La fine della vicenda Tercas? La Commissione constata la non sussistenza di un aiuto di Stato

1. Dopo otto anni dalla pronuncia della prima decisione, la Commissione è tornata ad esprimersi sul caso Tercas. La vicenda che ha visto coinvolta la Cassa di risparmio della Provincia di Teramo S.p.A. (nel prosieguo, “Tercas”) e il Fondo interbancario di tutela dei depositi (nel prosieguo, “FITD”) non ha mai smesso, invero, di destare interesse, in considerazione della natura delle risorse concesse dal FITD all’istituto creditizio e del contesto giuridico-fattuale in cui le misure di supporto sono state erogate. Come noto, tali misure erano state inquadrate come aiuti di Stato ex art. 107 TFUE dalla stessa Commissione che ad oggi, dopo due pronunce in proposito del giudice europeo, è dovuta tornare sui suoi passi.

2. Giova, quindi, sintetizzare brevemente la vicenda. Il 30 aprile 2012 il Ministro dell’Economia e delle Finanze, tramite apposito decreto, sottoponeva Tercas ad amministrazione straordinaria per gravi irregolarità operative e violazioni normative ex art. 70, comma 1, lett. a), del Testo Unico Bancario. Il commissario straordinario nominato, al fine di far cessare lo stato di crisi in cui versava l’istituto, avviava le trattative con la Banca Popolare di Bari (nel prosieguo, “BPB”), interessata a sottoscrivere un aumento di capitale in favore di Tercas a condizione che il FITD ne avesse coperto il deficit patrimoniale. L’intervento dei fondi di garanzia, del resto, era avvenimento ricorrente nella gestione delle crisi bancarie. Dopo una lunga contrattazione fra la BPB e il FITD, il 30 maggio 2014 si raggiungeva un accordo avente ad oggetto un contributo del FITD pari a 330 milioni di Euro. Nel luglio del medesimo anno, Banca d’Italia approvava l’operazione e contestualmente revocava il regime di amministrazione straordinaria.

Pur in assenza di notifica delle misure ai sensi dell’art. 108 TFUE, la Commissione, nel febbraio 2015, avviava un’indagine approfondita sulle misure di sostegno, nutrendo dubbi sulla loro compatibilità con le norme del Trattato in materia di aiuti di Stato.

Con la decisione (UE) n. 2016/1208 del 23 dicembre 2015 l’istituzione riteneva che il FITD aveva agito per conto dello Stato italiano e, come corollario, che i quattro requisiti necessari a definire una misura nazionale come aiuto di Stato – ossia il vantaggio in capo al beneficiario, l’incidenza sul mercato, la selettività e il trasferimento di risorse statali – erano stati integrati.

In particolare, la Commissione sosteneva l’imputabilità allo Stato sia perché i fondi impiegati dal FITD a salvataggio della banca erano ritenuti contributi obbligatori di natura parafiscale (soggetti, pertanto, al pubblico controllo), sia perché l’intervento del FITD veniva interpretato come espressione di un mandato statale stante la posizione di controllo e di indirizzo della Banca d’Italia nella cornice dell’operazione.

La decisione in parola dava atto altresì del fatto che l’aiuto non era compatibile né con il mercato interno, né con la c.d. “comunicazione sul settore bancario” del 2013 per una varietà di ragioni. In primis, l’Italia non aveva presentato un piano di ristrutturazione, pertanto la Commissione non era in grado di valutare se la Tercas potesse ripristinare la sua redditività nel lungo periodo. In secondo luogo, i creditori subordinati non avevano contribuito in alcun modo ai costi di ristrutturazione come richiesto dai principi del burden sharing. Infine, non erano state concepite misure atte a limitare la distorsione della concorrenza creata dalla misura controversa. Per tali ragioni, la Commissione ordinava il recupero immediato ed effettivo dell’aiuto illegalmente concesso.

3. La decisione era stata impugnata dallo Stato italiano, dal FITD e dalla BPB, con il sostegno di Banca d’Italia in qualità di interveniente, dinanzi al Tribunale dell’Unione europea.

