Una lettera aperta… per chiudere le porte. La pressione governativa sulla Corte europea dei diritti umani per una “riforma” della giurisprudenza in materia di migrazione e controlli di frontiera
Il 22 maggio 2025 i governi italiano e danese hanno diffuso una lettera aperta volta a stimolare un dibattito pubblico politico per un’interpretazione restrittiva di alcune convenzioni internazionali sui diritti umani – e, in particolare, della CEDU – con riguardo al settore della migrazione. L’iniziativa ha raccolto il sostegno di nove Stati membri dell’Ue e del Consiglio d’Europa: oltre ai due citati Paesi promotori, il documento reca la firma dei governi di Austria, Repubblica Ceca, Lettonia, Polonia, Belgio, Estonia, Lituania.
Come si evince dalla conferenza stampa che ha preceduto la divulgazione della lettera, la tesi di fondo è quella secondo cui si sia sviluppato un regime di tutela eccessivamente generoso verso il soggetto migrante, al contempo limitando la capacità di manovra degli Stati rispetto ai controlli di frontiera e alle espulsioni. Un tale approccio di favor sarebbe ingiustificato, oltreché obsoleto, rappresentando un intollerabile intralcio per i governi, oggi chiamati a far fronte a pressanti sfide in materia di sicurezza, gestione dei flussi e contrasto all’immigrazione irregolare.
Pur non presentando un destinatario preciso, la lettera “aperta” è chiaramente indirizzata alla Corte di Strasburgo, principale “colpevole” dell’artificiale alterazione in senso espansivo del campo di applicazione della CEDU, uno strumento che ab origine intenzionalmente esclude(va) l’asilo dal novero dei diritti in esso tutelati. La lettera, pertanto, invoca una (contro)riforma della giurisprudenza in materia migratoria, così da consentire agli Stati di riconquistare gli spazi di azione “espropriati” dai giudici europei.
La reazione del Consiglio d’Europa non si è fatta attendere: il 24 maggio, il Segretario Generale ha reso nota la risposta dell’organizzazione, affermando che: “Il rispetto dell’indipendenza e dell’imparzialità della Corte è il nostro fondamento. Il dibattito è salutare, ma politicizzare la Corte non lo è. In una società governata dallo Stato di diritto, nessun organo giuridico dovrebbe subire pressioni politiche. Le istituzioni che proteggono i diritti fondamentali non possono piegarsi ai cicli politici. Se lo facessero, rischieremmo di erodere la stessa stabilità che sono state incaricate di garantire. La Corte non può essere utilizzata come arma, né contro i governi, né da parte degli stessi”. Una presa di posizione condivisibile, specialmente alla luce dell’attuale fenomeno di delegittimazione degli organismi e delle corti internazionali, volto a ridurne autorevolezza ed efficacia, incidendo sulla complessiva capacità di risolvere controversie, proteggere i diritti umani e mantenere la pace.
Lettere a Bruxelles, lettere a Strasburgo
L’epistolarismo critico in materia di migrazione non è una novità. Lettere di protesta e pressione politica sono state diffuse anche in passato dalle cancellerie delle capitali europee. Si può ricordare la lettera del 7 ottobre 2021, intitolata “adaptation of the EU legal framework to new realities”, firmata da 12 Stati membri e indirizzata alla Commissione europea chiedendo contromisure alla spinta migratoria sulle frontiere orientali, tra cui la costruzione di un “muro europeo” da finanziare con budget dell’Ue. Scambi di lettere sono frequenti anche tra ministeri e organi del Consiglio d’Europa, come il Commissario per i diritti umani (si veda, a titolo esemplificativo, la lettera di risposta del governo italiano sul rinnovo del Memorandum con la Libia per il contrasto dell’immigrazione irregolare).
