Status civitatis ed accesso alla dirigenza pubblica: alcune considerazioni in vista della pronuncia dell’Adunanza plenaria sui direttori dei musei

1. Introduzione: la c.d. Riforma Franceschini ed il contenzioso relativo alle selezioni dei direttori dei musei

Con la sentenza-ordinanza  677/2018 la sesta sezione del Consiglio di Stato ha rimesso all’Adunanza Plenaria diverse questioni attinenti al requisito della cittadinanza italiana nell’accesso alle posizioni di rango dirigenziale presso le pubbliche amministrazioni.

Tale pronuncia, che prende le mosse dalla selezione pubblica per il conferimento dell’incarico di direttore del Palazzo Ducale di Mantova e della Galleria Estense di Modena, si inserisce nel solco del contenzioso che ha fatto seguito alla c.d. riforma Franceschini (art. 14, comma 2-bis, del d.l. 84/2014, convertito in l. 106/2014), finalizzata ad «adeguare l’Italia agli standard internazionali in materia di musei», che ha visto la partecipazione di diversi cittadini di altri Stati membri dell’Unione europea alle procedure di selezione per gli incarichi direttivi di alcuni musei italiani.

Nell’ambito di tale filone si segnalano, in particolare, le sentenze 6171, 6719 e 6170/2017, con cui la sezione seconda quater del TAR Lazio ha accolto i ricorsi presentati da alcuni candidati di nazionalità italiana, annullando il bando e gli atti delle procedure concorsuali interessate nella misura in cui non avevano escluso «la partecipazione di cittadini non italiani», in violazione di quanto disposto, per tutti «i posti dei livelli dirigenziali delle amministrazioni dello Stato», dal combinato disposto dell’art. 38 del TU sul pubblico impiego (d.lgs. 165/2001) e dell’art. 1, lett. a), del DPCM 174/1994.

Sennonché, con la successiva sentenza 3666/2017 la sesta sezione di Palazzo Spada ha rilevato che uno degli incarichi dirigenziali in questione (segnatamente, quello di direttore del Parco archeologico del Colosseo) si sostanziava in un’«attività prevalentemente rivolta alla gestione economica e tecnica» non suscettibile di inquadramento nella deroga alla libera circolazione dei lavoratori per gli «impieghi nella pubblica amministrazione» prevista dall’art. 45, par. 4, TFUE (punto 4 della parte in diritto). Pertanto, i giudici amministrativi hanno disapplicato le norme nazionali che impongono il requisito della cittadinanza italiana per l’accesso agli incarichi dirigenziali e hanno riformato la sentenza 6719/2017 del TAR Lazio, sancendo la legittimità della partecipazione dei cittadini non italiani alla procedura concorsuale (punto 4.1 della parte in diritto).

Tale pronuncia si pone in continuità con la causa Haralambidis c. Casilli, relativa all’incarico di Presidente dell’Autorità portuale di Brindisi, in cui i giudici della Corte di giustizia (sentenza del 10 settembre 2014) e quelli della quarta sezione del Consiglio di Stato (sentenza 1210/2015) avevano osservato che, sebbene il presidente di un’autorità portuale disponesse di «poteri d’imperio» riconducibili alla deroga per gli «impieghi nella pubblica amministrazione» di cui all’art. 45, par. 4, TFUE (quali il potere di ingiungere la riduzione in pristino delle aree demaniali abusivamente occupate e di adottare provvedimenti coattivi per assicurare la navigabilità del porto in casi di necessità e urgenza), l’esercizio di siffatti poteri risultava, di fatto, talmente sporadico e marginale da non giustificare l’esclusione dei cittadini di altri Stati membri dall’accesso ad un incarico che comportava, in prevalenza, l’espletamento di mansioni tecniche e di gestione (punti 57-61 della sentenza della CGUE; punto 6.2. della parte in diritto della sentenza del Consiglio di Stato).

Nella sentenza-ordinanza 677/2018, invece, i giudici della sesta sezione del Consiglio di Stato hanno paventato di non poter procedere alla disapplicazione delle norme interne che impongono il requisito della cittadinanza italiana per ragioni di ordine processuale, sostanziale e costituzionale, rimettendone la valutazione all’Adunanza plenaria. Tali aspetti saranno esaminati partitamente nei paragrafi che seguono.

2. La preclusione processuale: il principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato

Quanto al profilo processuale, la sentenza-ordinanza 677/2018 ha ipotizzato che la disapplicazione della normativa italiana sullo status civitatis nel caso di specie sarebbe preclusa dal principio di corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato (punti 50.2-50.4 della parte in diritto). In particolare i giudici amministrativi hanno rilevato che, mentre nel corso del processo conclusosi con la sentenza n. 3666/2017 il Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo aveva espressamente richiesto, mediante uno specifico motivo d’appello, la disapplicazione della normativa sul requisito di cittadinanza, nel processo in questione il medesimo Ministero aveva invece sostenuto la conformità degli atti della procedura di selezione al DPCM 174/1994, rilevandone la contrarietà al diritto dell’Unione europea solo nel corso del giudizio di secondo grado. Pertanto, secondo i giudici amministrativi, in assenza di un specifico motivo d’appello, potrebbe sussistere una preclusione di natura processuale alla disapplicazione di una norma regolamentare nel corso del giudizio di secondo grado.

