Niente di nuovo sotto il sole (di Lussemburgo): il divieto di monetizzazione delle ferie non godute dei dipendenti pubblici al vaglio della Corte di giustizia

1. Nei giorni scorsi ha avuto molto risalto nei media italiani la risposta della Corte di giustizia (prima sezione) al rinvio pregiudiziale nella causa C-218/22 Comune di Copertino. Il giudice di Lussemburgo, sollecitato dal Tribunale di Lecce, ha affermato che l’art. 7 della direttiva 2003/88, sull’organizzazione dell’orario di lavoro, e l’art. 31, par. 2, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (“Carta”), sul diritto (inter alia) alle ferie annuali retribuite, ostano a una normativa nazionale che, per ragioni attinenti al contenimento della spesa pubblica e all’organizzazione del datore di lavoro pubblico, vieta la monetizzazione delle ferie non godute quando il lavoratore abbia posto fine volontariamente al rapporto di lavoro e non abbia dimostrato che il mancato godimento delle ferie è stato indipendente dalla sua volontà.

La norma nazionale “incriminata” è l’art. 5 del decreto legge 6 luglio 2015, n. 95 (convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge del 7 agosto 2012, n. 135; di seguito, “art. 5, comma 8, d.l.”), rubricato «Riduzione di spese delle pubbliche amministrazioni», il cui comma 8 stabilisce che, nell’ambito del rapporto di lavoro pubblico, le ferie, i riposi e i permessi spettanti devono essere obbligatoriamente goduti secondo quanto previsto dai rispettivi ordinamenti e la mancata fruizione «in nessun caso» dà luogo alla corresponsione di trattamenti economici sostitutivi. La disposizione poi prosegue precisando che essa si applica «anche in caso di cessazione del rapporto di lavoro per mobilità, dimissioni, risoluzione, pensionamento e raggiungimento del limite di età».

All’origine del rinvio pregiudiziale vi è il dubbio del Tribunale di Lecce (infra, 2) circa la piena convergenza tra la lettura costituzionalmente orientata del divieto di corrispondere l’indennità sostitutiva fornita dalla Consulta nella sentenza n. 95/2016 (infra, 3) e la ricostruzione del diritto alle ferie retribuite elaborata dalla Corte di giustizia nella propria giurisprudenza (infra, 4). Alla luce di quest’ultima, la risposta del giudice lussemburghese non sorprende. L’interesse della vicenda attiene piuttosto alla dimensione dei rapporti tra giudice “comune”, Corte di giustizia e Corte costituzionale. Ci si può infatti interrogare sulle opzioni a disposizione del Tribunale di Lecce a valle del rinvio pregiudiziale, ma anche (con lo sguardo rivolto a situazioni simili che potrebbero verificarsi in futuro) sulla opportunità di organizzare diversamente il dialogo a monte (infra, 6).

2. Il procedimento da cui è scaturita la sentenza in commento della Corte di Giustizia nasce dal rifiuto, da parte del Comune di Copertino, di corrispondere un’indennità finanziaria per ferie non godute a un ex dipendente che si era dimesso volontariamente nel 2016 per accedere al pensionamento anticipato. La richiesta riguardava 79 giorni di ferie non godute maturate tra il 2013 e il 2016. Ad avviso dell’Amministrazione la circostanza che nel 2016 il dipendente aveva usufruito di alcuni giorni di ferie riportati dagli anni precedenti dimostrava che egli era consapevole dell’obbligo di godere delle ferie residue prima della cessazione dal servizio.