La lettera in questione, però, è rivolta alla Corte europea dei diritti umani, di cui si critica apertamente l’operato, nel tentativo di forzare un cambio di rotta. Si deve sottolineare che alcuni dei governi firmatari sono direttamente coinvolti in qualità di convenuti in ricorsi pendenti davanti alla Grande Camera (H.M.M. e altri c. Lettonia, n. 42165/21; C.O.C.G. e altri c. Lituania, n. 17764/22; R.A. e altri c. Polonia, n. 42120/21). Si tratta di un contenzioso complesso e delicato, relativo a respingimenti, espulsioni collettive ed altre forme di gestione aggressiva della frontiera attuate in risposta alle pratiche di strumentalizzazione dei migranti ad opera della Bielorussia. Le affermazioni contenute nella lettera aperta sono criticabili, a maggior ragione, perché idonee a porre pressione sulla Corte a fronte di casistica sub iudice in Grande Camera.
Un invito a un dialogo, o piuttosto un monologo?
Se gli Stati intendono promuovere un dialogo con (e sul)la Corte hanno diversi canali per farlo, di natura tanto politico-diplomatica, quanto tecnico-giuridica. Anzitutto, è possibile ricorrere a conferenze, tavoli di lavoro ed incontri tematici di vario tipo. Le visite in Corte, ad esempio, sono un tipico canale di dialogo, utilizzato nel 2024 anche proprio da Italia e Danimarca. Si può notare, peraltro, che, a meno di 48 ore dall’incontro a palazzo Chigi tra i due Paesi, sull’altra sponda del Tevere, il Presidente della Corte Edu, Marko Bošnjak, si trovava in Vaticano per la prima messa di Papa Leone XIV, così come molti altri leader dei governi firmatari della lettera. Può darsi che le agende governative fossero già troppo dense di impegni per programmare un ulteriore incontro. Si può altresì notare, allora, che meno di una settimana prima del summit italo-danese, a Strasburgo si era tenuta una tavola rotonda di alto livello su asilo immigrazione, co-organizzata dalla Corte Edu, dalla Corte di giustizia dell’Ue, da associazioni di magistrati e dall’Agenzia europea per l’asilo. L’incontro verteva sul tema “recent legal developments and case-law, including issues related to the concept of safe countries and return procedures”; vale a dire, esattamente i profili di preoccupazione espressi nella lettera: sicurezza ed espulsioni. Come si evince dal comunicato della Corte, l’evento convocato per fare il punto sulla giurisprudenza in materia di migrazione costituisce una routine in essere dal 2012, il che dimostra come gli stessi giudici di Strasburgo abbiano consapevolezza dei problemi relativi al contenzioso in questo settore, nonché della necessità di coordinamento con i colleghi di Lussemburgo e degli Stati membri, al fine di promuovere la coerenza nello sviluppo giurisprudenziale.
Vi sono, poi, canali di interazione che consentono più specificamente di incidere sul contenzioso davanti alla Corte, con la possibilità di contribuire a plasmarne la giurisprudenza. L’art. 36, co. 2, CEDU, infatti, consente agli Stati di intervenire in causa con osservazioni scritte ed orali. Seppur pensata per interventi amicus curiae volti ad assicurare “l’interesse di una corretta amministrazione della giustizia”, la norma rappresenta, di fatto, uno strumento di pressione istituzionalizzata nel contenzioso di Strasburgo: la casistica in materia di immigrazione dimostra che gli Stati utilizzano frequentemente (e con successo) la via dell’intervento in causa per sollecitare la Corte (si veda, ad esempio, la decisione di inammissibilità della Grande Camera nel ricorso M.N. e altri c. Belgio, sul tema dei visti umanitari, in cui intervennero 11 Stati). Peraltro, pur nella diversità dei meccanismi di contenzioso, un fenomeno analogo si riscontra anche alla Corte di giustizia dell’Ue (cfr., sempre in tema di visto umanitario, X e X c. Belgio: 14 Stati membri interventi; ovvero, le cause riunite e pendenti Alace e Canpelli, sulla nozione di Paese di origine sicuro: 17 Stati membri intervenuti). A Strasburgo, oltre all’istituto dell’intervento di terzo, operante ex ante, il sistema prevede forme di partecipazione ex post, vale a dire, nella fase successiva alla pronuncia della Corte, segnatamente nella fase di monitoraggio della sua esecuzione davanti al Comitato dei Ministri: organo politico a composizione ministeriale, con cui gli Stati hanno uno spazio di interazione nel quale potenzialmente orientare gli effetti della giurisprudenza.
