’Unione relativa al MAE, “le cittadinanze… sono pertanto irrilevanti e vengono sostituite dalla categoria della ‘residenza’ (o dimora)” (O.G., Conclusioni presentate il 15 dicembre 2022, §38, per un’analisi più approfondita delle argomentazioni svolte dall’AG, v. Amalfitano). Lo stesso vale, del resto, sottolinea sempre l’AG, anche con riguardo alla disciplina dell’Ue in tema di reciproco riconoscimento delle sentenze penali, la quale “comprende gli stranieri di qualsiasi nazionalità… se hanno un reale radicamento nello Stato di esecuzione [delle pene privative della libertà]” (ibidem, §41).

La scelta operata dal legislatore italiano a favore della cittadinanza europea, dunque, risulta incompatibile con il diritto dell’Ue. Non solo, la stessa, in un certo senso, appare anche obsoleta, come pure può evincersi dalla sentenza della Corte di giustizia, che valorizza altri fattori di attaccamento (fattuale) dell’individuo allo Stato.

La prevalenza del fatto sul diritto e i criteri che rendono la persona “sufficientemente integrata”

Agli occhi della Corte di giustizia la normativa italiana risulta problematica sotto un ulteriore profilo: l’automatismo dell’esclusione dei cittadini di paesi terzi dal beneficio della non esecuzione facoltativa del MAE. Le autorità giudiziarie italiane, infatti, risultano private ex lege del margine di discrezionalità necessario a valutare, nel caso concreto, l’opportunità di rifiutare l’esecuzione del MAE alla luce dell’obiettivo di reinserimento sociale perseguito dalla normativa dell’Unione. Tali autorità, invece, devono necessariamente disporre di un potere di valutazione e di uno spazio decisorio, al fine di esaminare se la persona – qualunque persona, cittadino europeo o meno – abbia dei legami significativi con lo Stato membro di esecuzione della pena. Ed è su questo profilo che verte il secondo quesito pregiudiziale sollevato dalla Corte costituzionale.

Di che cosa, dunque, si deve tenere conto? La Corte di giustizia afferma che l’autorità giudiziaria di esecuzione del MAE deve effettuare “una valutazione complessiva di tutti gli elementi concreti caratterizzanti la situazione della persona ricercata” (O.G., §61). Ciò consente di evincere se lo Stato membro rappresenta il centro degli interessi del soggetto destinatario di MAE, alla luce dei “legami familiari, linguistici, culturali, sociali o, ancora, economici” in essere con lo stesso Stato (ibidem, §62). Nel quadro di tale valutazione omnicomprensiva, due criteri appaiono particolarmente decisivi: i legami familiari dell’individuo e il suo soggiorno nello Stato.

Quanto ai primi, se è vero che la Corte di giustizia non risolve il primo quesito pregiudiziale sulla base dell’art. 7 della Carta DFUE evocato dal giudice del rinvio – servendosi, piuttosto, come si è detto, dell’art. 20 della Carta, relativo all’uguaglianza davanti alla legge –, il rilievo della vita familiare è recuperato nell’ottica di valutare il grado di integrazione del soggetto destinatario di MAE con lo Stato membro di esecuzione della pena. I legami familiari, infatti, rappresentano un elemento di evidente valore nella disciplina sul MAE: come osserva la Corte, il reinserimento sociale della persona, dopo aver scontato la pena, è chiaramente favorito dalla possibilità di mantenere contatti regolari e frequenti con famiglia e congiunti (§64). Questa impostazione potrebbe trovare conferma nel caso G.N., originato da un rinvio pregiudiziale operato dalla Corte di cassazione in merito a un MAE emesso dal Belgio e giunto all’attenzione (ancora una volta, come in O.G.) della Corte d’appello di Bologna, in cui, per la prima volta, si è posta la questione dell’esecuzione di una pena detentiva nei confronti di una condannata, cittadina nigeriana madre di figli minorenni, in rapporto all’interesse superiore del minore e del diritto alla vita familiare (sull’ordinanza di rinvio pregiudiziale della Corte di cassazione, v. Paglierani). Nelle conclusioni presentate il 13 luglio 2023, l’AG Ćapeta ha argomentato che l’esecuzione del MAE di un cittadino di paese terzo, a determinate condizioni, può essere rifiutata, qualora ciò sia nell’interesse superiore del minore e funzionale al mantenimento di contatti frequenti e di un rapporto familiare stretto con la madre.

