Una questione istituzionale finora mai affrontata: il regime applicabile alle misure di esecuzione degli atti del vecchio “terzo pilastro”
Con due diverse sentenze, rese rispettivamente nella causa C-540/13 e nelle cause riunite C-317/13 e C-679/13, in data 16 aprile 2015, la Corte di Giustizia, si è pronunciata su di una «questione istituzionale mai affrontata prima» e di «indubbia portata costituzionale» (cfr. conclusioni dell’avvocato generale Nils Wahl presentate il 22 gennaio 2015 per tutti e tre i procedimenti) avente ad oggetto la ripartizione delle competenze tra Parlamento europeo (PE) e Consiglio nell’adozione di misure di esecuzione di atti elaborati ante Lisbona nel settore della cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale, ovvero nell’ambito del c.d. (ormai abrogato) «terzo pilastro».
Con i ricorsi di seguito analizzati, promossi ex art. 263 TFUE, il PE ha infatti rivendicato il suo coinvolgimento nella procedura decisionale di adozione di tali misure, chiedendo l’annullamento degli atti adottati dal Consiglio senza la sua partecipazione.
La Corte di Giustizia è stata, dunque, chiamata a chiarire se il regime transitorio applicabile agli atti del vecchio «terzo pilastro» (previsto dall’art. 9 del protocollo n. 36 allegato dal trattato di Lisbona al TUE e al TFUE) – che, come vedremo, presenta caratteristiche peculiari rispetto ai tradizionali regimi transitori – sia suscettibile di estendersi anche alle misure di esecuzione dei medesimi, con la conseguenza – in tal caso – di mantenere, in deroga alle previsioni del trattato di Lisbona, la previgente ripartizione di competenze tra Consiglio e PE , di fatto preservando un “area” del diritto dell’Unione europea inalterata rispetto ai cambiamenti dei processi decisionali intervenuti a far corso dal 1° dicembre 2009.
Premessa. Le basi giuridiche per l’adozione degli atti del «vecchio» terzo pilastro.
Come noto, l’abolizione della struttura in “pilastri” dell’Unione europea (UE) – per effetto dell’entrata in vigore del trattato di Lisbona – ha permesso l’estensione delle procedure legislative ordinarie anche agli atti adottati in materia di cooperazione di polizia e giudiziaria penale, ponendo fine all’impostazione intergovernativa che ha contraddistinto lo sviluppo di tale “delicato” settore.
La costruzione dell’UE sotto forma di “tempio a tre colonne” – realizzata dal trattato di Maastricht – aveva, infatti, rappresentato una “sintesi” politica incompiuta e reso evidenti tutti i limiti del processo di integrazione politica tra i dodici Stati allora membri. La predetta struttura era stata concepita al fine di consentire il permanere di un regime differenziato per gli atti adottati dalle istituzioni nel settore «giustizia affari interni» (GAI) che, all’epoca, ricomprendeva, oltre alla materia della cooperazione di polizia e giudiziaria penale, anche la materia della cooperazione giudiziaria civile e quella relativa a visti, asilo ed immigrazione. L’applicazione di tale regime differenziato si ispirava alla volontà degli Stati membri di diversificare le competenze ed i poteri riconosciuti alle istituzioni dell’UE nei predetti ambiti di intervento dalle prerogative (ben più stringenti) esercitabili nelle materie appartenenti al c.d. pilastro “comunitario”. La scelta mirava, infatti, a riservare al metodo della concertazione politica l’assunzione delle decisioni in tali materie, tradizionalmente appartenenti al nucleo della sovranità statuale.
Rispetto alle previsioni contenute nel trattato di Maastricht, il trattato di Amsterdam ha operato una prima revisione dei processi decisionali: esso ha infatti attribuito alle istituzioni un ruolo di maggiore incisività, benché ancora limitato, nell’ambito di tale “pilastro”, nel mentre ribattezzato «cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale» (COPEN), in quanto svuotato delle ulteriori materie sopra indicate, trasferite nel pilastro “comunitario”.
