La giurisprudenza CILFIT e l’obbligo di rinvio pregiudiziale interpretativo: la proposta “ribelle” dell’avvocato generale Bobek

Come già spesso accaduto in passato, lo strumento del rinvio pregiudiziale e le sue condizioni di utilizzo hanno recentemente occupato una posizione di estremo rilievo nell’attività interpretativa e sistematica della Corte di giustizia. Nello specifico, suscitano grande interesse le conclusioni presentate il 15 aprile 2021 dall’avvocato generale Bobek, nella causa C-561/19, Consorzio Italian Management e Catania Multiservizi. La controversia aveva visto il Consiglio di Stato sottoporre già un primo rinvio alla Corte di giustizia, ove si chiedeva di valutare la conformità al diritto dell’Unione dell’esclusione, a danno della società ricorrente, della possibilità di revisione del prezzo in alcuni contratti di appalto di servizi. Alla luce dell’avvenuta risposta da parte della Corte, le parti del giudizio a quo avevano però richiesto, al giudice amministrativo, di sollevare ulteriori questioni pregiudiziali sulle quali ritenevano necessario si pronunciasse il giudice “comunitario”. In questo modo, dunque, la Corte è stata chiamata a esprimersi sulla sussistenza dell’obbligo di rinvio per i giudici di ultima istanza anche nel caso in cui un’ordinanza di rinvio alla Corte sia già stata sollevata nell’ambito del medesimo giudizio. A partire da siffatta richiesta, l’avvocato generale ceco ha però colto l’occasione per sviluppare considerazioni ben più ampie e volte, in ultimo, a proporre una profonda revisione dei c.d. criteri CILFIT, vale a dire le condizioni (di matrice giurisprudenziale) che comportano l’esenzione dall’obbligo ex art. 267, comma 3, TFUE.

È infatti noto che, proprio nella risalente causa C-283/81, CILFIT c. Ministero della Sanità, la Corte di giustizia abbia enunciato le tre circostanze che, ancora oggi, sollevano il giudice «avverso le cui decisioni non possa proporsi un ricorso giurisdizionale di diritto interno» da un adempimento altrimenti obbligatorio (punti 12-16 della sentenza). Tali circostanze si possono riassumere come segue: l’identità materiale della fattispecie ad altra su cui la Corte di giustizia si sia già espressa; la presenza di una giurisprudenza consolidata della Corte stessa sul medesimo punto di diritto all’esame del giudice nazionale, anche in assenza di identità materiale della fattispecie (c.d. teoria dell’acte éclairé); la mancanza di ogni ragionevole dubbio sull’applicazione delle norme rilevanti di diritto dell’Unione (c.d. teoria dell’acte clair).

Il percorso argomentativo dell’avvocato generale Bobek prende le mosse da una forte critica soprattutto all’ultima di queste condizioni (punti 88-128 delle conclusioni), la cui funzionalità è considerata insufficiente tanto sul piano concettuale, quanto soprattutto sul piano pratico. Anche l’apertura delle conclusioni stesse rimarca tale impostazione, attraverso un suggestivo passaggio su quanto «gli studenti di diritto dell’Unione abbiano sempre amato»: confutare i c.d. criteri CILFIT, in ragione della (pretesa) estrema facilità di questo compito (punto 1). Dal punto di vista concettuale, l’avvocato generale evidenzia come, già a partire dalla sua formulazione, la teoria dell’acte clair proponesse una mescolanza di elementi soggettivi e oggettivi. Se da un lato, infatti, era il convincimento personale del giudice del rinvio a dover escludere la sussistenza di qualsivoglia dubbio interpretativo del diritto dell’Unione, dall’altro lato si richiedeva che lo stesso tipo di “chiarezza” potesse riscontrarsi, uguale, nell’intero ordinamento dell’Unione (punti 89-98). Secondo l’avvocato generale Bobek, questo tipo di costruzione non poteva che produrre effetti distorsivi anche nella prassi applicativa: le conclusioni insistono sul fatto che, se i criteri CILFIT avessero dovuto essere applicati con il massimo rigore, ogni giudice di ultima istanza avrebbe dovuto, per potersi liberare dall’obbligo di rinvio, compiere una verifica dell’interpretazione della norma rilevante in ciascuna delle sue versioni linguistiche e presso tutti gli altri giudici dell’Unione (punti 99-110). Il risultato di questo approccio è, nel ragionamento dell’avvocato generale, che tale condizione (e con essa la sentenza CILFIT) sia stata spesso richiamata ma mai veramente applicata, in quanto per se inapplicabile (spec. punto 103, punto 105 e punto 128).

Da siffatte critiche deriva, quindi, la proposta di una revisione completa delle condizioni di esenzione dall’obbligo di rinvio, riformulate in modo da renderle – a detta dell’avvocato generale – più applicabili da parte del giudice nazionale e concettualmente più adatte a quello che sembra essere inteso come il “nuovo ruolo” del rinvio pregiudiziale nell’ordinamento dell’Unione (punti 131-165). Nello specifico, la proposta prevede che il giudice di ultima istanza debba effettuare il rinvio «purché la causa sollevi (i) una questione generale di interpretazione del diritto dell’Unione […]; (ii) su cui esistono oggettivamente più interpretazioni ragionevolmente possibili; (iii) per la quale la risposta non può essere dedotta dalla giurisprudenza esistente della Corte (o riguardo alla quale il giudice del rinvio intende discostarsi da tale giurisprudenza)» (punto 134).