Il giudice di prime cure, con sentenza del 19 marzo 2019, annullava la decisione negativa della Commissione, ritenendo mancanti le condizioni funzionali all’applicazione dell’art. 107 TFUE. Nello specifico, venivano ritenuti non sufficienti gli indizi di imputabilità allo Stato italiano addotti dalla Commissione. Quest’ultima impugnava la pronuncia dinanzi alla Corte, ritenendola viziata da errori di diritto e di fatto. Fra le altre cose, essa sosteneva che l’onere probatorio richiesto per dimostrare l’intervento dello Stato fosse eccessivamente gravoso, divenendo idoneo a generare, nel lungo periodo, un’impossibilità di azione a fronte di altri interventi “pericolosi”. Rilevava, inoltre, che la valutazione atomistica compiuta dal Tribunale per constatare la presenza (rectius, l’assenza) di un aiuto confliggeva con la necessità di vagliare simili situazioni in maniera complessiva.

4. La Corte di giustizia, tuttavia, con sentenza del 2 marzo 2021, respingeva in toto l’appello, giudicando corretta l’analisi svolta dal Tribunale. I giudici, in Grande Sezione, innanzitutto confermavano lo scarso livello di prove presentate dalla Commissione a sostegno dell’imputabilità dell’intervento di favore all’Italia. Come noto, infatti, giurisprudenza consolidata richiede che l’integrazione del primo requisito richiesto dall’art. 107 TFUE per la sussistenza di un aiuto – ossia “l’intervento dello Stato, ovvero tramite risorse statali” – sia dimostrato attraverso la prova di due elementi: che la misura sia stata concessa dallo Stato e che sia stato fatto uso di risorse pubbliche. La dimostrazione di tali sub-requisiti risulta più onerosa, ma a fortiori imprescindibile, quando, ad essere coinvolto, è un ente privato come nel caso di specie. Pertanto, si afferma nella sentenza, la Commissione avrebbe dovuto provare «con indizi sufficienti» il coinvolgimento pubblico, senza limitarsi ad attestare la probabilità di un’influenza e di un controllo da parte dello Stato ma, al contrario, dimostrando il concreto coinvolgimento dello stesso.

Inoltre, la Corte specificava che il FITD non poteva essere identificato come un organismo o un ente soggetto all’autorità o al controllo dello Stato per due ordini di ragioni.

Da un lato, il suo intervento costituiva esercizio di una facoltà, e non di un obbligo. Invero, al contrario di quanto sostenuto dalla Commissione – che muoveva dall’assunto secondo cui ogni misura di intervento adottata dal FITD fosse l’esecuzione di un mandato pubblico – si rimarcava il fatto che, quando esso agisce a sostegno di una banca aderente, l’intervento è di natura discrezionale. Quest’ultimo viene deliberato autonomamente e nell’interesse privato delle consorziate, non essendo affatto scaturente da un obbligo di legge né perseguendo l’interesse pubblico. In tal senso, la presenza alle riunioni degli organi direttivi dei funzionari della Banca d’Italia non palesava un impatto sulla decisione poiché essi prendevano parte agli incontri solo in veste di osservatori e non erano dotati di alcun diritto di voto.

Dall’altro lato, nel caso di specie non era applicabile la giurisprudenza della Corte sul c.d. test Foster (si veda, ex multis: sentenza del 12 luglio 1990, causa C-188/89, Foster e a., ECLI:EU:C:1990:313) avente ad oggetto l’equiparazione di un ente privato allo Stato in virtù dell’effetto verticale delle direttive (la Commissione, nelle sue argomentazioni difensive, faceva leva sulla direttiva n. 94/19/CE relativa ai sistemi di garanzia dei depositi).

5. Venendo ora alla recente notizia, la Commissione, con la decisione del 21 settembre 2023 di cui si attende la pubblicazione (nel momento in cui si scrive vi è solo un comunicato stampa), si è vista “costretta” a constatare l’inesistenza di un aiuto di Stato.

L’istituzione ha così rivalutato il caso – dovendo, ex art. 266 TFUE, assumere i provvedimenti che l’esecuzione della sentenza della Corte di giustizia comporta – concludendo che il sostegno all’epoca concesso dal FITD alla Tercas non era imputabile allo Stato italiano.

Sarà interessante leggere il contenuto della nuova decisione, così da comprendere come la Commissione abbia dovuto interpretare ex novo, e in senso contrario, i requisiti di cui all’art. 107 TFUE.

6. Sebbene possa sembrare che una simile presa d’atto ponga un punto definitivo alla vicenda, è bene evidenziare che essa, in realtà, segna solo un punto di partenza in relazione alla possibilità di esperire un’azione risarcitoria nei confronti della Commissione europea. Difatti, il combinato disposto degli artt. 268 e 340 TFUE consente alla Corte di giustizia di imporre all’Unione di risarcire i danni perpetrati dalle istituzioni nell’esercizio delle loro funzioni.

