Sviluppi (imminenti?) e criticità nella politica europea degli investimenti: il caso relativo all’Accordo di libero scambio con Singapore e spunti dalle vicende relative al caso Micula
1. La politica europea degli investimenti: stato dei negoziati conclusi e in corso.
A valle delle modifiche introdotte dal Trattato di Lisbona agli odierni artt. 206 e 207 TFUE (già artt. 131 e 133 TCE), la politica commerciale comune dell’Unione europea estende oggi il suo ambito di applicazione alla disciplina degli investimenti esteri diretti. Benché la nozione di investimento estero diretto non sia definita dai Trattati, si conviene generalmente che questa espressione riguardi «qualunque investimento estero che serva a stabilire collegamenti durevoli e diretti con l’impresa a disposizione della quale viene messo il capitale necessario a realizzare un’attività economica» (COM(2010)343), contrapponendosi tale definizione a quella di c.d. “investimento di portafoglio”, finalizzato al mero ritorno finanziario sul capitale. Se il riferimento agli investimenti esteri diretti è stato introdotto dal Trattato di Lisbona (invero era presente già nel progetto di Trattato costituzionale) al fine di assicurare un mandato esclusivo all’Unione a negoziare sul piano multilaterale in seno all’OMC in questa materia, è evidente che tale base giuridica possa essere utilizzata anche con riferimento alla conclusione da parte dell’Unione di c.d. bilateral investment treaties (“BIT”), in passato conclusi esclusivamente dagli Stati membri, ovvero anche di trattati bilaterali o regionali di libero scambio contenenti, inter alia, disposizioni relative alla disciplina degli investimenti esteri.
Proprio quest’ultima tipologia di accordi rappresenta la strada sino ad oggi prescelta dalle istituzioni dell’Unione. Infatti, a poco più di cinque anni dall’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, l’Unione non ha mancato di esercitare la nuova competenza, finalizzando la negoziazione di due accordi bilaterali di libero scambio di ampia portata, contenenti un intero capitolo in materia di disciplina e protezione degli investimenti esteri e relativi strumenti di risoluzione delle controversie Stato(UE)/investitore (cfr. regolamento 912/2014): si tratta in particolare del Comprehensive Economic and Trade Agreement con il Canada (“CETA”) e dell’Accordo di libero scambio con Singapore. I trattati in questione non sono ancora stati firmati né ratificati/approvati, forse in attesa di risolvere alcune criticità relative alla ripartizione delle competenze tra Unione e Stati membri sui vari profili in essi disciplinati (infra, § 2). I relativi testi sono tuttavia siglati e disponili online (sulle recenti aperture della Commissione europea quanto alla trasparenza delle negoziazioni commerciali, in questa Rivista).
Attualmente, sono in corso ulteriori negoziati per la conclusione di accordi bilaterali di ampia portata, contenenti disposizioni relative alla protezione degli investimenti, con gli Stati Uniti (Patto transatlantico sul commercio e gli investimenti – TTIP), alcuni Peasi ASEAN (Malesia, Vietnam, Tailandia), il Giappone, l’ India, il MERCOSUR, il Mianmar/Bourma e, unico caso di negoziato bilaterale interamente sugli investimenti, con la Cina (si veda Overview of FTA and other trade negotiations). Tutti gli accordi sopra menzionati si inseriscono peraltro in un disegno più ampio, avviato già prima dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona: infatti, a partire dalla comunicazione “Europa globale: competere nel mondo” (COM(2006)567), la Commissione, con lo scopo non solo di superare lo stallo delle negoziazioni multilaterali in seno all’OMC, ma anche di garantire alle imprese europee condizioni più competitive di accesso ai mercati stranieri, aveva concluso accordi di libero scambio di c.d. “nuova generazione” con la Corea e la Comunità Andina (Columbia, Perù e successivamente Equador). Questi primi accordi di ampia portata, tuttavia, non contenevano disposizioni specifiche in materia di protezione degli investimenti esteri, limitandosi a disciplinare i profili relativi all’accesso al mercato straniero da parte dell’investitore (c.d. market access). Del resto, le relative direttive di negoziato erano state conferite dal Consiglio dell’Unione anteriormente all’assunzione di competenza in questo settore da parte dell’Unione.