Per ciò che qui interessa, dall’entrata in vigore del trattato di Amsterdam sino all’abolizione della struttura in pilastri, il regime applicabile agli atti rientranti nel sistema Copen ha trovato la sua collocazione nel titolo VI del TUE versione pre-Lisbona. Il regime ivi descritto si discostava da quello relativo agli atti del pilastro comunitario, principalmente, ma non solo, per la natura degli atti adottabili: posizioni comuni, decisioni-quadro, decisioni e convenzioni, in luogo di regolamenti, direttive e decisioni (cfr. art. 34, par. 2, lettere a, b, c, d).
L’art. 34, par. 1, inoltre, escludeva per l’adozione dei predetti atti il ricorso all’ordinaria procedura di codecisione, imponendo la formazione dell’unanimità in seno al Consiglio, salvo solo l’obbligo di previa informazione e consultazione del PE (art. 39 TUE pre-Lisbona). Fatta eccezione per il Consiglio, dunque, le altre istituzioni godevano di prerogative limitate rispetto a quelle loro conferite nel pilastro “comunitario”.
I termini del problema: l’interpretazione dell’art. 9 del protocollo n. 36 allegato al TUE e al TFUE.
Come anticipato, l’abolizione della “architettura a pilastri” non è stata accompagnata dalla cessazione degli effetti giuridici degli atti adottati ante Lisbona nell’ambito del vecchio terzo pilastro.
L’articolo 9 del protocollo n. 36 allegato al trattato di Lisbona ha infatti introdotto un apposito regime transitorio, il quale presenta tratti peculiari.
In particolare, la cessazione degli effetti giuridici degli atti adottati sotto il previgente regime non è collegata allo spirare di un alcun termine prestabilito: gli atti adottati sulla base giuridica del vecchio art. 34 TUE conservano i loro effetti fino a che «non saranno stati abrogati, annullati o modificati in applicazione dei trattati» (corsivo aggiunto) e, dunque, sino a quando non saranno oggetto di un’apposita revisione o abrogazione per effetto delle procedure legislative attualmente in vigore in base alle previsioni di cui al TFUE. D’altronde, è evidente che l’immediata cessazione degli effetti giuridici avrebbe comportato “drammatiche” conseguenze sul piano dei rapporti di cooperazione giudiziaria tra Stati membri, imponendo alle istituzioni una impensabile “frettolosa” sostituzione degli atti in vigore, ed in mancanza di interventi siffatti, pericolosi vuoti legislativi.
A tal fine le azioni dell’Unione europea in tale settore, per modificare le misure elaborate ex art. 34 TUE pre-Lisbona, troveranno base giuridica agli artt. 82 ss. TFUE. Per completezza è opportuno precisare che, sempre per effetto delle modifiche apportate dal trattato di Lisbona, il TFUE prevede attualmente, per l’adozione di misure di attuative e/o dettaglio degli atti legislativi dell’Unione, il ricorso alla categoria degli atti non legislativi e precisamente degli atti delegati (art. 290 TFUE) e degli atti di esecuzione (art. 291 TFUE).
Tuttavia, il tenore letterale dell’art. 9 protocollo 36 non consente di chiarire se le misure di esecuzione degli atti adottati nell’ambito del vecchio terzo pilastro debbano essere adottate conformemente alle nuove procedure legislative o non legislative summenzionate, ovvero se, trattandosi di atti di esecuzione di misure pre-Lisbona, sopravviva rispetto ad essi la procedura prevista dal vecchio regime. Questa è la questione su cui la Corte di Giustizia è stata chiamata a pronunciarsi nei ricorsi promossi dal PE nella causa C-540/13 e nelle cause riunite C-317/13 e C-679/1.