Si ricorda, in proposito, che è già pendente un ricorso proposto il 10 luglio 2021 da parte di BPB contro la Commissione (si veda: Banca Popolare di Bari c. Commissione, causa T-415/21). La ricorrente ha richiesto al Tribunale di condannare l’Unione, in persona dalla Commissione, a risarcire la somma di 280 milioni di Euro a titolo di risarcimento per i danni materiali subiti nell’ambito della vicenda. In aggiunta, essa ha domandato un adeguato importo a titolo di risarcimento dei danni morali conseguenti alla scorretta decisione dell’istituzione.

Si aggiunga, al quadro supra tratteggiato, il fatto che il 26 settembre 2023 – solo cinque giorni dopo la pubblicazione del comunicato stampa della Commissione – il Parlamento europeo ha presentato un’interrogazione prioritaria con richiesta di risposta scritta nei confronti della Commissione, titolata “Risarcimento danni in seguito alla decisione errata della Commissione sul caso Tercas” (si veda: Interrogazione prioritaria con richiesta di risposta scritta P-002807/2023 alla Commissione, 26 settembre 2023). Si è così richiesto ai commissari se intendono «scusarsi pubblicamente» per l’errore commesso nella decisione Tercas e, soprattutto, come e quando intendono rispondere dei danni ingiustamente arrecati all’Italia, ai risparmiatori e alle banche coinvolte direttamente e indirettamente da tale atto scorretto.

7. In questo scenario ancora in itinere può comunque dirsi, in conclusione, che la vicenda Tercas rappresenta una pietra miliare nell’ambito degli aiuti di Stato. È altrettanto vero, però, che essa non costituisce un caso isolato perché, negli ultimi anni, i giudici europei hanno più volte contraddetto l’istituzione nella lettura dei requisiti di cui all’art. 107 TFUE.

Si pensi, fra gli altri, al recente caso Fiat Chrysler Europe e alla pronuncia emessa dalla Corte in proposito nel novembre 2022 (v. sentenza dell’8 novembre 2022, cause riunite C-885/19 P e C-898/19 P, Fiat Chrysler Finance Europe e Irlanda c. Commissione europea, ECLI:EU:C:2022:859). La Commissione aveva sostenuto l’applicabilità dell’art. 107 TFUE nel contesto di un advanced price agreemet definito nel 2012 dal Lussemburgo con la società Fiat Chrysler Finance Europe. L’istituzione aveva affermato che la misura controversa aveva origini pubbliche – nel suo ragionamento, l’autorità fiscale altro non era che parte organica dello Stato lussemburghese – e che essa comportava un vantaggio economico selettivo per la beneficiaria.

Tale decisione era stata impugnata dallo Stato lussemburghese e dall’impresa, supportati dalla Repubblica d’Irlanda, dinanzi al Tribunale che, nel settembre 2019, aveva confermato in toto le rimostranze della Commissione.

In qualità di giudice dell’impugnazione, però, la Corte di giustizia aveva riesaminato il caso giungendo alla pubblicazione, l’8 novembre 2022, della suddetta pronuncia che, dopo aver rilevato l’errore di diritto commesso dal giudice di primo grado nell’applicazione del Trattato, aveva annullato tanto la sua sentenza quanto la decisione della Commissione.

Ebbene, il nuovo modus operandi delle Corti UE pare essere di indole più permissiva nei confronti degli Stati membri in quanto restringe la nozione di aiuto di Stato e, di conseguenza, limita il potere d’intervento della Commissione.

Questo porta, con sé, il vantaggio di evitare una “sovra-inclusione” di misure statali che, a ben vedere, non rientrano nella nozione di aiuto. La Commissione ha ora bisogno di un solido insieme di prove per concludere circa l’applicabilità dell’art. 107 TFUE ed è maggiormente motivata a redigere decisioni chiare e dettagliate.

Di contro, l’elevato standard probatorio rende necessarie indagini più lunghe e onerose, minando altresì la certezza del diritto, poiché risulta sempre più difficile, per gli operatori e le autorità statali, valutare ex ante la portata di un intervento pubblico.


facebooktwittergoogle_plusmailfacebooktwittergoogle_plusmail