2. La decisione della Commissione di sottoporre al parere della Corte di giustizia ex art. 218, par. 11, TFUE la verifica della competenza dell’Unione a concludere l’accordo di libero scambio con Singapore.
Se è chiara quindi l’intenzione della Commissione di utilizzare la nuova base giuridica anche nell’ottica di perseguire obiettivi di crescita dei mercati europei, molti restano i profili di incertezza che ancora riguardano i suoi confini materiali, a partire dalla stessa nozione di “investimento”. Il riferimento testuale dell’art. 207 TFUE agli «investimenti esteri diretti» parrebbe escludere i c.d. “investimenti di portafoglio” (supra, § 1), che tuttavia vengono generalmente compresi nella nozione di investimento adottata nella gran parte dei trattati internazionali sugli investimenti, inclusi quelli che l’Unione si sta preparando a concludere. La Commissione ritiene che, poiché le disposizioni convenzionali in questione sono atte ad «incidere» sulle norme comuni in materia di circolazione di capitali, sussiste comunque una competenza esclusiva “da occupazione” fondata sull’art. 63 TFUE anche in relazione agli investimenti di portafoglio, ai sensi di quanto previsto dall’art. 3, par. 2, TFUE. Tale impostazione non è condivisa dal Consiglio, secondo il quale gli investimenti di portafoglio restano oggetto di una competenza condivisa tra Unione e Stati membri, imponendosi la conclusione in forma mista dei relativi accordi internazionali (COM(2010)343, cit.). Ci si è inoltre interrogati se la competenza di cui all’art. 207 TFUE includa anche il potere di negoziare le clausole sulla protezione degli investimenti esteri diretti. Militerebbe a favore di un’interpretazione restrittiva il tenore dell’art. 206 TFUE, il quale si riferisce alla «graduale soppressione delle restrizioni […] agli investimenti esteri», e in forza del quale l’Unione non sarebbe autorizzata a disciplinare il trattamento dell’investimento successivo al suo ingresso nel Paese ospitante. Tra queste, particolarmente delicata sarebbe la competenza dell’Unione a negoziare clausole in materia di espropriazione, in ragione della neutralità dell’ordinamento europeo rispetto al regime della proprietà in base all’art. 345 TFUE. Tale lettura restrittiva della competenza in esame non pare massimizzare l’effet utile della nuova competenza e non incontra il sostegno della Commissione, la quale si esprime in termini opposti. Non pare invece si debba dubitare del potere dell’Unione di negoziare clausole arbitrali per la risoluzione delle controversie tra investitori e Unione/Stati membri, certamente rientrante nella competenza dell’Unione in materia di relazioni internazionali (CG, parere 1/91, punto 40; parere 1/09, punto 74; parere 2/13, punto 182). Più critico è l’aspetto relativo alla compatibilità di tali clausole arbitrali con l’autonomia del sistema giuridico dell’Unione, come si dirà infra, § 3.