Le decisioni impugnate
I procedimenti considerati, per quanto diversi nei presupposti, condividono la natura dell’atto oggetto del ricorso di annullamento, ovvero una misura di esecuzione di un atto di cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale adottato sotto il regime del vecchio terzo pilastro.
Nello specifico, nella causa C-540/13 si controverteva sulla legittimità della decisione 2013/392/UE del Consiglio del 22 luglio 2013, relativa alla «data di decorrenza degli effetti della decisione 2008/633/GAI relativa all’accesso per la consultazione al sistema di informazione visti (VIS) da parte delle autorità designate degli Stati membri e di Europol ai fini della prevenzione, dell’individuazione e dell’investigazione di reati di terrorismo e altri reati gravi» (corsivo aggiunto). Tale decisione era stata adottata dal Consiglio il 22 luglio 2013 al fine di rendere operativa, per le autorità designate degli Stati membri e per Europol, la possibilità – prevista dalla precedente decisione 2008/633/GAI – di accedere al sistema di informazione visti (VIS), oltre che per le finalità previste dal regolamento (CE) n. 767/2008 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 9 luglio 2008, anche ai fini della «prevenzione, dell’individuazione e dell’investigazione di reati di terrorismo e altri reati gravi».
Originariamente, infatti, l’utilizzabilità del sistema VIS era stata pensata per il solo scambio di informazioni o dati tra Stati membri in ordine alle domande di visto e alle relative decisioni, essenzialmente ai fini dell’applicabilità dei criteri di competenza del regolamento Dublino II in materia di diritto di asilo ed ai fini di forme di cooperazione giudiziaria civile. Entrambe le materie erano confluite – per effetto delle modifiche apportate dal trattato di Amsterdam – nel pilastro “comunitario” e, per tale ragione, la disciplina del sistema VIS aveva trovato la propria base giuridica negli artt. 63, par. 2, lett. b), e 66 CE che aveva consentito la possibilità di ricorrere allo strumento del regolamento (il regolamento (CE) n. 767/2008, per l’appunto).
Tuttavia, l’esigenza di istituire autonome procedure di consultazione del sistema VIS per scopi di prevenzione antiterrorismo e per contrastare altre fattispecie di criminalità grave, aveva reso necessario – nel sistema pre-Lisbona – ricorrere ad una apposita base giuridica, a norma del titolo VI del trattato, per autorizzare l’intervento delle autorità nazionali ed Europol. Pertanto, il Consiglio, deliberando all’unanimità, secondo la procedura prevista dall’art. 30, par. 1, lett. b), TUE pre-Lisbona, ed utilizzando lo strumento individuato dall’art. 34, par. 2, lett. c), aveva adottato la menzionata decisione 2008/633/GAI.
Essendo, tuttavia, l’operatività delle procedure di accesso al sistema VIS subordinata alla piena applicabilità del regolamento (CE) n. 767/2008, la decisione 2008/633/GAI aveva previsto contestualmente che la decorrenza degli effetti rimanesse sospesa sino alla «data che sarà fissata dal Consiglio dopo che la Commissione avrà comunicato al Consiglio che il Regolamento è entrato in vigore ed è applicabile»(corsivo aggiunto).A fronte della comunicazione della Commissione del 2 luglio 2013 per cui «il regolamento (CE) n. 767/2008 è entrato in vigore ed è applicabile a decorrere dal 27 settembre 2011» (corsivo aggiunto), il Consiglio ha adottato la decisione 2013/392/UE, richiamando quale base giuridica del predetto atto genericamente il TFUE nonché l’art. 18, par. 2, della decisione 2008/663/GAI.
Quanto, invece, alle cause riunite C-317/13 e C-679/1, basti ricordare che sono state oggetto di impugnazione da parte del PE la decisione 2013/129/UE del Consiglio, del 7 marzo 2013, che sottopone a misure di controllo la 4‑metilanfetamina e la decisione di esecuzione 2013/496/UE del Consiglio, del 7 ottobre 2013, che sottopone a misure di controllo il 5‑(2‑amminopropil)indolo, entrambe recanti quale base giuridica di diritto derivato l’art. 8, par. 3, della precedente decisione 2005/387/GAI del 10 maggio 2005, relativa allo scambio di informazioni, alla valutazione dei rischi e al controllo delle nuove sostanze psicoattive.