Secondo il Tribunale di Lecce non sussiste un comportamento abusivo da parte del lavoratore; tuttavia, l’ipotesi delle dimissioni volontarie rientra «pacificamente» (p. 6 dell’ordinanza di rinvio) tra i limiti alla monetizzazione delle ferie non godute dei quali la Consulta avrebbe confermato la legittimità costituzionale nella sentenza n. 95/2016 (infra, 3). Intravedendo un punto di frizione tra la norma nazionale, come interpretata dalla Corte costituzionale, e la giurisprudenza della Corte di giustizia sul diritto all’indennità in lieu, il giudice adito ha pertanto deciso di sollevare due quesiti pregiudiziali, chiedendo, in primo luogo, «se l’art. 7 della direttiva 2003/88, e l’art. 31, par. 2, della Carta devono essere interpretati nel senso che ostano a una normativa nazionale (…) che, per esigenze di contenimento della spesa pubblica nonché organizzative del datore di lavoro pubblico, prevede il divieto di monetizzazione delle ferie in caso di dimissioni volontarie del lavoratore pubblico dipendente»; in caso di risposta affermativa, domanda altresì se le medesime disposizioni devono essere interpretate «nel senso di richiedere che il pubblico dipendente dimostri l’impossibilità di fruire delle ferie nel corso del rapporto».

3. La sentenza 95/2016 ha avuto origine dalla questione di legittimità costituzionale dell’art. 5, comma 8, d.l. sollevata dal Tribunale di Roma, chiamato a decidere il ricorso promosso da un dirigente medico del settore pubblico che, dopo il collocamento a riposo, aveva visto respinta l’istanza volta a ottenere un’indennità sostitutiva delle ferie che non aveva potuto godere per malattia. Muovendo dal carattere assoluto del divieto di monetizzazione previsto dal d.l., detto giudice sollevava tre profili di illegittimità costituzionale, e segnatamente il contrasto: con l’art. 36, primo e terzo comma, Cost., in quanto il diritto alle ferie annuali retribuite impone, da un lato, di retribuire il lavoro prestato in eccedenza rispetto agli obblighi contrattuali e, dall’altro, di compensare in forma pecuniaria il mancato godimento «in natura» delle ferie spettanti; con l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 7, par. 2, della direttiva 2003/88, da cui discende (infra, 4) che l’indennità in lieu è dovuta allorché, al momento della cessazione del rapporto di lavoro, il lavoratore non ha goduto delle ferie spettanti per causa a lui non imputabile; e, infine, con l’art. 3 Cost., apparendo manifestamente irragionevole che il divieto operi a prescindere da ogni valutazione dell’imputabilità del mancato godimento delle ferie.

La Consulta ha fatto salvo l’art. 5, comma 8, d.l. offrendone, attraverso la tecnica della sentenza interpretativa di rigetto, una lettura costituzionalmente orientata. Il giudice delle leggi ha svolto due argomenti – relativi l’uno al tenore letterale dell’art. 5, comma 8, del d.l. e l’altro alla sua ratio – a sostegno dell’erroneità dell’interpretazione del giudice rimettente secondo cui il divieto di monetizzazione troverebbe applicazione anche quando il lavoratore non abbia potuto godere delle ferie per malattia o per altra causa non imputabile. Quanto al dato testuale, la Corte costituzionale ha osservato che «non è senza significato che il legislatore correli il divieto di corrispondere trattamenti sostitutivi a fattispecie in cui la cessazione del rapporto di lavoro è riconducibile a una scelta o a un comportamento del lavoratore (dimissioni, risoluzione) o ad eventi (mobilità, pensionamento, raggiungimento dei limiti di età), che comunque consentano di pianificare per tempo la fruizione delle ferie e di attuare il necessario contemperamento delle scelte organizzative del datore di lavoro con le preferenze manifestate dal lavoratore in merito al periodo di godimento delle ferie» (Considerato in diritto, punto 3.1).

Quanto alla ratio della disciplina, la Consulta ha sottolineato che essa «mira a riaffermare la preminenza del godimento effettivo delle ferie, per incentivare una razionale programmazione del periodo feriale e favorire comportamenti virtuosi delle parti nel rapporto di lavoro» (Considerato in diritto, punto 3.2). Il divieto di monetizzazione delle ferie non godute è dunque finalizzato a «contrastare gli abusi, senza arrecare pregiudizio al lavoratore incolpevole» (ibid.).

