La “muzzle law” polacca al vaglio della Corte di giustizia: una prima lettura della sentenza resa nella causa C-204/21, Commissione c. Polonia (vita privata dei giudici)

I. Su ricorso per inadempimento promosso dalla Commissione, lo scorso 5 giugno la Corte di giustizia si è pronunciata nella causa C-204/21, Commissione c. Polonia (vita privata dei giudici), aggiungendo un ulteriore tassello alla c.d. “saga polacca”. Con tale espressione si fa riferimento alle note vicende ingenerate dal processo di rule of law backsliding intrapreso dal partito Diritto e Giustizia (PiS) all’indomani della propria vittoria delle elezioni politiche nel 2015 che, attraverso una serie di interventi legislativi, ha – di fatto – svuotato del requisito dell’indipendenza i principali organi giurisdizionali polacchi (per un’esaustiva rassegna delle principali modifiche di sistema introdotte v., ex multis, W. Sadurski, How democracy dies (in Poland): a case study of anti-constitutional populist backsliding, Sydney Law School Research Paper no. 18/01, 17 gennaio 2018).

Nel tentativo di arginare la portata di tali riforme, la Corte di giustizia è intervenuta con molteplici sentenze emesse tanto in sede di rinvio pregiudiziale quanto nell’ambito di procedure di infrazione.

In estrema sintesi, e limitandosi a queste ultime, la Corte ha censurato le normative polacche aventi ad oggetto: (i) l’abbassamento dell’età di pensionamento tanto dei giudici della Corte Suprema (Corte giust., 24 giugno 2019, causa C-619/18, Commissione c. Polonia (indipendenza della Corte Suprema), ECLI:EU:C:2019:531), quanto della magistratura ordinaria (Corte giust., 5 novembre 2019, causa C-192/18, Commissione c. Polonia (indipendenza dei Tribunali ordinari), ECLI:EU:C:2019:924), con tale misura l’esecutivo mirando a rendere vacanti un gran numero di cariche per poter così nominare giudici a sé vicini, secondo una logica di court packing; (ii) l’introduzione, nei confronti dei giudici, di un regime disciplinare che non presentava garanzie idonee ad escludere il rischio che fosse utilizzato come strumento di pressioni indebite sulla loro attività decisoria (Corte giust., 15 luglio 2021, causa 791/19, Commissione c. Polonia (indipendenza della sezione disciplinare), ECLI:EU:C:2021:596).

II. Con riferimento alla procedura di infrazione in esame, la Commissione ha inteso censurare due ulteriori aspetti dell’ordinamento giudiziario polacco: da un lato la prosecuzione da parte della Sezione disciplinare della Corte Suprema di attività inerenti allo status dei magistrati, secondo una strategia definibile di creative compliance e, dall’altro lato, parte del contenuto della c.d. “muzzle law”, con la quale sono state introdotte modifiche al regime disciplinare previgente.

In particolare, con riguardo alla prima contestazione menzionata – oggetto del quarto dei cinque motivi di ricorso proposti – la guardiana dei Trattati ha criticato il comportamento posto in essere dalle autorità polacche in seguito alla citata sentenza nella causa C-791/19. Con tale pronuncia la Corte aveva censurato molteplici aspetti relativi al regime disciplinare a cui erano sottoposti i giudici polacchi, evidenziando il rischio che potesse essere utilizzato «come sistema di controllo politico del contenuto delle decisioni giudiziarie» (pt. 213). I giudici del Kirchberg avevano individuato uno degli aspetti più critici della disciplina – di cui dunque chiedevano in sostanza l’eliminazione – nell’attribuzione del potere decisionale nell’ambito disciplinare ad un organo giurisdizionale non indipendente, quale la Sezione disciplinare della Corte Suprema. Invero, il fatto che la procedura di nomina della Sezione preveda l’intervento della KRS (Consilio Nazionale della Magistratura) – organo ad oggi di designazione politica – rende anche la prima, secondo una logica “a cascata”, una longa manus del governo centrale. Ciò, seppur indirettamente, permetteva a quest’ultimo di utilizzare indebitamente le procedure disciplinari per scrutinare il contenuto delle pronunce dei giudici e, in definitiva, influenzarli.