Sul motivo di annullamento attinente alla scelta di una base giuridica abrogata
Il PE ha sostenuto l’illegittimità delle decisioni impugnate facendo valere tre differenti censure: (i) la scelta da parte del Consiglio di una base giuridica abrogata; (ii) la scelta di una base giuridica invalida; (iii) la violazione di una forma ad substantiam a causa della sua mancata partecipazione alla procedura d’adozione della decisione impugnata.
In primo luogo, stando alle argomentazioni sollevate dal PE, la scelta da parte del Consiglio del fondamento giuridico degli atti impugnati sarebbe ricaduta alternativamente (i) su di una base giuridica «abrogata» (il vecchio articolo 34, par. 2, lett. c) UE, in luogo che sulla nuova base giuridica prevista dal trattato di Lisbona) e, come tale, inidonea a sorreggere l’adozione di alcun atto, ovvero (ii) su di una base giuridica di diritto derivato (l’art. 18, par. 2, della decisione 2008/633/UE e l’art. 8, par. 3, della decisione 2005/387/GAI) e, come tale, «incompatibile con i trattati» nella misura in cui, come nel caso di specie, «semplifichi le modalità di adozione di un atto» (Parlamento c. Consiglio, C-133/06, punti da 54 a 56.)
In relazione alla prima di tali deduzioni, il Consiglio ha precisato di non aver fatto riferimento«né al Trattato UE, in generale, né all’articolo 34, paragrafo 2, lettera c), UE, in particolare» (corsivo aggiunto), bensì di aver adottato le decisioni impugnate, rispettivamente, sul fondamento dell’articolo 18, paragrafo 2, della decisione 2008/633 e dell’articolo 8, paragrafo 3, della decisione 2005/387, in entrambi i casi «in combinato disposto con l’articolo 9 del Protocollo (n. 36) sulle disposizioni transitorie» (corsivo aggiunto, punti 16, causa C-540/13; punto 25, cause riunite C-317/13 e C-679/13).
Al fine di individuare la base giuridica prescelta, la Cortedi giustizia ha fatto applicazione della propria costante giurisprudenza (Commissione c. Consiglio, C‑370/07, punti 39 e 55). Anzitutto, sulla scorta del dato testuale della decisione impugnata, «che, per soddisfare l’obbligo di motivazione, deve indicare in linea di principio la base giuridica su cui questa è fondata» (corsivo aggiunto), la Corte ha rilevato ildifetto di espresso riferimento all’art. 34, par. 2, lett c), TUE pre-Lisbona (punto 29, cause riunite C-317/13 e C-679/13 e punto 19, causa C-540/13). Anche avuto riguardo agli elementi desumibili dall’atto di cui trattasi, la Corte ha negato che possa sostenersi la tesi per cui il Consiglio abbia agito su di una base giuridica abrogata (punto 30, cause riunite C-317/13 e C-679/13 e punto 20, causa C-540/13).
L’espressa menzione degli artt. 8, par. 3, e 18, par. 2, infine, non ha condotto ad accogliere l’eccezione del PE per cui il generico riferimento al TFUE contenuto nelle decisioni impugnate sarebbe stato foriero di incertezza giuridica. Sul punto, l’avvocato generale sottolinea, in aggiunta a quanto affermato dalla Corte, che anche un eventuale espresso richiamo all’art. 9 del protocollo n. 36 sarebbe comunque risultato di dubbia utilità, in quanto nessuna altra base giuridica avrebbe potuto essere utilizzata a fondamento dell’intervento del Consiglio (cfr. punto 64 delle citate conclusioni riunite).