Come è stato osservato dalla dottrina giuslavoristica, con la sentenza 95/2016 la Consulta ha realizzato «un punto di “equilibrio” tra la salvaguardia dei principi giuridici dell’ordinamento interno ed europeo e le legittime esigenze di razionalizzazione della spesa pubblica» (così, F. Di Noia, “La Consulta salva il divieto di monetizzazione delle ferie non godute e mitiga il «furore iconoclasta» del d.l. n. 95/2012 (nota a Corte cost. 23 marzo 2016, n. 95)”, in Rivista italiana di diritto del lavoro, 2016, pp. 887-896). Ampi sono, in effetti, i riferimenti alle fonti rilevanti di diritto dell’Unione europea, primario e derivato, e alla relativa giurisprudenza della Corte di giustizia, a chiosa dei quali la Consulta osserva che il «diritto inderogabile [alle ferie annuali retribuite] sarebbe violato se la cessazione dal servizio vanificasse, senza alcuna compensazione economica, il godimento delle ferie compromesso dalla malattia o da altra causa non imputabile al lavoratore» (Considerato in diritto, punto 5).

Ciò che la Consulta, invero, non dice è se l’art. 5, comma 8, d.l. si applica tout court quando la cessazione del rapporto di lavoro avviene per una ragione riconducibile alla volontà del lavoratore o alla capacità organizzativa del datore, senza che vi sia spazio per una valutazione sulla imputabilità o meno al primo del mancato godimento delle ferie. L’argomentazione relativa al tenore letterale della disposizione introduce un collegamento tra la causa estintiva del rapporto di lavoro e l’applicazione del divieto, ma la Corte costituzionale non afferma – diversamente da quanto si legge in un più recente parere del Dipartimento della funzione pubblica – che sono escluse dall’ambito applicativo dell’art. 5, comma 8, «solo quelle cause estintive del rapporto di lavoro indipendenti sia dalla volontà del dipendente che dalla capacità organizzativa del datore di lavoro» (corsivo aggiunto). Alcuni punti dell’argomentazione sembrano anzi suggerire che l’elemento determinante, al di là del motivo della cessazione del rapporto di lavoro, è se il mancato godimento delle ferie spettanti è dipeso dal lavoratore (cfr. Considerato in diritto, punti 3.2 in fine, 4 incipit, 5 in fine).

Questo rappresenta un aspetto cruciale ai fini della valutazione della convergenza o meno tra la lettura del divieto di monetizzazione offerta dalla Consulta e la giurisprudenza sull’indennità sostitutiva della Corte di giustizia, atteso che quest’ultima in varie pronunce – soprattutto successive alla sentenza 95/2016 (infra, 4) – ha chiarito che non rileva la causa di estinzione del rapporto ma se, in costanza del rapporto di lavoro, il lavoratore ha avuto la possibilità effettiva di godere delle ferie.

4. La questione sollevata dal Tribunale di Lecce si inserisce nel quadro tracciato da una consolidata giurisprudenza della Corte di giustizia, che in ripetute occasioni ha affermato che il diritto di ogni lavoratore alle ferie annuali retribuite, ora codificato all’art. 31, par. 2, della Carta, costituisce un principio «particolarmente importante», «essenziale», del diritto sociale dell’Unione, non derogabile, e la cui attuazione può avvenire «solo nei limiti indicati dalla direttiva 2003/88» (si v., inter alia, la sentenza Bauer, punti 38-39). La natura fondamentale del diritto in questione implica peraltro che le disposizioni della direttiva ad esso dedicate non possono essere interpretate in modo restrittivo (ibid.). L’art. 7, par. 1, della direttiva 2003/88 prevede un periodo minimo di ferie retribuite di quattro settimane e consente agli Stati membri di precisare le circostanze concrete in cui i lavoratori possono avvalersene, mentre è esclusa la possibilità di «subordinare a qualsivoglia condizione la costituzione stessa di tale diritto» (si v. la sentenza job-medium, punto 27).

L’art. 7, par. 2, stabilisce invece che «il periodo minimo di ferie annuali retribuite non può essere sostituito da un’indennità finanziaria salvo in caso di fine del rapporto di lavoro». Ciò significa che il rapporto tra godimento delle ferie retribuite e indennità in lieu è di regola ed eccezione, giacché l’obiettivo primario del diritto fondamentale in questione è quello di «garantire che il lavoratore possa beneficiare di un riposo effettivo, per assicurare una tutela efficace della sua sicurezza e della sua salute» (così, ad es. la sentenza Bauer, punti 42-43). Il diritto all’indennità in lieu non ha quindi carattere autonomo rispetto a quello alle ferie annuali retribuite, ma al contrario è ad esso «connaturato», «intrinsecamente collegato» (job-medium, punto 29; Bauer, punto 58) in quanto può venire ad esistenza solo se al momento della cessazione del rapporto di lavoro il lavoratore non ha ancora potuto godere di tutte le ferie annuali a lui spettanti.