Riforme e controriforme
Nella lettera i governi lamentano troppi vincoli nell’esercizio del potere espulsivo statale. Come affermato dal Primo ministro danese, “it is simply too difficult for us to expel criminal foreign nationals” (conferenza stampa, al minuto 12:58). Da un lato, si direbbe il contrario, a giudicare, ad esempio, dalla facilità con cui il governo italiano ha rimpatriato Osama Elmasry Njeem, cittadino libico accusato di crimini di guerra e contro l’umanità destinatario di un mandato di arresto internazionale (su tale clamorosa vicenda, v. Gavrysh). Dall’altro, le difficoltà rispetto alle espulsioni, se vi sono, risiedono piuttosto in problemi di carattere amministrativo, logistico, di efficiente impiego delle risorse e di efficace coordinamento tra le competenti autorità nazionali. Non si tratta, certo, di problematiche di natura giuridica-interpretativa rispetto alla CEDU.
Per una conferma, è sufficiente uno sguardo alla giurisprudenza della Corte in materia dal 2015 in avanti: Khlaifia e altri c. Italia (legittimità di rimpatri informali fast-track senza colloquio individuale, in base all’intesa bilaterale, non pubblica, tra Italia e Tunisia); N.D. e N.T. c. Spagna (legittimità del push-back immediato in frontiera a fronte della “condotta colposa” dei ricorrenti); Asady c. Slovacchia (ammissibilità dell’espulsione collettiva a seguito di colloquio standardizzato, con domande uguali a risposta si/no, della durata di 10 minuti, senza assistenza linguistica); A.A. e altri c. Macedonia del Nord (legittimità dell’espulsione collettiva anche in caso di comportamento non violento dei ricorrenti). Peraltro, proprio poche settimane prima della lettera aperta, lo Stato italiano aveva riportato una vittoria nel ricorso Mansouri c. Italia, relativo all’espulsione di un ricorrente tunisino a bordo di una nave privata, dismesso dalla Grande Camera con una decisione di inammissibilità (per un commento, v. Acconciamessa).
Non sembra, insomma, potersi riscontrare una giurisprudenza in materia di espulsione propriamente improntata a un favor verso il migrante, tutt’altro. Ma, allora, cosa vogliono ottenere gli Stati? Verosimilmente il riconoscimento, consacrato in via giurisprudenziale, anche del diritto incondizionato di respingere in caso di minacce alla sicurezza, come in ipotesi di strumentalizzazione dei migranti, attacchi ibridi e atti ostili di pressione sulla frontiera. Non si tratta di un’aspirazione esclusiva degli Esecutivi nazionali: la Commissione europea, in una Comunicazione del dicembre 2024, aveva “suggerito” agli Stati membri possibili argomentazioni legittimanti deroghe ai divieti di respingimento ed espulsione collettiva di stranieri, indicando, tra le “basi giuridiche”, proprio la recente giurisprudenza di Strasburgo (in argomento v. Thym).
Nella citata comunicazione, la Commissione affermava anche che “il contesto della sicurezza dell’Unione europea è cambiato radicalmente rispetto al momento in cui sono stati adottati i pertinenti strumenti di diritto internazionale, e potrebbe essere necessario tenerne conto nella loro applicazione”. La lettera aperta dei governi, analogamente, invoca la necessità di una “discussion about how the international conventions match the challenges that we face today”, considerando che, come affermato dal Premier danese, “the current system for asylum has been broken” (conferenza stampa, al minuto 10:46).
Appare evidente che per i governi è urgente un ripensamento del regime di tutela dei diritti umani dei migranti delineato dagli strumenti internazionali vigenti. La sensazione è quella di trovarsi a un punto di svolta, che richiede un’attenta riflessione. Del resto, la stessa Corte di Strasburgo intende la CEDU come “living instrument” da interpretare ed applicare alla luce delle esigenze e delle sfide attuali. Ben vengano, dunque, le discussioni sull’evoluzione della giurisprudenza: purché siano fatte in modo corretto, leale e costruttivo.