Ebbene, per evitare di contravvenire apertamente alla sentenza della Corte di giustizia, la Sezione disciplinare ha effettivamente cessato di occuparsi della responsabilità disciplinare dei giudici, ma l’attività vessatoria nei confronti dei magistrati è stata trasferita sul piano penale. Infatti, dal momento che a partire dal 2016 l’Ufficio del Procuratore Generale è sussunto nel Ministero della Giustizia e l’esercizio dell’azione penale risulta ormai spiccatamente politicizzato, è stato possibile per il governo fare ricorso all’istaurazione, nei confronti di giudici nazionali “scomodi”, di procedimenti penali manifestamente pretestuosi. Dal momento, però, che tale operazione è possibile solo previa revoca, da parte della Sezione disciplinare della Corte Suprema appunto, dell’immunità di cui altrimenti godono i magistrati, è evidente come tale organo abbia comunque conservato un ruolo in prima linea nel processo di erosione dell’indipendenza dei giudici (sul punto v. L. Pech, A brief analysis of the ECJ’s infringement ruling in case c-791/19 (disciplinary regime for judges) and order in case C-204/21 R (muzzle law), in Verffasungsblog.de, 20 luglio 2021). La Commissione ha quindi evidenziato l’urgenza di censurare il descritto atteggiamento di creative compliance. Non solo, in via più generale, ha riscontrato l’illegittimità della permanenza in capo ad una corte priva di imparzialità, quale la Sezione disciplinare, di ampie competenze relative allo status e alla carriera dei giudici – seppur diversi da quelli disciplinari – comunque capaci di esercitare una certa pressione nei confronti dei magistrati e del loro operato.

Con gli altri quattro motivi di ricorso, come accennato, la guardiana dei trattati ha censurato aspetti relativi al regime disciplinare della magistratura introdotti con la c.d. “muzzle law” (tradotto, legge museruola, definizione resa dalla ex Prima Presidente della Corte Suprema, Małgorzata Gersdorf). La nuova normativa, fra l’altro, vieta e qualifica come illecito disciplinare qualsiasi attività posta in essere da un giudice tesa a verificare il rispetto del requisito di indipendenza da parte degli altri organi giurisdizionali nazionali, ivi compresa l’attivazione a tal fine di un rinvio pregiudiziale. Il contenuto della novella legislativa, nonché il tempismo con cui è stata introdotta (è entrata in vigore il 14 febbraio 2020), hanno portato molti a considerarla come un tentativo dell’esecutivo polacco di neutralizzare la portata della sentenza A.K. (Corte giust., 19 novembre 2019, cause riunite C-585/18, C-624/18, C-625/18, A.K. (indipendenza della Sezione disciplinare della Corte suprema), ECLI:EU:C:2019:982), resa dalla Corte di giustizia nell’esercizio delle sue funzioni pregiudiziali. Con tale pronuncia, infatti, i giudici di Lussemburgo hanno introdotto il c.d. test dell’apparenza, ovvero un meccanismo di decentralized peer review secondo il quale un giudice può negare la qualifica di organo giurisdizionale indipendente di un proprio collega qualora esso non sia in grado di fornire, «attraverso la sua composizione, garanzie sufficienti per escludere qualsiasi legittimo dubbio sulla sua imparzialità» (pt. 128). Il contenuto della “muzzle law”, inoltre, appare tanto più critico se si prende in considerazione il fatto che essa determina l’impossibilità di utilizzo di un altro strumento successivamente elaborato – di nuovo nel contesto di un rinvio pregiudiziale – dalla Corte di giustizia a completamento del test dell’apparenza. Trattasi, segnatamente, del rimedio della sententia non existens, secondo il quale un giudizio in senso di parzialità di un organo impone di «considerare inesistent[i]» le pronunce da esso adottate (Corte giust., 6 ottobre 2021, causa C-487/19, W. Ż.(e des affaires publiques de la Cour suprême – nomination), ECLI:EU:C:2021:798, pt. 155).