Al riguardo, la Corte di giustizia ha chiarito, come anticipato, che non ha alcuna rilevanza la causa estintiva del rapporto di lavoro, cosicché la circostanza che essa sia riconducibile alla volontà del lavoratore non incide in alcun modo sul suo diritto, ove esistente, a percepire un’indennità finanziaria per le ferie annuali retribuite non godute (cfr. la sentenza Maschek, punti 28 e 29). Ciò che rileva è, invece, se il lavoratore, in costanza del rapporto di lavoro, ha effettivamente avuto la possibilità di esercitare il suo diritto alle ferie annuali retribuite nella modalità primaria del riposo (sentenza Schultz-Hoff e a., punto 43). Invero, proprio a presidio dell’effettività del diritto in questione, la Corte di giustizia ha enucleato specifici obblighi di facere a carico del datore di lavoro, il quale deve «assicurarsi concretamente e in piena trasparenza che il lavoratore sia effettivamente in grado di fruire delle ferie annuali retribuite, invitandolo, se necessario formalmente, a farlo, e nel contempo informandolo – in modo accurato e in tempo utile a garantire che tali ferie siano ancora idonee ad apportare all’interessato il riposo e il relax cui esse sono volte a contribuire – del fatto che, se egli non ne fruisce, tali ferie andranno perse al termine del periodo di riferimento o di un periodo di riporto autorizzato» (così la sentenza Max-Planck-Gesellschaft zur Förderung der Wissenschaften eV, punto 48; in dottrina, si v. V. Salese).

Grava inoltre sul datore di lavoro l’onere di dimostrare di aver esercitato tutta la diligenza necessaria per mettere il lavoratore nelle condizioni di poter fruire delle ferie annuali retribuite alle quali aveva diritto. Ove ciò sia provato e, dunque, risulti che scientemente il lavoratore si è astenuto dal godere delle ferie spettanti, l’art. 7 della direttiva 2003/88 e l’art. 31, par. 2, della Carta non ostano a una normativa nazionale che prevede, in tal caso, la perdita del diritto alle ferie annuali retribuite e, in caso di cessazione del rapporto di lavoro, dell’indennità finanziaria (ibid., punto 47).

Da ultimo, giova ricordare che secondo la Corte il diritto alle ferie annuali retribuite trova fondamento, quanto alla sua esistenza, direttamente nell’art. 31, par. 2, della Carta, e che questa disposizione è idonea a produrre effetti diretti e, quindi, a provocare la disapplicazione delle norme nazionali contrastanti nei casi che ricadono nell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione, incluso il rapporto di lavoro privato, ove non sia possibile ricomporre il contrasto attraverso l’interpretazione conforme (così le sentenze Bauer, punti 85-91, e Max-Planck-Gesellschaft zur Förderung der Wissenschaften eV, punti 74-80; sul tema degli effetti diretti delle direttive in materia sociale  si v. Condinanzi).

5. Alla luce del quadro giurisprudenziale appena tratteggiato, la risposta ai quesiti posti dal Tribunale di Lecce – che la Corte di giustizia ha deciso di esaminare congiuntamente – era piuttosto scontata. L’unica “concessione” consiste nell’affermazione secondo cui, diversamente dall’intento di contenimento della spesa pubblica, l’obiettivo di razionalizzare la programmazione delle ferie e di incentivare l’adozione di comportamenti virtuosi delle parti del rapporto di lavoro, che secondo la lettura della Consulta ha concorso all’introduzione dell’art. 5, comma 8, d.l., può ritenersi rispondente alle finalità della direttiva 2003/88 (sentenza Comune di Copertino, punto 46). Tuttavia, la disposizione non può superare il test di proporzionalità al quale soggiacciono, ai sensi dell’art. 52, par. 1, della Carta, le norme nazionali che introducono limitazioni ai diritti fondamentali da quest’ultima garantiti se, come prospettato dal Tribunale di Lecce (punto 21), alla cui (ulteriore?) valutazione la Corte di giustizia comunque rinvia (punto 50), l’ipotesi delle dimissioni volontarie ricade tout court nell’ambito di applicazione del divieto di monetizzazione.

