Sul potere della Commissione di ritirare una proposta di atto legislativo

Introduzione

Le cause che contrappongono le istituzioni posso essere lette come puntate di un dramma che mette in scena la lotta per la conquista del potere. Molto spesso, l’istituzione che promuove un’azione giudiziaria nei confronti di un’altra vuole veder riconosciuta dalla Corte di giustizia la sua pretesa di un maggiore potere di azione. Questa chiave di lettura si può agevolmente applicare all’attivismo giudiziario del Parlamento europeo, che ha trovato una sponda nella Corte per ottenere la consacrazione del suo ruolo nell’equilibrio interistituzionale dell’Unione. Basti pensare al contenzioso sulle basi giuridiche, in cui la scelta del fondamento del potere attribuito all’Unione nel caso specifico non è disgiunta dal tentativo di influenzare la procedura di adozione dell’atto.

In questo dramma a puntate, il Consiglio compare assai spesso come convenuto, e ciò non stupisce se solo si pensa che si tratta dell’istituzione che gode del più ampio potere decisionale, che le altre istituzioni vorrebbero erodere. Ciò nonostante, un piccolo numero ricorsi sono stati promossi dal Consiglio: contro il Parlamento, in materia di bilancio (materia questa in cui l’equilibrio del potere pende a favore del Parlamento, competente a constatare che il bilancio è approvato) e contro la Commissione. La sentenza che si commenta è il secondo ricorso promosso dal Consiglio nei confronti della Commissione. Il primo era un’azione in carenza relativa alla determinazione della retribuzione dei funzionari dell’Unione (conclusa con un non luogo a procedere, perché divenuta priva di oggetto: sentenza 19 novembre 2013, causa C-66/12). Altri due ricorsi sono pendenti e riguardano la ripartizione delle prerogative nell’azione esterna dell’Unione (cause C-660/13 e C-73/14). La causa C-409/13che ha portato alla sentenza del 14 aprile 2015 in esame riguarda invece la procedura legislativa ordinaria, il cuore del sistema dell’Unione europea.

La questione controversa

Nella causa in parola, il Consiglio aveva impugnato il ritiro di una proposta ad opera della Commissione, perché tale decisione gli impediva di esercitare le sue funzioni di legislatore, in quanto in assenza di proposta esso non può deliberare. Secondo il ricorrente, la decisione impugnata era stata adotta in violazione dei principi di attribuzione, dell’equilibrio istituzionale e di leale collaborazione tra istituzioni.

Non è la prima volta che la Commissione ha ritirato una proposta, ma è la prima volta che la questione giunge di fronte alla Corte. Il ritiro delle proposte è spesso visto positivamente, quando ne sono colpite proposte obsolete, che giacciono di fronte ai legislatori senza essere state discusse. In più limitati casi, il ritiro di proposte che erano già state oggetto di esame da parte dei legislatori aveva suscitato un certo disappunto, ma nulla più.

Lo stesso Consiglio riconosce che la Commissione ha il potere di ritirare le proprie proposte: di ciò è prova il fatto che esso abbia proposto ricorso di annullamento e non abbia invece deliberato nel merito della proposta come se essa non fosse stata ritirata. Al Consiglio preme sapere a quali condizioni la Commissione possa esercitare tale potere, per imbrigliarlo nella misura massima possibile. È interessante constatare che il Parlamento europeo non ha presentato ricorso, né è intervenuto a sostegno delle posizioni del Consiglio, benché il ritiro della proposta pregiudichi le sue prerogative al pari di quelle del Consiglio.