III. I giudici del Kirchberg, investiti dalla Commissione delle menzionate censure, hanno affrontato nella loro pronuncia, innanzitutto, il quarto motivo di ricorso.

Segnatamente, la Commissione ha sostenuto la violazione dell’art. 19, par. 1, TUE in ragione del fatto che viene conferita alla Sezione disciplinare della Corte Suprema polacca – nonostante essa non presenti le garanzie necessarie per poter essere considerata un organo giurisdizionale indipendente – una competenza esclusiva circa: (i) le istanze di autorizzazione all’esercizio dell’azione penale nei confronti dei giudici e al loro arresto; (ii) l’applicazione, nei confronti della magistratura, delle norme in materia di lavoro e previdenza sociale; (iii) il regime di pensionamento obbligatorio dei giudici. La Corte di giustizia, come suggerito dall’Avvocato Generale (AG) Collins nelle sue conclusioni del 15 dicembre 2022 (pt. 213), ha riscontrato la sussistenza della citata censura, in quanto decisioni in tali ambiti – al pari di quelle inerenti alla responsabilità disciplinare dei giudici – appaiono idonee ad interferire con l’andamento della carriera di un giudice e con le sue condizioni di vita (pt. 97 della sentenza). Ne consegue, ad avviso della Corte, che anche esse debbano essere adottate «da un organo che soddisfi a sua volta le garanzie inerenti a una tutela giurisdizionale effettiva, tra cui quella di indipendenza» (pt. 100). Tuttavia, ribadendo quanto già affermato nella precedente causa C-791/19, i giudici di Lussemburgo non hanno ritenuto che la Sezione disciplinare fornisca tale garanzia, in ragione tanto del contesto di riforme in cui è stata disposta la sua istituzione, quanto delle sue modalità di nomina, idonee a ingenerare ragionevoli dubbi nei cittadini circa l’impermeabilità della Sezione nei confronti di influenze esterne (pt. 102).

La Corte ha quindi analizzato la terza censura mossa dalla Commissione, suddividendola in due parti.

Innanzitutto, è stato affrontato il tema della compatibilità con il diritto dell’Unione delle disposizioni polacche che qualificano come illeciti disciplinari gli «atti o omissioni tali da ostacolare o compromettere seriamente il funzionamento di un’autorità giudiziaria» nonché gli «atti che mettono in discussione l’esistenza del rapporto di lavoro di un giudice [o] l’efficacia della nomina di un giudice». I giudici di Lussemburgo hanno ritenuto che tale disciplina violi l’art. 19, par. 1, TUE, così come l’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CdfUE), a causa della loro formulazione non sufficientemente chiara e precisa (pt. 136). Ciò comporta il rischio che una procedura disciplinare venga attivata nei confronti del giudice procedente per aver esaminato il rispetto – da parte dell’organo di cui fa parte o di una qualsiasi altra giurisdizione – dei requisiti relativi all’indipendenza, all’imparzialità e alla precostituzione per legge (pt. 137). Questo va però a scontrarsi con il fatto che valutazioni di tal genere sono talvolta necessarie ai fini di garantire il rispetto degli artt. 19, par. 1, TUE e 47 CdfUE, integrando un’attività obbligatoria per i giudici nazionali. In tal senso, basti citare i vincoli derivanti dalle già richiamate sentenze A.K. (pt. 141) e W.Ż. (pt. 146). L’introduzione dei detti illeciti è dunque idonea ad ingenerare un grave chilling effect: poiché lo svolgimento di tali rilievi espone i giudici al rischio di essere sottoposti ad una procedura disciplinare, è improbabile che essi procedano effettivamente nel senso di una valutazione dell’indipendenza delle varie corti, rinunciando così a garantire l’effettività della tutela giurisdizionale. Ancora, sempre in ragione della loro intrinseca vaghezza, le disposizioni in parola risultano contrarie anche all’art. 267 TFUE, giacché l’esperimento di un rinvio pregiudiziale vertente sull’interpretazione dei requisiti di indipendenza deducibili dagli artt. 19, par. 1, TUE e 47 CdfUE rischia di integrare l’illecito disciplinare descritto (pt. 154).