Alla luce di tali considerazioni, quanto mai opportuna pare la decisione della Commissione del 30 ottobre 2014 di sottoporre al parere della Corte di giustizia, ai sensi dell’art. 218, par. 11, TFUE, il testo del menzionato accordo siglato con Singapore, prima di procedere alla sua firma e ratifica, ed anzi proprio al fine di chiarire se esso vada concluso in forma mista o meno. I dubbi della Commissione vertono peraltro su una pluralità di aspetti, e non si limitano al tema della competenza in materia di investimenti. Infatti, l’accordo con Singapore, come tutti gli accordi commerciali di c.d. “nuova generazione”, disciplina una pluralità di profili di cooperazione, il cui assorbimento nell’ambito di applicazione della competenza esclusiva dell’Unione in materia commerciale può apparire problematico: si pensi non solo alla liberalizzazione dei servizi di trasporto, che restano esclusi dall’ambito di applicazione dell’art. 207 TFUE, ma anche agli aspetti non commerciali della tutela della proprietà intellettuale, alla disciplina degli standard di trasparenza, nonché alla cooperazione in materia di sviluppo sostenibile. A queste materie si aggiunge poi l’intero capitolo relativo alla protezione degli investimenti, con tutte le criticità cui si è sopra fatto riferimento. Sicché, la Corte dovrebbe darsi carico di chiarire se sussista una competenza esclusiva dell’Unione a concludere un accordo di questo tipo e, più precisamente, quali disposizioni dello stesso rientrino nella competenza esclusiva dell’Unione, quali nella competenza ripartita con gli Stati membri, e quali, eventualmente, nella competenza esclusiva degli Stati membri. Nel formulare il proprio parere, la Corte potrebbe anche riferirsi alla sua giurisprudenza più recente, con la quale ha già provveduto a fornire indicazioni in ordine all’estensione e alle modalità di esercizio della competenza esterna in materia commerciale, ribadendo, da un lato, la sua natura esclusiva a priori e, dall’altro lato, il principio secondo il quale clausole meramente accessorie dell’accordo non sono idonee a modificarne la base giuridica prevalente (CG, causa C-137/12, Commissione c. Consiglio; causa C-414/11, Daiichi Sankyo).
Corre peraltro l’obbligo di segnalare che, dopo la trasmissione della suddetta decisione della Commissione al proprio Servizio giuridico, ad oggi non ne è ancora seguita la formalizzazione di alcuna procedura presso la cancelleria della Corte. Non è dato sapere se si tratti di un ritardo burocratico interno o, piuttosto, di un ripensamento della medesima Commissione sull’opportunità di promuovere il delicato procedimento in questione dinanzi alla Corte. Ciò non toglie che il parere preventivo ex art. 218, par. 11, TFUE rappresenti la via più idonea a risolvere definitivamente le molte criticità messe in rilievo. Non resta quindi che auspicare una pronta apertura della procedura, anche al fine di evitare uno stallo eccessivo dei rapporti con i Paesi terzi interessati, a negoziati terminati. Inutile sottolineare come l’atteso chiarimento in ordine all’estensione orizzontale e verticale della nuova competenza in materia di investimenti sia destinato ad assumere un fondamentale rilievo “costituzionale” e ad influenzare in modo decisivo gli sviluppi futuri della politica de qua.