Oltre ai legami familiari, anche il soggiorno nello Stato membro di esecuzione della pena detentiva rappresenta un criterio di particolare importanza nel caso del cittadino di paese terzo, e di cui si dovrà valutare la natura, la durata e le condizioni (O.G., §65). Al riguardo, la Corte osserva che la posizione del soggiornante di lungo periodo in base alla direttiva 2003/109 assume speciale rilievo, posto che “tale status rappresenta… un autentico strumento di integrazione sociale e costituisce un forte indizio del fatto che i legami stabiliti… sono sufficienti a giustificare il rifiuto di eseguire il mandato d’arresto europeo” (O.G., §67).

Verso una “cittadinanza di residenza”

Il cittadino di paese terzo, destinatario di MAE e legittimamente ed effettivamente residente o avente dimora nello Stato membro di esecuzione, si trova di fatto in una situazione comparabile a quella del cittadino dell’Ue che si trovi nelle medesime condizioni (O.G., §47). Il grado di integrazione della persona nella società ospitante rappresenta, pertanto, il dato oggettivo rilevante, prevalendo su quello formale della cittadinanza. Se ciò è vero, la Corte tuttavia aggiunge due chiarimenti. Da un lato, riferendosi al legame della persona con lo Stato membro, sottolinea che si deve trattare di “un grado di integrazione certo” (§50). Dall’altro, indica che gli Stati membri possono subordinare il beneficio del motivo di non esecuzione facoltativa del MAE al requisito di una residenza o dimora “qualificata”: vale a dire, in via continuativa e quantificabile in un periodo di tempo minimo (§52: senza fornire, però, ulteriori specificazioni, se non quella, generica, per cui la durata temporale eventualmente prevista non debba eccedere quanto necessario a dimostrare la certezza del grado di integrazione della persona nello Stato).

Tali precisazioni – grado di attaccamento dimostrabile con certezza ed eventualmente ancorato a una durata minima prevista per legge – non sembrano scalfire il messaggio veicolato dalla pronuncia della Corte di giustizia: cittadinanza e residenza sono interessate da un processo evolutivo, destinato a proseguire e accentuarsi. Tale percorso di affiancamento e contaminazione dei due status, come è stato osservato, è in atto ormai da tempo a livello internazionale, ed ha nell’Unione europea il laboratorio di trasformazione più dinamico ed evidente, esemplificato dall’emersione di una “cittadinanza di residenza” (“residential citizenship”: Nascimbene; più recentemente, sull’incidenza dei diritti fondamentali per lo sviluppo di una sorta di “categoria intermedia” fra cittadini e stranieri, v. inoltre Nascimbene). Uno status “territoriale”, basato su un legame fattuale della persona con lo Stato di residenza e rivelatore di un concreto inserimento ed attaccamento sociale (un “genuine link”, verrebbe da dire, mutatis mutandis, usando le parole della Corte in Tjebbes, [C‑221/17, §35 ss], dove, del resto, il mantenimento della stessa cittadinanza dell’Ue è subordinato alla sussistenza di un legame effettivo con lo Stato membro, interagendo con la condizione della residenza abituale).

La “cittadinanza di residenza”, riflesso dell’integrazione raggiunta dal cittadino di paese terzo nella “comunità di diritto” che è l’Unione europea, determina l’obbligo per gli Stati membri di riconoscere e garantire alcuni diritti, direttamente collegati alla residenza (o anche alla dimora, come la Corte afferma in O.G.). Tra questi, ora, figura anche il diritto a scontare la pena nello Stato membro ove la persona ha il suo centro principale di vita familiare e lavorativa e in cui, una volta riacquisita la libertà personale, avrà maggiori chances di reinserimento sociale.

L’evoluzione verso una “cittadinanza di residenza”, dunque, prosegue.


facebooktwittergoogle_plusmailfacebooktwittergoogle_plusmail