La Corte di giustizia ha svolto analoghe valutazioni anche con riferimento alla seconda questione enucleata nel terzo motivo di ricorso, inerente alla legittimità della previsione di un illecito disciplinare che consista in una «violazione manifesta e flagrante delle disposizioni di legge» da parte dei giudici della Corte Suprema. Peraltro, i giudici del Kirchberg hanno sottolineato come una fattispecie di illecito elaborata nei medesimi termini fosse già stata censurata – per le stesse ragioni – in relazione al regime disciplinare dei giudici ordinari, oggetto della menzionata causa C-791/19, per tale motivo ampiamente richiamata (pt. 164-168).

La Corte si è quindi soffermata sulla prima censura: la Commissione considera violati gli artt. 19, par. 1, TUE, 47 CdfUE, 267 TFUE, nonché il principio del primato del diritto dell’Unione, in ragione del fatto che tramite la “muzzle law” è stato esplicitamente vietato ai giudici nazionali di «mettere in discussione la legittimazione dei tribunali e delle corti (…) o degli organi di controllo o di tutela del diritto», come pure di «accertare o valutare la legittimità della nomina di un giudice». La Corte – previa valutazione di irricevibilità della censura in relazione alla violazione dell’art. 267 TFUE a causa di mancanza di chiarezza e precisione nel ricorso della Commissione (pt. 192, la medesima valutazione è svolta dall’AG al pt. 128 delle sue conclusioni) – ritiene invece fondate nel merito le restanti eccezioni. Ancora una volta, infatti, secondo la Corte, le disposizioni della legge polacca sarebbero formulate in maniera troppo ampia e imprecisa (pt. 201), tanto da risultare vietata anche l’attività di controllo del rispetto, da parte delle giurisdizioni nazionali, dei requisiti relativi all’indipendenza, all’imparzialità e alla precostituzione per legge derivanti dagli artt. 19, par. 1, TUE e 47 CdfUE. Viene tuttavia ribadito come essa risulti, talvolta, obbligatoria per un giudice, come rilevato dalla stessa Corte di giustizia in A.K. (pt. 205).

La Corte di giustizia ha accolto anche il secondo motivo di ricorso, in base al quale l’attribuzione in via esclusiva alla Sezione di Controllo Straordinario e degli Affari Pubblici della Corte Suprema della competenza ad esaminare i ricorsi e le questioni giuridiche relative alla mancanza di indipendenza di un organo giurisdizionale viola gli artt. 19, par. 1, TUE, 47 CdfUE, 267 TFUE, così come il primato del diritto dell’Unione. Essa ha, segnatamente, ritenuto le disposizioni in esame idonee a compromettere la corretta implementazione del principio di tutela giurisdizionale effettiva sancito dagli artt. 19, par. 1, TUE e 47 CdfUE, poiché impediscono al giudice di adottare il comportamento che si rende immediatamente necessario al fine di garantire la piena efficacia del diritto dell’Unione. Il principio del primato richiederebbe, infatti, la diretta risoluzione della questione inerente all’indipendenza di un altro organo giurisdizionale nazionale, attività che non è, di contro, più possibile nell’ordinamento polacco, giacché il giudice procedente risulta obbligato a deferire la questione alla detta Sezione straordinaria della Corte Suprema (pt. 286-287). Tale vincolo risulta violare anche l’art. 267 TFUE dal momento che pare quantomeno idoneo a scoraggiare i giudici – se investiti di una questione inerente all’indipendenza di un organo giurisdizionale – dall’interrogare, a riguardo, la Corte di giustizia (pt. 290).