Immediata attenzione va posta al totale abbandono della visione del rinvio pregiudiziale come strumentale alla risoluzione di singole controversie. Le conclusioni in esame, in effetti, rivendicano con convinzione questo aspetto, ponendolo in correlazione con una pretesa evoluzione del meccanismo ex art. 267 TFUE quanto alla sua finalità (punti 122-128). Secondo l’avvocato generale Bobek, se inizialmente il rinvio presupponeva una collaborazione paritetica tra giudice nazionale e Corte di giustizia nell’interpretazione e applicazione, al caso specifico, di un diritto “nuovo” e poco conosciuto, oggi esso si sarebbe evoluto in uno strumento a valenza sistematica, quasi pubblicistica, il cui scopo preminente sarebbe quello di garantire, attraverso un rapporto di tipo pseudo-gerarchico, l’uniformità giurisprudenziale generale nell’intero ordinamento dell’Unione (spec. punto 124). È proprio questa evoluzione, nel pensiero dell’avvocato generale, a giustificare un riassetto dell’obbligo di rinvio in chiave generale e non più attenta alla singola controversia: e tuttavia, questo medesimo riassetto pare anche uno dei punti più delicati della proposta in questione. Ci si potrebbe chiedere, infatti, se l’originalità del rinvio pregiudiziale non stia proprio nella sua capacità di contemperare, da un lato, l’esigenza generale di uniformità del diritto dell’Unione e, dall’altro, la possibilità per una Corte di giustizia sempre più “costituzionale” di riservarsi un intervento importante nel momento di “erogazione” al singolo della tutela giurisdizionale concreta, garantita anche dall’ordinamento dell’Unione. E, d’altronde, è importante ricordare quanta parte del processo di integrazione europea sia passata proprio dall’utilizzo “puntuale” del rinvio pregiudiziale; ovvero, quanto la Corte, di concerto con i giudici nazionali, sia riuscita a conferire diritti “europei” ai singoli, proprio grazie al rinvio pregiudiziale, nel contesto di questioni magari poco rilevanti in un’ottica di sistema, ma altamente impattanti sulla vita di piccole comunità territoriali (si pensi all’uso della lingua tedesca nei concorsi pubblici a Bolzano, causa Angonese) o comunità professionali (si pensi alle guide turistiche elleniche, causa Syndesmos, o al riconoscimento delle ferie nel settore dell’edilizia, con la causa Finalarte).

Un ulteriore rilievo può evidenziare come la proposta avanzata dall’avvocato generale Bobek provveda a un completo rovesciamento del paradigma finora adottato dalla Corte. Mentre i c.d. criteri CILFIT, posta l’esistenza dell’obbligo di rinvio, ne formulano le esenzioni “in negativo” (vale a dire, individuano i casi in cui l’obbligo non sussiste), il modello qui suggerito prevede le condizioni di esistenza dell’obbligo “in positivo”, utilizzando la mancanza di almeno una tra queste stesse condizioni come eccezione (spec. punto 135). Lungi dall’essere una mera differenza formale, questo rovesciamento di paradigma corrisponde invece all’invocazione, da parte dell’avvocato generale, di una nuova disciplina del rapporto tra il giudice “comunitario” e i giudici nazionali, dettata anche da esigenze organizzative sempre più pressanti per la Corte di giustizia. Il modello consigliato nelle conclusioni in esame sembra orientato, infatti, a investire il giudice nazionale di un ruolo ben più responsabilizzato, in cui sia egli stesso a dover determinare positivamente la sussistenza dell’obbligo di rinvio e in cui, in ottica speculare, il medesimo giudice sia in grado di giustificare l’assenza di almeno una delle condizioni e la conseguente esenzione dall’obbligo (punti 145-148). Diviene chiaro, dunque, che si invita la Corte a promuovere un nuovo rapporto con i giudici di ultima istanza i quali, a fronte di un maggior utilizzo della disapplicazione di norme interne non conformi al diritto dell’Unione, dovrebbero avvalersi del rinvio pregiudiziale nei soli casi in cui si profili una questione di portata generale (spec. punto 148). Siffatto risultato, nelle argomentazioni dell’avvocato generale Bobek, dovrebbe essere soprattutto funzionale a una notevole riduzione del carico di lavoro della Corte (spec. punto 122), attualmente gravato – va riconosciuto – da una mole sempre crescente di rinvii (come evidenziato anche nella Relazione annuale del 2019, l’ultima disponibile, che registra 641 domande pregiudiziali su un totale di 966 cause promosse dinanzi alla Corte).

Affrontare il problema dell’elevato numero di rinvii pregiudiziali è sicuramente un compito che, se non lo è già oggi, potrebbe in futuro diventare ineludibile. Tuttavia, è essenziale che tale questione venga affrontata bilanciandola con altre considerazioni di pari rilievo. Anzitutto, è probabile che uno dei fattori del successo dei c.d. criteri CILFIT sia stata proprio la loro considerevole elasticità, tanto sul versante della Corte di giustizia quanto su quello dei giudici nazionali. In secondo luogo, come anche da insegnamenti della stessa Corte (v. Corte giust., 18 dicembre 2014, parere 2/13, Adhésion de l’Union à la CEDH, ECLI:EU:C:2014:2454, punto 176; Corte giust., 26 marzo 2020, causa C-558/18, Miasto Łowicz), non deve essere tralasciato, a favore della sola volontà innovativa, il forte contributo di tale strumento nel garantire uniformità al diritto dell’Unione passando, molto spesso, attraverso controversie non certo (apparentemente) di ampio respiro.


facebooktwittergoogle_plusmailfacebooktwittergoogle_plusmail