Le condanne scontate nel Paese d’origine devono essere valutate ai fini dell’esclusione dallo status di rifugiato, ma non impediscono l’applicazione della clausola di esclusione.

Con la sentenza del 30 aprile 2025, la Terza Sezione della Corte di Giustizia dell’Unione Europea si è pronunciata nella causa C‑63/24, riguardo ad una questione pregiudiziale sollevata dal Lietuvos vyriausiasis administracinis teismas (la Corte amministrativa suprema della Lituania). Il giudice del rinvio si è interrogato in merito all’interpretazione dell’articolo 12, paragrafo 2, lettera b), della direttiva 2011/95 – la cosiddetta direttiva qualifiche, contenente norme sull’attribuzione della qualifica di beneficiario di protezione internazionale – in combinato disposto con l’articolo 18 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea, che sancisce il diritto d’asilo. L’articolo 12, paragrafo 2, lettera b) della direttiva concerne l’esclusione dallo status di rifugiato quando sussiste grave motivo di ritenere che è stato commesso “al di fuori del paese di accoglienza un reato grave di diritto comune prima di essere ammesso come rifugiato, ossia prima del momento in cui gli è rilasciato un permesso di soggiorno basato sul riconoscimento dello status di rifugiato […]”. Alla luce di una lacuna giurisprudenziale sul punto – in particolare nelle sentenze del 9 novembre 2010, B e D, C-57/09 e C-101/09, e del 13 settembre 2018, Ahmed, C-369/17 – il giudice lituano solleva dubbi in merito all’obbligo di considerare, nella valutazione dei motivi di esclusione dallo status di rifugiato, pene già scontate e grazie o amnistie concesse al richiedente protezione.

La questione è sorta nell’ambito di un procedimento instaurato tra K.L., cittadino di un Paese terzo, e il Migracijos departamentas prie Lietuvos Respublikos vidaus reikalų ministerijos, il Dipartimento per la migrazione presso il Ministero degli affari interni della Repubblica di Lituania. Giunto in Lituania nel febbraio 2022, K.L. ha presentato domanda di protezione internazionale, dichiarando di essere stato condannato tre volte nel suo Paese d’origine per la sua attività di oppositore politico, e di aver lasciato il Paese per evitare un nuovo procedimento. Il dipartimento della migrazione lituano ha concluso che l’attività politica di K.L. poteva costituire possibile motivo di persecuzione; tuttavia, alla luce delle sanzioni ricevute nel Paese d’origine e della loro gravità, ha qualificato gli atti commessi “reato grave di diritto comune” ai sensi della legge lituana di trasposizione della direttiva e respinto la domanda di K.L. Ha contemporaneamente rilasciato un permesso di soggiorno temporaneo, ritenendo che rimpatriare il signor K.L. avrebbe comportato per lui rischio di persecuzione. Dopo la conferma della decisione da parte del Vilniaus apygardos administracinis teismas (Tribunale amministrativo regionale di Vilnius), appellando la sentenza davanti alla Corte amministrativa suprema, il signor K.L. ha allegato di aver già scontato la pena per i reati considerati, e che quindi la clausola di esclusione non era più applicabile. Il dipartimento ha invece sostenuto che, nella valutazione di tale circostanza, l’autorità esaminante dispone di un potere discrezionale, argomentando che questo potere discenderebbe dal silenzio sul punto della direttiva UE e della legislazione lituana, nonché dalla Guida pratica sull’esclusione dell’Ufficio europeo di sostegno per l’asilo (EASO).

In base alle indicazioni dell’UNHCR, l’elenco contenuto all’Articolo 1 F della Convenzione di Ginevra è esaustivo. La ratio è quella di escludere dalla protezione chi ha commesso atti tali da renderli indegni della protezione offerta ai rifugiati, per evitare abusi dell’istituto dell’asilo. Tale impostazione è ripresa dalla stessa Corte di Giustizia (sentenza del 2 maggio 2018, K. e H.F., C‑331/16 e C‑366/16 e sentenza B e D). In vista di tali considerazioni, il giudice del rinvio sottolinea che l’obbligo di tenere conto di pene scontate, grazie o amnistie ottenute potrebbe “mettere in secondo piano la valutazione della gravità del reato o della responsabilità individuale del richiedente asilo”. Ritiene infatti che le clausole di esclusione siano da interpretare in modo particolarmente cauto, puntando al bilanciamento tra la gravità dell’illecito commesso e la severità delle conseguenze dell’esclusione dalla protezione.