La soluzione del quesito in tal senso non era scontata: l’AG aveva proposto di respingere questa censura. In particolare, secondo l’AG – se è vero che tali questioni sono orizzontali e potrebbero, dunque, porsi dinnanzi a qualsivoglia giudice – è vero anche che non è illegittimo che esse vengano decise da un altro organo giurisdizionale specializzato. Non sarebbe, infatti, stato provato dalla Commissione che ciò determini svantaggi procedurali idonei a rendere eccessivamente difficile ottenere il rispetto del diritto ad un ricorso effettivo, mentre ciò potrebbe addirittura permettere un’applicazione migliore e più uniforme della legge (pt. 98). La Corte, invece, come detto, è andata di diverso avviso, ritenendo provata la violazione.

Anche in relazione, infine, all’ultima censura, la Corte ha avallato la valutazione svolta della Commissione. Secondo quest’ultima, l’obbligo, in capo a ciascun giudice, di fornire informazioni relative alla sua appartenenza a organismi o associazioni professionali, alle funzioni da esso svolte in seno a fondazioni senza scopo di lucro e alla sua iscrizione ad un partito politico viola il diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, nonché alla protezione dei dati di carattere personale, sanciti rispettivamente dagli artt. 7 e 8 della CdfUE. Non solo, risulta leso anche il divieto di trattamento di dati personali considerati particolarmente sensibili sancito dal Regolamento (UE) 2016/679. Se è vero, infatti, che la finalità che la Polonia dichiara di perseguire attraverso l’imposizione di un simile obbligo è lecita – trattasi di consentire alle parti di conoscere eventuali circostanze idonee a fondare legittimi dubbi circa l’imparzialità del giudice (pt. 357) – è vero anche, per contro, che vi sono già altri strumenti nell’ordinamento polacco che permettono di raggiungere il medesimo risultato e che le conseguenze del descritto obbligo risultano sproporzionate in relazione al fine perseguito, determinando il rischio di una «stigmatizzazione indebita» dei giudici (pt. 377).

IV. La Corte di giustizia ha, quindi, censurato tutti gli aspetti della “muzzle law” che la Commissione ha ritenuto di sottoporle. Sebbene vada indubbiamente considerato con favore il fatto che l’Unione reagisca anche su un piano giurisdizionale, aggiungendo, come anticipato, un ulteriore “tassello” alla propria azione di tutela del valore di Stato di diritto, permangono dubbi circa la concreta efficacia del descritto intervento.

La procedura di infrazione porta con sé alcuni limiti che anche in questo caso appaiono insuperabili. In parte, ciò è riconducibile alla totale mancanza di collaborazione fino ad ora dimostrata dall’esecutivo polacco: considerate le inerzie persistenti a fronte di pronunce della Corte di giustizia ex art. 258 TFUE, nonché all’esito di rinvii pregiudiziali, accertanti la sostanziale non compatibilità del diritto polacco con il diritto dell’Unione, è improbabile che questa nuova pronuncia riceva invece pronta implementazione. Tale circostanza appare quantomeno remota anche in considerazione del fatto che l’unico strumento a cui si potrebbe ricorrere per reagire all’eventuale inadempimento della sentenza è l’avvio di una nuova procedura di infrazione ex art. 260, par. 2, TUE e la comminazione di una sanzione pecuniaria all’esito della stessa. Ebbene, la Polonia si è già in parte dimostrata incurante nei confronti di misure di natura economica. Anche nell’ambito del procedimento cautelare relativo proprio alla causa in esame, l’esecutivo polacco non ha proceduto alla corretta implementazione delle misure provvisorie impostegli, nonostante la Corte di giustizia avesse disposto la sanzione “record” di 1 milione di euro per ogni giorno di ritardo nell’adempimento delle suddette (Ordinanza del vicepresidente della Corte, 27 ottobre 2021, causa C-204/21 R, Commissione c. Polonia, ECLI:EU:C:2021:878). L’indifferenza della Polonia nei confronti delle sanzioni pecuniarie non è smentita dalla successiva riduzione a 500.000 euro della misura cautelare (Ordinanza del vicepresidente della Corte, 21 aprile 2023, causa C-204/21 R-RAP, Commissione c. Polonia, ECLI:EU:C:2023:334). Infatti, essa è stata determinata da un adempimento dei provvedimenti provvisori solo parziale che appare posto in essere, oltretutto, con il fine specifico di sbloccare i fondi del PNRR e non, quindi, con l’intento di implementare l’ordine della Corte di giustizia, determinando pertanto il permanere di dubbi circa l’incisività delle sanzioni pecuniarie (in questo senso si esprimono L. Pech, D. Kochenov, Respect for the Rule of law in the case law of the European Court of Justice: a casebook overview of key judgements since the Portuguese judges case, pubblicato da SIEPS, report n. 3, settembre 2021, p. 51).

