L’ordinanza n. 106 del 2023 della Corte costituzionale: le sanzioni nella politica comune della pesca davanti allo spettro dei controlimiti

Tra tutti gli obblighi “comunitari” che gravano sugli operatori economici, quelli in materia di sfruttamento delle risorse biologiche del mare e di commercio dei prodotti ittici rappresentano nell’immaginario collettivo (alimentato colpevolmente dal discorso pubblico dell’agone politico) l’esempio più calzante della farraginosa burocrazia voluta da Bruxelles che soffocherebbe gli operatori economici nazionali. La recente ordinanza n. 106 del 2023 della Corte costituzionale sembra proprio riflettere questo clima, laddove un giudice comune ha preferito rivolgersi a Roma piuttosto che a Lussemburgo per la tutela di un principio fondamentale costituzionale ritenuto violato nel caso di controlli e successive sanzioni a carico di una società.

Infatti, chiamata ad esprimersi sulla costituzionalità di una norma dell’Unione che impone agli operatori economici obblighi di tracciamento e di informazione del pescato, la Corte costituzionale ripercorre i punti fermi della magmatica materia dei rapporti tra il diritto dell’Unione europea e l’ordinamento nazionale. L’ordinanza nel suo percorso, logico e assolutamente piano, nasconde in realtà profili giuridici e fattuali di tutto rilievo, venendo, appunto, in luce il caso di una sanzione amministrativa frutto della stratificazione di norme europee e nazionali in materia di pesca.

Va premesso che il sistema sanzionatorio connesso alla violazione degli obblighi “comunitari” relativi alla politica comune della pesca (di seguito “PCP”) trova la sua disciplina nell’ordinamento interno nel decreto-legislativo n. 4 del 2012 che, in attuazione del regolamento (CE) 1224/2009 e della ulteriore e connessa disciplina sovranazionale sul controllo della PCP (in fase di revisione, sul punto Fioravanti), contempla al Capo II apposite norme di adeguamento. Il quadro sanzionatorio va letto alla luce dell’obbligo per gli Stati membri di adottare «misure adeguate per assicurare il controllo, l’ispezione e l’esecuzione delle attività esercitate nell’ambito della [PCP], ivi inclusa l’introduzione di sanzioni effettive, proporzionate e dissuasive» (così come richiesto dall’art. 36, par. 3, del regolamento di base PCP, regolamento (UE) 1380/2013). Il regime del controllo sul rispetto della disciplina PCP costituisce, del resto, uno degli ambiti più delicati della materia in quanto gli obblighi “sanzionatori” sono sì previsti a livello di diritto dell’Unione europea, ma l’individuazione delle sanzioni, la loro modulazione nonché, evidentemente, la loro erogazione spetta alla discrezionalità (ancorché “condizionata” a garantire l’effettività della PCP) degli Stati membri (ad esempio, per quanto non riguardante un caso di sanzioni bensì di controlli, la Corte di giustizia ha di recente richiamato la necessità che l’azione degli Stati membri sia coerente con gli obiettivi della PCP in PF).

Nel caso di specie, la società cooperativa Coop Alleanza 3.0 proponeva dinanzi al Giudice di pace di Mantova (giudice remittente), contro il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti – Capitaneria di porto di Chioggia, un ricorso avente ad oggetto l’ordinanza di ingiunzione con la quale le veniva comminata una sanzione per l’illecito di cui all’art. 10, comma primo, lett. z) del decreto-legislativo n. 4 del 2012, il quale prevede la violazione degli obblighi in materia di etichettatura, tracciabilità e di corrette informazioni al consumatore finale. Per la definizione di tali obblighi la norma interna fa riferimento genericamente alla normativa europea e nazionale, ed è con rispetto alla prima che l’autorità pubblica sosteneva la violazione degli obblighi di tracciabilità di cui all’art. 58 del regolamento (CE) n. 1224/2009. Questi ultimi sono, poi, richiamati dall’art. 67, par. 5, del regolamento di esecuzione n. 404/2011 (norma oggetto della questione di legittimità costituzionale) nella misura in cui tale norma impone che le informazioni che devono accompagnare il pescato (elencate, in particolare, all’art. 58, par. 5, del regolamento (CE) n. 1124/2009) restino «disponibili durante tutte le fasi di produzione, trasformazione e di distribuzione consentendo alle autorità competenti degli Stati membri di accedervi in qualsiasi momento» (enfasi aggiunta). Anche la società cooperativa che aveva emesso il documento esibito nel momento dei controlli, quale la Centrale Adriatica, proponeva analogo ricorso che veniva successivamente riunito.