Venendo alla questione pregiudiziale sollevata, la Corte di Giustizia rileva che la direttiva 2011/95 e la Convenzione di Ginevra non contengono indicazioni sull’interpretazione dei termini utilizzati. In particolare, la normativa di riferimento non definisce la nozione di “reato grave”. Per questo, secondo consolidata giurisprudenza della CGUE (sentenza del 6 luglio 2023, Staatssecretaris van Justitie en Veiligheid, C‑402/22), deve essere interpretata in modo autonomo e uniforme nell’intera Unione, conformemente “al […] senso abituale nel linguaggio corrente, tenendo conto del contesto […] e degli obiettivi perseguiti dalla normativa”. In base a questi criteri, il termine “reato” vuole sanzionare atti commessi prima della richiesta di protezione. L’aggettivo “grave” aggiunge invece un profilo variabile nel tempo; difatti, la valutazione di gravità può essere diversa al momento della commissione del reato e poi nel momento dell’esame della domanda di protezione internazionale.

La risposta della Corte si sviluppa a partire dalle parole della Convenzione di Ginevra – pietra angolare del sistema d’asilo europeo –  e dal Manuale sulle procedure per la determinazione dello status di rifugiato del 2019 dell’UNHCR, secondo cui “[i]l fatto che il richiedente condannato per un reato grave di diritto comune abbia già scontato la pena o sia stato graziato oppure abbia beneficiato di un’amnistia deve pure essere preso in considerazione”. Analizzando la prima circostanza, non essendo grazie o amnistie intervenute nel processo a quo, la Corte ritiene che tale valutazione non contrasti con gli obiettivi delle clausole di esclusione. Avendo già scontato la pena ricevuta, il richiedente protezione non potrà abusare dello status di rifugiato per sottrarsi alla propria responsabilità, né si può ritenere che la commissione di un reato grave renda una persona indegna di protezione a vita ed escludere ogni possibilità di riabilitazione. La valutazione dell’autorità nazionale competente deve essere completa e individuale, e una decisione di esclusione non può essere automatica né può dipendere da una nuova valutazione della gravità del reato. Per questo motivo, l’aver già scontato la pena prevista per i reati considerati è un elemento che deve necessariamente essere valutato, insieme al tipo di atto commesso, la pena comminata e inflitta, il periodo di tempo trascorso dal comportamento criminale, il comportamento dell’interessato durante tale periodo e il rimorso eventualmente espresso. Tuttavia, e come evidenziato nelle note scritte dai governi lituano, francese, olandese e dalla Commissione europea, questa valutazione non osta all’applicazione della clausola di esclusione di cui all’ articolo 12, paragrafo 2, lettera b), della direttiva 2011/95. Ricorda inoltre la Corte che tale valutazione è ben distinta da quella sulla possibilità di rimpatriare il richiedente protezione, come emerge anche dalla decisione finale del Dipartimento lituano, che si pone in linea con il principio di non-refoulement.

Sulla base di tale impostazione, la conclusione della Corte è quindi quella di ritenere che per la valutazione di cui all’articolo 12, paragrafo 2, lettera b), della direttiva 2011/95, letto ai sensi dell’articolo 18 della Carta, è necessario tener conto del fatto che il richiedente protezione ha scontato la pena comminatagli per gli atti commessi che rilevano come cause di esclusione dallo status di rifugiato. Allo stesso tempo, tale obbligo non impedisce che il richiedente sia comunque escluso dallo status di rifugiato.

La decisione si inserisce nel solco della pregressa giurisprudenza della Corte sul punto, che sottolinea l’importanza di un esame completo delle circostanze del caso individuale. La posizione della Corte trova un riscontro anche nella giurisprudenza nazionale italiana: la Corte di Cassazione con l’ordinanza 11668/2020 esplicita che una condanna penale da parte di una Corte straniera non sia una prova definitiva della gravità di un reato; è invece necessaria una valutazione autonoma delle dichiarazioni del richiedente protezione per accertare concretamente la persecuzione su cui si basa la richiesta di protezione internazionale. La giurisprudenza italiana si confronta espressamente con il rischio di escludere dalla protezione soggetti perseguitati proprio per gli atti oggetto della condanna alla base dell’esclusione, evidenziando una contraddizione logica che la Corte di Giustizia non affronta nella presente sentenza. Tale contraddizione, se non adeguatamente inquadrata, rischia di tradursi in una negazione indiretta di protezione nei casi in cui il richiedente sia stato perseguitato per via giudiziaria per motivi politici.

In conclusione, la decisione della Corte conferma la necessità di un esame individuale, in cui la pena scontata è rilevante, ma non preclude l’esclusione. In tal modo garantisce coerenza con i principi della Convenzione di Ginevra ed impedisce automatismi nell’applicazione di clausole che rappresentano un’eccezione a norme umanitarie. Omette tuttavia un’analisi più articolata dei casi in cui i reati commessi e le condanne ricevute siano il motivo di persecuzione su cui si basa la richiesta di protezione. La Corte lascia così irrisolto un nodo potenzialmente centrale, soprattutto in presenza di atti qualificabili come politici. Ciò, anche in ragione della genericità normativa e dell’assenza di un’interpretazione comune a livello internazionale ed euro-unitario delle clausole di esclusione, potrebbe alimentare nuove incertezze interpretative e ulteriori richieste di intervento da parte della Corte.