Sul motivo di annullamento relativo alla scelta di una base giuridica invalida
La Corte ha quindi esaminato la censura – proposta dal PE in subordine – per cui il Consiglio non avrebbe potuto validamente fondare le decisioni impugnate neppure sugli artt. 18, par. 2, della decisione 2008/633/GAI e 8, par. 3, della decisione 2005/387/GAI e questo per due ordini di ragioni: (a) in quanto le citate disposizioni non imporrebbero la consultazione del Parlamento, in deroga all’art. 39 TUE pre-Lisbona; (b) e, comunque, in quanto la possibilità di elaborare misure “di esecuzione” a seguito dell’entrata in vigore del trattato di Lisbona deve considerarsi rimessa alle procedure da quest’ultimo introdotte. Sotto entrambi i profili, la scelta del Consiglio comporterebbe – ad opinione del PE – una semplificazione delle procedure previste dai trattati.
Entrando nel merito della prima questione, (a) la Corte ha negato la correttezza dell’asserzione del PE secondo cui la scelta di una base giuridica “derivata” avrebbe l’effetto di derogare alle procedure previste per l’adozione dell’atto “di base”. Di fatti, il riferimento contenuto nelle decisioni impugnate – rispettivamente, agli artt. 18, par. 2, della decisione 2008/633/GAI e 8, par. 3, della decisione 2005/387 – certamente non può essere inteso nel senso di applicare alle decisioni in parola una procedura sui generis, diversa da quella imposta dai trattati e da individuarsi, invece, avuto riguardo «alla situazione di fatto e di diritto esistente al momento in cui tale atto è stato adottato» (nel caso di specie, la procedura di cui all’art. 39 TUE pre-Lisbona). Sotto questo profilo, pertanto, la base giuridica prescelta non risulta (di per sé) invalida. E’ piuttosto suscettibile di incidere sul rispetto delle forme sostanziali, come vedremo nel prosieguo.
Ancora, secondo gli argomenti proposti dal PE, la scelta di utilizzare come base giuridica i predetti atti di diritto derivato avrebbe comportato l’effetto di sottrarre l’adozione della decisione alla procedura introdotta con le modifiche del trattato di Lisbona. Secondo l’interpretazione offerta dal PE, infatti, l’art. 9 del protocollo n. 36 dovrebbe essere letto unicamente nel senso che «gli atti del terzo pilastro non siano automaticamente abrogati dall’entrata in vigore del suddetto trattato» (corsivo aggiunto), non invece nel senso di ammettere l’ultrattività del regime previgente anche per l’adozione delle misure di esecuzione degli atti già elaborati.
Di contro, per il Consiglio l’interpretazione offerta dal PE contrasterebbe con la ratio sottesa alla previsione di tale regime transitorio, introdotto al fine di scongiurare la paralisi nell’adozione di misure di esecuzione per gli atti adottati sotto il previgente regime del terzo pilastro.
Per l’avvocato generale non vi sono elementi che prima facie escludano l’interpretazione offerta dall’una o dall’altra istituzione. Tuttavia, la ratio del regime transitorio, letta unitamente alla mancata previsione di un termine perentorio per procedere alla sostituzione degli atti elaborati ante Lisbona, lascerebbe intendere che «l’armoniosa transizione verso il nuovo quadro giuridico» debba realizzarsi nel rispetto delle tempistiche e della “maturazione” politica degli Stati. Proprio in tale prospettiva, il medesimo ritiene degna di considerazione l’argomentazione proposta dal Consiglio che paventa, per il caso di accoglimento dell’interpretazione offerta dal PE, il rischio di una paralisi degli atti adottati ante-Lisbona che richiedono un costante aggiornamento per poter assolvere le proprie funzioni. L’unica valida argomentazione sostenuta dal PE, che avrebbe probabilmente consentito di leggere in un’ottica diversa le decisioni impugnate, ma che non è stata (anche a detta dell’avvocato generale) adeguatamente sviluppata è il fatto che queste ultime possano costituire una “modifica” delle decisioni di base, ai sensi dell’art. 9 del protocollo medesimo. Anche tale esegesi sarebbe, tuttavia, da escludersi in quanto entrambe le decisioni impugnate non sarebbero espressione di una decisione “politica” di istituire un nuovo meccanismo di scambio di informazioni, relativamente alle sostanze psicoattive, o a fini di prevenzione di reati terroristici, ma consentono unicamente l’attuazione di decisioni politiche già assunte.