 In sostanza, mentre la società sosteneva di aver fornito tutte le informazioni richieste non nell’immediatezza del controllo ma comunque in un tempo congruo (in particolare, anche nelle difese a seguito della contestazione), la Capitaneria resisteva in giudizio invocando la lettera della supra citata norma. In particolare, sull’espressione in qualsiasi momento contenuta nell’art. 67, par. 5, del regolamento n. 404/2011 si appuntavano le censure del giudice a quo, il quale riteneva violato il canone della ragionevolezza (art. 3 Cost.) nella misura in cui tale norma consente all’amministrazione nazionale (vieppiù al singolo agente), nella sua discrezionalità, di pretendere l’esibizione delle informazioni nel momento stesso dei controlli, da intendersi come «contestualità, immediatezza, prontezza, senza alcuna attesa»; informazioni che, peraltro, secondo il remittente potevano essere ricavate anche da altri «soggetti partecipanti alla filiera».

Dunque, il remittente sollevava una questione di legittimità costituzionale avente ad oggetto una norma dell’Unione europea e quale parametro un principio costituzionale nazionale. Dinanzi ad una simile formulazione, sulla base anche delle eccezioni mosse dall’Avvocatura generale dello Stato, la Corte costituzionale non poteva che dichiarare l’inammissibilità della questione, a ragione dell’erroneo punto di partenza del ragionamento del giudice a quo, il quale poneva (direttamente) come oggetto dei dubbi di costituzionalità una norma appartenente ad un ordinamento autonomo e separato, quale quello dell’Unione europea, come tale esclusa dal novero degli atti sui quali è possibile invocare il sindacato del giudice delle leggi ex art. 134 Cost. Qualora il giudice rilevi la violazione dei principi supremi dell’ordinamento o dei diritti della persona – ricorda la Corte costituzionale – ad esso si impone, piuttosto, la sollevazione di una questione di legittimità costituzionale avente ad oggetto non direttamente la norma europea che realizza quella violazione bensì la legge di esecuzione dei trattati, nella misura in cui ne consente l’ingresso nell’ordinamento nazionale (si pensi alla celebre “saga Taricco”).

Ciò che occorre notare, in questa sede, non è tanto il tema dei controlimiti, che la Consulta risolve in brevi e concisi passi, quanto l’importanza del rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia come meccanismo di cooperazione giudiziale che consente al giudice nazionale di valutare non solo i profili di interpretazione della normativa sovranazionale ma anche quelli di validità.

In primo luogo, risulta dall’ordinanza di rimessione che il giudice a quo lamentava una violazione del principio di ragionevolezza (ricondotto al parametro costituzionale interno dell’art. 3 Cost.), nella misura in cui la norma dell’Unione si presta ad un’interpretazione in grado di condurre ad esiti sanzionatori irragionevoli, lasciando all’autorità nazionale preposta ai controlli un eccessivo margine di discrezionalità rispetto alla perimetrazione del lasso temporale in costanza del quale possono essere pretese le informazioni richieste dalla normativa.

È evidente che il diritto dell’Unione europea – e non certo da oggi – gode di un sistema di tutela dei diritti fondamentali perfettamente capace di garantire che la normativa derivata rispetti le più elementari posizioni giuridiche che spettano ai singoli. E, seppur in diversi contesti, la Corte di giustizia ha ricordato l’importanza del principio di proporzionalità (che il remittente richiama nell’ordinanza) che deve informare la comminatoria di sanzioni che trovano nel diritto dell’Unione europea la propria fonte (sul principio di proporzionalità, v. la ormai celebre sentenza NE).

Dunque, non vi possono essere dubbi sul fatto che il giudice a quo avrebbe dovuto ricorrere alla Corte di giustizia tramite un rinvio pregiudiziale, contestando la norma del regolamento sulla base di censure di invalidità proprie del diritto dell’Unione europea e non rispetto a parametri costituzionali interni.

In secondo luogo, dall’ordinanza di rimessione risulta anche il tentativo del giudice a quo di richiedere alla Corte costituzionale (e non alla Corte di giustizia) una diversa interpretazione della norma del regolamento, in modo da scongiurare (?) una dichiarazione di incostituzionalità.