Nel caso di specie, il Parlamento e il Consiglio avevano raggiunto un accordo politico per apportare una modifica alla proposta che la Commissione giudica di portata tale da snaturarla. La proposta in questione (COM/2011/396) riguardava la definizione di un quadro generale relativo all’assistenza macrofinanziaria ai paesi terzi, in modo che l’erogazione dei finanziamenti fosse decisa dalla Commissione sulla base dei principi generali del regolamento. Secondo la proposta, l’assistenza avrebbe dovuto essere erogata con un atto di esecuzione. Il Parlamento in prima lettura, aveva emendato la proposta e previsto il ricorso ad atti delegati. Il Consiglio, invece, aveva approvato un orientamento generale per prevedere la procedura legislativa ordinaria. In successivi incontri trilaterali informali, le posizioni di Parlamento e Consiglio si erano avvicinate, e il primo aveva accettato la soluzione proposta dal secondo. In base alla soluzione concordata da Consiglio e Parlamento, ogni singola decisione di concedere l’assistenza finanziaria in base ai principi espressi dal regolamento, avrebbe richiesto l’adozione di un atto ad hoc secondo la procedura legislativa. La Commissione riteneva che l’obiettivo perseguito dalla proposta, consistente nel definire una procedura rapida ed efficiente per l’erogazione dell’assistenza ai paesi terzi, ne risultava frustrato. Tra l’altro, la modifica apportata dai legislatori avrebbe di fatto consentito di proseguire la prassi fino ad allora seguita (che la Commissione voleva superare per mezzo della proposta) di decidere l’erogazione dell’assistenza finanziaria caso per caso sulla base di un apposito provvedimento adottato con procedura legislativa ordinaria.

Il giudizio della Corte

La Corte di giustizia respinge il ricorso del Consiglio e riconosce che la Commissione ha il potere di ritirare le proposte, purché il Consiglio non abbia ancora deliberato e purché la decisione sia adeguatamente motivata, la motivazione sia fondata e le ragioni che la sorreggono siano state portate a conoscenza delle altre istituzioni.

Il potere di ritirare la proposta, secondo la Corte, deriva dal potere di presentare la proposta. La Corte non si dilunga sul punto, forse perché, come essa precisa, l’esistenza del potere non è messo in discussione dalle parti. Ricondurlo al ruolo più generale che la Commissione occupa nella procedura decisionale appare a chi scrive più soddisfacente che farlo discendere dal potere di modifica che l’art. 293 TFUE assegna alla Commissione. Infatti, la ratio di consentire alla Commissione di modificare una proposta prima che il Consiglio abbia deliberato è quella di facilitare la decisione del Consiglio stesso, che così può approvare l’atto a maggioranza, senza dover ricorrere all’unanimità. Al contrario, il ritiro della proposta non è inteso a facilitare lo svolgimento della procedura decisionale, ma anzi ad impedirla. Affermare invece che la Commissione gode del potere di ritiro perché ha il potere di proposta significa riconoscere la funzione che questa istituzione esercita nel processo decisionale dell’Unione, ma porta inevitabilmente al definire i limiti del potere, perché essa non deve prevaricare il ruolo che il Trattato assegna ai legislatori.

La decisione di ritiro incide sulle prerogative delle altre istituzioni e deve pertanto essere assoggettata a sindacato giurisdizionale. La Corte deve poter verificare la fondatezza della decisione, sulla base degli argomenti posti alla base della stessa. La motivazione deve essere resa pubblica, anche se non è necessario che la decisione di ritiro sia motivata, purché le ragioni che la giustifichino siano conoscibile e possano essere ricavate da altre fonti. Nel caso di specie, la lettera con la quale la Commissione aveva comunicato a Consiglio e Parlamento il ritiro della proposta non indicava i motivi che giustificavano la decisione. Tuttavia, le istituzioni non potevano non sapere quali fossero tali motivi, poiché erano stati espressi dalla Commissione in occasione delle riunioni dei gruppi di lavoro del Consiglio e negli incontri trilaterali. La Corte non considera rilevante il fatto che né il Consiglio né il Parlamento siano stati informati ufficialmente delle intenzioni della Commissione.