3. I tribunali arbitrali sugli investimenti e il diritto primario dell’Unione europea: spunti dal caso Micula.
Una problematica centrale nell’elaborazione della politica europea degli investimenti è quella inerente al rapporto tra il diritto primario e i tribunali arbitrali sugli investimenti previsti dagli accordi internazionali sugli investimenti, oggi conclusi dagli Stati membri, domani conclusi dall’Unione (v. regolamento 1219/2012). Le vicende relative al caso Micula aiutano a comprendere la questione. Due investitori svedesi (i fratelli Micula) si rivolgevano ad un tribunale arbitrale ICSID lamentando la violazione da parte dello Stato rumeno dei propri diritti ai sensi del BIT in vigore tra Svezia e Romania. Segnatamente, la decisione dello Stato rumeno di interrompere – su pressione della Commissione nella fase di adesione della Romania all’Unione – alcuni incentivi concessi agli investitori stranieri nella forma di esenzioni fiscali, rimborsi sui dazi e erogazione di sussidi, al fine di promuovere lo sviluppo di alcune aree degradate del Paese, violava una serie di diritti loro garantiti dalle rilevanti disposizioni bilaterali (quali la tutela del legittimo affidamento, il trattamento giusto ed equo e il divieto di espropriazione indiretta). Nel corso del procedimento la Commissione, intervenuta come amicus curie, anticipava la posizione secondo la quale una decisione del tribunale arbitrale che implicasse la restaurazione del regime di incentivi non avrebbe potuto essere eseguita se contraria alla normativa europea sugli aiuti di Stato. Nel lodo reso in data 11 dicembre 2013 (ICSID, case no. ARB/05/20, Micula et al. v. Romania) il Tribunale arbitrale accoglieva la domanda degli attori, condannando lo Stato rumeno al pagamento di un danno pari a 82 milioni di euro. A fronte di ciò, la Commissione apriva una procedura di indagine preliminare ai sensi della normativa sugli aiuti di Stato, che si concludeva con una decisione di apertura di indagine formale ex art. 108, par. 2, TFUE, e un ordine di sospensione dell’esecuzione del lodo arbitrale ai sensi dell’art. 108, par. 3, TFUE (decisione C(2014)6848 del 1° ottobre 2014). La decisione in questione veniva quindi impugnata dagli interessati sulla base di due motivi in diritto: da un lato, l’asserita errata applicazione della disciplina degli aiuti di Stato ad un caso di esecuzione di un lodo arbitrale ICSID, rispetto al quale gli Stati membri sono vincolati a precisi obblighi convenzionali; dall’altro lato, la pretesa violazione dell’art. 351 TFUE relativo agli obblighi internazionali assunti dagli Stati membri prima dell’adesione all’Unione europea, con riferimento agli obblighi derivanti dalla Convenzione ICSID.
Il caso è ad oggi pendente (causa T-646/2014, Fratelli Micula c. Commissione).
Senza approfondire in questa sede le molteplici, e rilevanti, questioni sostanziali che esso pone con riferimento ai rapporti tra i diversi regimi giuridici che vengono in rilievo, le vicende richiamate, se trasferite sul piano degli omologhi futuri accordi bilaterali conclusi dall’Unione, mettono in luce i conflitti potenziali tra le decisioni dei tribunali arbitrali da essi istituiti e alcune regole e principi fondamentali del diritto dell’Unione europea. Si pone così, da un lato, un tema di compatibilità sostanziale delle disposizioni di tali accordi, che diverranno parte integrante del diritto dell’Unione, con il diritto primario. Tale obiezione può venire (e viene nella prassi tendenzialmente) superata attraverso la negoziazione di clausole bilaterali che facciano salva l’operatività di tali regole e principi. Dall’altro lato, si pone una questione in ordine alla possibile incompatibilità delle suddette clausole arbitrali con il principio di autonomia del sistema giuridico dell’Unione. In base a consolidata giurisprudenza, infatti, tale autonomia verrebbe pregiudicata qualora sistemi giurisdizionali previsti da accordi internazionali di cui l’Unione è parte contraente impongano alle istituzioni un’interpretazione vincolante delle norme di diritto dell’Unione o incidano sulla ripartizione delle competenze tra Unione e Stati membri (parere 1/00, punti 11-15); ovvero compromettano l’esperimento dei rimedi giurisdizionali interni al sistema giuridico dell’Unione, incluso il rinvio pregiudiziale di interpretazione (parere 1/09, cit., punti 80 ss.). In un recente documento, la Commissione ipotizza che il diritto dell’Unione resti un mero elemento di fatto rispetto alla controversia conosciuta da tali Tribunali arbitrali (Commission Concept Paper – Investment in TTIP and beyond). Ciò escluderebbe, probabilmente, nella visione della Commissione, che sia oggetto di interpretazione vincolante per le istituzioni, e che venga comunque in rilievo la competenza interpretativa della Corte di giustizia ex art. 267 TFUE. Non è però affatto scontato che tale posizione venga condivisa dalla Corte. Non resta quindi che attendere un’auspicabile presa di posizione della stessa Corte anche rispetto a questi delicati profili.