Con una motivazione ben più sintetica, ma di fatto in linea (quanto meno sul punto) con le conclusioni presentate dall’avvocato generale, la Corte di Giustizia ha accolto la soluzione esegetica relativa all’art. 9 del protocollo n. 36 offerta dal Consiglio, precisando che la norma debba essere interpretata – alla luce del primo considerando del protocollo medesimo – nel senso che «esso mira ad assicurare che gli atti adottati nel contesto [della cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale] possano continuare ad essere applicati in modo efficace, nonostante la modifica della cornice istituzionale» (corsivo aggiunto).Viceversa, la disposizione sarebbe privata del proprio effetto utile e renderebbe impossibile l’adozione di misure di esecuzione prima che gli atti generali adottati nell’ambito di tale cooperazione siano stati modificati (ai punti 54, cause riunite, e punto 46, causa C-540/13).
Sulla violazione di forme sostanziali.
Pur accogliendo l’interpretazione offerta dal Consiglio, il giudizio espresso dalla Corte si è, da ultimo, risolto proprio nell’annullamento delle decisioni impugnate.
L’esito del giudizio è, tuttavia, solo in apparente antitesi con le considerazioni sopra espresse: è stato, infatti accertato che il Consiglio avesse agito, nell’adozione di entrambe le decisioni impugnate, in violazione della procedura di consultazione del PE prevista dall’art. 39 TUE pre-Lisbona. Per tale ragione, i giudici di Lussemburgo hanno ritenuto dovesse trovare accoglimento la domanda di annullamento del PE sul presupposto dell’intervenuta violazione delle forme sostanziali.
La decisione della Corte appare più coerente di quella proposta dall’avvocato generale sul punto, il quale ha, al contrario, concluso che «le decisioni di esecuzione adottate sulla doppia base di atti del terzo pilastro e dell’art. 9 del protocollo n. 36 costituiscono, in via temporanea, uno speciale tipo di misura la cui adozione non richiede il coinvolgimento del Parlamento» (corsivo aggiunto, punto 75 delle conclusioni riunite).
Conclusioni
Come premesso, le pronunce rese dalla Corte di Giustizia all’esito dei procedimenti in parola rivestono un’indubbia portata costituzionale, avendo operato un bilanciamento tra il principio del rispetto dell’equilibrio interistituzionale ed il principio dell’effetto utile degli atti adottati nell’ambito del vecchio terzo pilastro, che si è risolto nella prevalenza di quest’ultimo. Sebbene infatti – nel caso di specie – la pronuncia abbia condotto all’accoglimento dei ricorsi promossi dal PE ed all’annullamento delle decisioni impugnate, il principio espresso in questa sede andrà – almeno per il futuro – a beneficio delle prerogative del Consiglio.
Ad opinione di alcuni commentatori le annotate pronunce costituiscono in un certo senso una«reasonable legal interpretation of the transitional rules», ma occorre interrogarsi sui possibili effetti di questi atti che sono stati provocatoriamente definiti «baby zombies». (in tal senso, S. Peers, EU Zombie Law: the CJEU re-animates the old ‘third pillar).
Anzitutto, il principale rilievo che deve essere mosso rispetto all’ultrattività del regime pre Lisbona è evidentemente la carenza di legittimazione democratica degli atti adottati sul fondamento delle previgenti procedure decisionali, a causa del più limitato coinvolgimento del PE. Tale rilievo, peraltro, assume un peso maggiore se si considera la natura “penale” di tali atti giuridici.