Rispetto a questo profilo, la Consulta afferma che ad essa «non compete […] interpretare la normativa dell’Unione europea», richiamando l’ordinanza n. 536 del 1995 e la stessa pronuncia Granital per sottolineare la necessità che il giudice che serbi dubbi sull’interpretazione del diritto dell’Unione europea si rivolga alla Corte di giustizia tramite il rinvio pregiudiziale. Allora, tale era la strada maestra che avrebbe dovuto percorrere il Giudice di pace di Mantova, anche alla luce  dell’ammonimento della Corte di giustizia in DB c. Consob (punto 50; sentenza emanata dalla Grande sezione all’esito del rinvio pregiudiziale della Corte costituzionale n. 117 del 2019): «un testo del diritto derivato dell’Unione deve essere interpretato, per quanto possibile, in un modo che non pregiudichi la sua validità e in conformità con l’insieme del diritto primario e, segnatamente con le disposizioni della Carta. Così, qualora un testo siffatto si presti a più di un’interpretazione, occorre preferire quella che rende la disposizione conforme al diritto primario anziché quella che porta a constatare la sua incompatibilità con quest’ultimo».

In effetti, è proprio sull’interpretazione, piuttosto che sulla validità, della norma che si incarna il problema giuridico alla base della vicenda, quale la necessità di riempire di un significato univoco una locuzione temporale lasciata alla discrezionalità dell’agente dell’amministrazione nazionale chiamata ad eseguire i controlli previsti dalla normativa sovranazionale. E su chi sia l’eminente interprete del diritto dell’Unione europea (art. 19 TUE), non vi possono essere dubbi.

Inoltre, è possibile riflettere anche su di un’altra strada che il giudice remittente avrebbe potuto percorrere, tenendo conto che la sanzione è prevista dal diritto nazionale agli artt. 10, comma primo, lett. z) e 11, comma quarto, del decreto-legislativo n. 4 del 2012. Si deve ricordare, infatti, che dalla sentenza n. 269 del 2017 la Corte costituzionale ha ritenuto ammissibili questioni di legittimità costituzionale aventi ad oggetto una norma nazionale passibile di violare un diritto fondamentale tutelato, al medesimo tempo, da una norma costituzionale e da una norma della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (sul punto, ex multis, Amalfitano; Barbieri). Dunque, avrebbe potuto il remittente porre ad oggetto della questione le richiamate norme interne, nella misura in cui realizzano una “duplice” violazione dei diritti fondamentali, sia costituzionali che europei. Tuttavia, anche seguendo tale diverso percorso per giungere alla Corte costituzionale la strada sarebbe finita in ogni caso a Lussemburgo. Infatti, se la Consulta avesse davvero (e improbabilmente) ritenuto la normativa “comunitaria” invalida ad essa sarebbe stato imposto l’obbligo di rivolgersi alla Corte di giustizia. Inoltre, rinviando la norma nazionale a quella europea, per la definizione del contenuto di quest’ultima sarebbe stato impossibile non interrogare la Corte di Giustizia, tenendo anche conto della delicatezza della materia e dei plurimi profili “comunitari” che ne emergono.

In definitiva, il grande assente nel ragionamento del giudice remittente è il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia.

Da ultimo, deve essere sottolineato un punto non di secondo momento. Come insegna sin dalla pronuncia Frontini la nostra Corte costituzionale, il controlimite è un’ipotesi aberrante ed eccezionale di violazione del nucleo duro dei principi fondamentali della Costituzione nazionale da parte del diritto comunitario (oggi del diritto dell’Unione europea), dinanzi alla quale si irrigidisce, sino alla sua possibile chiusura, quell’apertura che l’ordinamento interno predica rispetto al diritto sovranazionale tramite l’art. 11 Cost. Essi non sono (e non possono essere per loro natura) uno spettro da agitare così facilmente, in ipotesi in cui una norma dell’Unione possa essere ricondotta al rispetto dei diritti fondamentali, tramite una pronuncia di invalidità o una diversa interpretazione, all’interno dell’ordinamento dell’Unione europea.

In simili ipotesi, il giudice a quo, in quanto giudice comune dell’Unione, dovrebbe interrogare la Corte di giustizia, anche se la risposta che viene da Lussemburgo potrebbe non soddisfarlo rispetto a quella ricercata da Roma.

 


facebooktwittergoogle_plusmailfacebooktwittergoogle_plusmail