Inoltre, vi è un’insuperabile asimmetria tra la tipologia di misure che possono essere vagliate nel contesto delle procedure di infrazione – ovvero specifiche disposizioni legislative – e problematica affrontata, quale l’implementazione sistemica di un’agenda politica illiberale. Infatti, la necessità di individuare il singolo obbligo violato dallo Stato membro “imputato” non permette l’apprezzamento del più ampio impatto che le misure oggetto di censura hanno nell’ordinamento nazionale, determinato dalla loro appartenenza ad un deliberato progetto di disgregazione delle istituzioni liberali perpetrato su più fronti. Nel caso di specie, per esempio, da un lato le misure inerenti al regime disciplinare della magistratura censurate risultano essere una pars pro toto: l’abrogazione della “muzzle law” comunque non risolverebbe il problema dell’indipendenza della magistratura, determinato da innumerevoli altre disposizioni che resterebbero in vigore. Dall’altro lato, non si ha la possibilità di sottolineare come in Polonia il fenomeno di rule of law backsliding trascenda l’ambito specifico dell’organizzazione dell’ordinamento giudiziario e interessi anche, per esempio, il settore dei media, della società civile, oggetti di gravi tentativi di censura.

Ad ogni modo, l’intervento giurisdizionale conserva alcuni vantaggi rispetto a quello di natura politica quali, in particolare, la maggiore facilità e velocità di attivazione. Ciò risulta ad oggi ancora più evidente: il ricorso a strumenti politici è attualmente più difficile che mai in ragione dello scoppio del conflitto in Ucraina e del ruolo centrale che la Polonia si è trovata a ricoprire su tal fronte (cfr. P. Bárd, D. Kochenov, War as a pretext to wave the rule of law goodbye? The case for an EU constitutional awakening, in European law journal, vol. 29, 2022). Inoltre, in questo “braccio di ferro” gli interventi della Commissione e dei giudici di Lussemburgo sono comunque in grado di esplicare alcuni effetti. Da un lato, le loro prese di posizione hanno un’efficacia legale-costituzionale, permettendo di riconfermare la natura di Unione di valori dell’Unione europea, che non è dunque disposta a tollerare in silenzio le derive illiberali dei propri Stati membri. Dall’altro lato, la loro “lotta” alla crisi dello Stato di diritto assume un’importante valenza simbolica e sociale. Infatti, quandanche le censure operate da Commissione e Corte di giustizia nei confronti dell’operato antidemocratico dei governi nazionali rimanessero senza conseguenze immediate, la continua e risoluta critica del modus operandi illiberale del governo centrale potrebbe risultare comunque in grado di svolgere un ruolo importante nella valutazione della responsabilità politica di quest’ultimo, orientando in tal modo le scelte dell’elettorato (cfr. A. Von Bogdandy, Towards a tyranny of values? Principles of defending checks and balances in EU Member States, in A. Von Bogdandy et a. (a cura di), Defending checks and balances in EU Member States. Taking stock of Europe’s actions, Berlino, 2021, p. 79). Ciò è quanto sembra stare accadendo in tempi recenti in Polonia, dove una gran parte dell’elettorato si sta schierando a favore delle posizioni assunte dall’Unione europea, come dimostrato dalla marcia di protesta contro il governo centrale svoltasi il 4 giugno 2023, risultata la più grande manifestazione popolare polacca dal 1989.

Non resta, dunque, che attendere, innanzitutto, gli esiti delle elezioni politiche che si terranno in Polonia il prossimo autunno.

 

 


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