Quanto ai motivi che possono giustificare il ritiro, la Corte afferma che essi attengono al fatto che le modifiche apportate dai legislatori avrebbero snaturato la proposta. Vale la pena riportare le parole esatte della Corte, che costituiscono il perno sul quale si fonda il suo ragionamento: “quando un emendamento prospettato dal Parlamento e dal Consiglio snatura la proposta di atto legislativo in modo da ostacolare la realizzazione degli obiettivi da essa perseguiti e da privare, pertanto, detta proposta della sua ragion d’essere, la Commissione ha il diritto di ritirarla” (punto 83). La valutazione della Commissione deve essere suffragata dagli elementi oggettivi. E nel caso specifico la Corte ritiene che la valutazione della Commissione fosse fondata, perché la ratio della proposta era quella di rendere l’erogazione dell’assistenza più agevole e efficace, mentre la modifica che i legislatori volevano apportare avrebbe introdotto una procedura più lunga e complessa. Non credo che la Corte in questo passaggio della pronuncia voglia dire che la procedura che attribuisce potere decisionale alla Commissione sia più adeguata di quella che coinvolge i legislatori (che tra l’altro è più democratica) o che l’efficienza e la rapidità del processo decisionale debba essere sempre perseguita, ma solo che la Commissione aveva ragione a ritenere che la sua proposta fosse stata snaturata.

Il ritiro, per quanto giustificato, deve essere deciso come extrema ratio, quanto non è possibile trovare una soluzione di compromesso. Questo principio emerge dall’affermazione della Corte secondo cui l’obbligo di leale cooperazione impone alla Commissione di prendere in considerazione “le preoccupazioni del Parlamento e del Consiglio all’origine della loro volontà di emendare” la sua proposta (punto 83), per cercare un compromesso. Nel caso di specie, la Corte accerta che la Commissione questo tentativo l’aveva fatto, ma che non aveva portato ad alcun risultato.

Bisogna rilevare, infine, che la Corte non pone limiti temporali espliciti al potere di ritiro della proposta. Un limite implicito deriva per analogia dall’art. 293, che consente la modifica della proposta prima che il Consiglio abbia deliberato. Nessun effetto ostativo ha invece la deliberazione del Parlamento sulla proposta. In effetti, nel caso di specie, il Parlamento si era espresso in prima lettura (cfr. emendamenti del Parlamento europeo, approvati il 24 maggio 2012, alla proposta di regolamento, P7_TA(2012)0220). Peraltro, lo stesso Parlamento aveva in seguito mutato il proprio convincimento, allineandosi sulle posizioni del Consiglio. Rimane peraltro aperta la questione di quando possa considerarsi che il Consiglio abbia deliberato sulla proposta, questione non affrontata nel caso di specie, perché era pacifico che il Consiglio non avesse ancora deliberato.

Conclusioni

La sentenza è senza dubbio una puntata importante del dramma che si svolge tra le istituzioni, perché contribuisce a chiarire i poteri reciproci. Restano però aperte alcune questioni. Il caso di specie presenta indubbie peculiarità, che possono aver condizionato la decisione e rendono incerta l’applicazione ad altre ipotesi del principio di diritto espresso dalla Corte. In primo luogo, anche in assenza di una normativa generale sull’assistenza macrofinanziaria, l’Unione può continuare ad erogarla con provvedimenti ad hoc, come ha fatto in passato. In altri termini, i legislatori non sono posti in una situazione peggiore di quella in cui si sarebbero trovati se la proposta non fosse mai stata presentata. In secondo luogo, la valutazione di quando una proposta è snaturata da un emendamento proposto dai legislatori può essere complessa in ipotesi diverse da quella in esame nel caso di specie, in cui la proposta aveva un oggetto molto circoscritto e perseguiva un chiaro obiettivo di efficienza, caratteristiche che non si trovano spesso nelle proposte di atti normativi. Infine, la causa lascia sullo sfondo uno dei veri campi di battaglia in cui le istituzioni si scontreranno nel prossimo futuro, in attesa di qualche punto fermo: l’esistenza o meno di una riserva di legge nell’Unione europea, ovvero di materie o questioni che debbano essere regolate con procedura legislativa e non possano essere delegate alla Commissione o costituire oggetto di decisioni di esecuzione.

 


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