Dal 1° dicembre 2009, d’altro canto, gli Stati membri hanno provveduto a sostituire e/o modificare soltanto in minima parte gli atti adottati ante Lisbona (cfr. in questa rivista, C. Amalfitano). E’, quindi, lecito temere che la consacrazione di tale regime “fantasma” possa disincentivare i rappresentanti degli Stati a livello ministeriale riuniti in Consiglio dal ricorrere alle nuove procedure decisionali, finendo per contravvenire all’impegno assunto con la dichiarazione n. 50 allegata all’atto finale della conferenza intergovernativa che ha adottato il trattato di Lisbona, che ha invitato PE, Consiglio e Commissione, nell’ambito delle rispettive attribuzioni, ad adoperarsi per adottare – per quanto possibile entro il termine di cinque anni – atti modificativi e/o sostitutivi degli atti elaborati ante Lisbona.
A destare qualche perplessità è, tuttavia, il silenzio della Corte di Giustizia sull’eccezione – sollevata dal Consiglio – di irricevibilità delle domande con cui il PE contesta la legittimità delle basi giuridiche di diritto derivato delle decisioni impugnate, sul presupposto che – in forza delle disposizioni transitorie di cui all’art. 10 parr. 1-3, protocollo n. 36 – le attribuzioni della Corte concernenti la legittimità di atti del vecchio terzo pilastro (che non siano nel mentre oggetto di modifica) restano, fino al 1° dicembre 2014, le stesse sussistenti prima dell’entrata in vigore del trattato di Lisbona e, a tale stregua, non sarebbe ravvisabile una competenza di quest’ultima istituzione, ex art. 35, par. 6, TUE pre-Lisbona.
Avendo la Corte deciso nel senso di ritenere che il regime transitorio di cui all’art. 9, protocollo n. 36 si estende anche alle misure di esecuzione degli atti del “vecchio” terzo pilastro, tale eccezione avrebbe forse meritato una qualche ulteriore considerazione. Risulta, infatti, quanto meno discutibile se il regime transitorio relativo alla competenza giurisdizionale non si estenda, anch’esso, alle misure di esecuzione degli atti del vecchio terzo pilastro.
In caso di risposta affermativa, se è vero che il regime transitorio di cui all’art. 10, parr. 1-3, protocollo n. 36 – che assicurava anche post Lisbona l’esclusione della competenza della Corte di Giustizia a valutare la legittimità degli atti del terzo pilastro (che non fossero stati nel mentre, come detto, oggetto di modifica) – è cessato definitivamente il 1° dicembre 2014 (cfr. C. Amalfitano, cit. e S. Montaldo), pare altrettanto vero che la Corte avrebbe dovuto valutare la propria competenza avendo riguardo alla data di proposizione del ricorso (7 giugno e 15 ottobre e 19 dicembre 2013), precedente alla scadenza del regime transitorio e, dunque, accogliere l’eccezione del Consiglio. Tale considerazione è valida ovviamente a meno di ritenere che il regime transitorio relativo alla competenza giurisdizionale della Corte fosse concepito unicamente per la procedura di infrazione ed il rinvio pregiudiziale e non anche per il ricorso di annullamento (cfr. C. Amalfitano, cit.).
Ci si potrebbe quindi chiedere se la Corte abbia adottato “due pesi e due misure” nell’interpretare le disposizioni del protocollo n. 36, andando sotto quest’ultimo profilo oltre le proprie attribuzioni, verosimilmente nell’intento (comunque ragionevole) di far sentire la propria voce su di un tema di tale “delicatezza” e portata.
In ogni caso, la questione avrebbe meritato di essere analizzata dalla Corte, eventualmente anche solo per distinguere la ratio fondante, rispettivamente, gli artt. 9 e 10 del protocollo n. 36.