A questo punto, l’esito più in linea al tenore dell’ordinanza del Tribunale di Lecce pare la disapplicazione dell’art. 5, comma 8, d.l. Ci si può però chiedere se davvero sussista – come sembra ritenere il giudice del rinvio – un contrasto insanabile tra l’interpretazione del diritto alle ferie annuali retribuite risultante dalla giurisprudenza della Corte di giustizia e la lettura costituzionalmente orientata della disciplina nazionale nella sent. 95/2016. Come si è detto (supra, 3), alcuni punti dell’argomentazione della Consulta pongono l’accento sull’imputabilità o meno al lavoratore della mancata fruizione delle ferie spettanti, al di là della causa estintiva del rapporto di lavoro. Ci potrebbe essere, insomma, spazio sufficiente per un “innesto” dei principi enucleati dalla Corte di giustizia, inclusi gli essenziali obblighi di facere del datore.

Non si può peraltro escludere che ci sia ancora la possibilità di una ricomposizione del contrasto (dunque, apparente) da parte della stessa Corte costituzionale, mediante la proposizione di una questione di legittimità costituzionale dell’art. 5, comma 8, d.l. Si potrebbe obiettare, al riguardo, che nella sent. 67/2022 la Consulta ha ritenuto inammissibili le questioni di legittimità costituzionale proposte dalla Cassazione ad esito di un rinvio pregiudiziale in quanto le norme di diritto dell’Unione evocate quali parametri interposti erano produttive di effetto diretto. Tuttavia, non era stata prospettata un’ipotesi di doppia pregiudizialità in relazione ai parametri costituzionali e di diritto dell’Unione europea in tema di diritti fondamentali e pertanto si ricadeva nel modello della disapplicazione immediata della sentenza Granital (sulla sent. 67/2022 si v. B. Nascimbene e I. Anrò; sia permesso rinviare anche a N. Lazzerini, “Lunga vita alla disapplicazione immediata (se non si tratta di doppia pregiudizialità): riflessioni a margine della sentenza n. 67/2022 della Corte costituzionale”, in Rivista giuridica del lavoro e della previdenza sociale, 2022, pp. 315-327). Nel caso in questione si potrebbe invece far leva sulla (apparente) assenza di un totale allineamento tra la Corte costituzionale e la Corte di giustizia rispetto all’interpretazione del diritto fondamentale alle ferie retribuite, quale tutelato dall’art. 36, terzo comma, della Costituzione e dall’art. 31, par. 2, della Carta (sui rapporti tra disapplicazione e giudizio di costituzionalità dopo la sent. 269/2017 si v., in questa Rivista, C. Amalfitano e L. Cecchetti).

Ci si può infine chiedere – con lo sguardo ormai rivolto a casi successivi simili – se la strada migliore non sarebbe stata quella che adesso non si può più imboccare, ossia il previo coinvolgimento della Corte costituzionale, nel solco del modello cd. “269-temperato”. Come è abbastanza evidente anche dall’ordinanza di rinvio, ben poco (o niente) restava da chiarire alla Corte di giustizia, alla luce della sua pregressa giurisprudenza, in parte formatasi, peraltro, grazie a sentenze della Grande sezione e, come già evidenziato, successive a quella della Consulta. Tenuto conto dell’apertura alle fonti europee e alla giurisprudenza di Lussemburgo manifestata nella sentenza 95/2016, sarebbe stato forse opportuno – non solo in ragione dell’efficacia erga omnes della pronuncia, ma anche nell’ottica di una virtuosa collaborazione tra Corti nella costruzione di standard di tutela integrati – offrire alla Corte costituzionale la possibilità di chiarire la propria posizione rispetto alla questione dell’indennità sostitutiva delle ferie non godute.


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