Sebbene il principio della corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato non sia estraneo alla giurisprudenza della Corte di giustizia (cfr. ordinanza del 13 dicembre 2012, Transcatab c. Commissione, punto 51), non sembra che esso possa, come paventato dai giudici del Consiglio di Stato, ostacolare la piena applicazione del principio del primato. Quest’ultimo, difatti, richiede non solo la disapplicazione della norma nazionale contraria alla norma dell’Unione direttamente efficace (c.d. disapplicazione primaria), ma anche tutte le altre norme, in particolare di carattere processuale, che impediscono di porre rimedio ad una situazione contrastante con il diritto dell’Unione (c.d. disapplicazione secondaria) (cfr. sentenza del 9 marzo 1978, Simmenthal, punti 22-23; sia inoltre consentito il rinvio a A. Arena, Sul carattere «assoluto» del primato del diritto dell’Unione europea, in Studi sull’integrazione europea, in corso di pubblicazione).

È vero che, nel corso degli anni, i giudici dell’Unione hanno individuato alcune eccezioni all’obbligo di disapplicazione secondaria. Ad esempio, a partire dalla sentenza del 1° giugno 1999 Eco Swiss, la Corte di giustizia ha affermato che le norme interne relative al principio della res iudicata possono trovare applicazione, nel rispetto dei principî di effettività ed equivalenza, anche quando precludono la correzione di un orientamento giurisprudenziale (v. sentenza del 16 marzo 2006, Kapferer, punto 21) o di una prassi amministrativa (sentenza del 13 gennaio 2004, Kühne & Heitz, punto 24) in contrasto con il diritto dell’Unione. Del pari, con le sentenze del 22 giugno 2010, Melki (punto 53), e dell’11 settembre 2014, A c. B (punto 40), i giudici europei hanno statuito che il carattere prioritario di un procedimento incidentale di legittimità costituzionale consente al giudice nazionale di non disapplicare una norma nazionale che ritenga contraria al diritto dell’Unione fino al termine di tale scrutinio di costituzionalità (così R. Mastroianni, La Corte di giustizia ed il controllo di costituzionalità: Simmenthal revisited?, in Giurisprudenza costituzionale, 2014, p. 4097).

Peraltro, al di fuori di tali casi-limite, vale il principio in base al quale le norme processuali nazionali devono essere interpretate in maniera conforme alle norme dell’Unione e, all’occorrenza, devono essere disapplicate qualora impediscano al giudice nazionale di garantire la piena efficacia di suddette norme (sentenza del 5 ottobre 2010, Elchinov, punto 30; sentenza del 20 ottobre 2011, punto 39; sentenza dell’8 novembre 2016, Ognyanov, punti 69-70). Ciò è stato più volte ribadito dalla Corte di giustizia, anche con riferimento alla disciplina italiana sul processo amministrativo «che preved[e] un sistema di preclusioni processuali, quali termini di ricorso, specificità dei motivi, divieto di modifica della domanda in corso di causa» (sentenza del 18 luglio 2013, Consiglio nazionale dei geologi, punto 20 e punti 32-33).

Sembra, quindi, che spetti al giudice nazionale il compito di valorizzare gli addentellati normativi offerti dal diritto interno (a partire dal principio iura novit curia)che gli consentano, sempre nel rispetto dei principî di effettività ed equivalenza, di disapplicare d’ufficio le norme nazionali in contrasto con norme dell’Unione direttamente efficaci.

3. La preclusione sostanziale: la rilettura in chiave istituzionale della deroga relativa agli «impieghi nella pubblica amministrazione»

Anche qualora l’ostacolo di natura processuale si rivelasse, all’esito, superabile, per i giudici di Palazzo Spada permane una preclusione di carattere sostanziale alla disapplicazione delle norme interne che impongono lo status civitatis per l’accesso agli incarichi dirigenziali, vale a dire l’asserita possibilità di ricondurre tale normativa alla deroga per gli «impieghi nella pubblica amministrazione» prevista dall’art. 45, par. 4, TFUE (punti 51-55.2 della parte in diritto).

In particolare, i giudici della sesta sezione propongono una rilettura della conferente giurisprudenza della Corte di giustizia fondata sulla distinzione tra i «soggetti estranei all’apparato statale», che possono fruire della predetta deroga solo se le rispettive attività d’imperio si rivelano prevalenti rispetto a quelle di gestione, ed i «pubblici poteri» facenti parte degli apparati ministeriali statali, che rientrano nella nozione di «impieghi nella pubblica amministrazione» senza necessità di ulteriori verifiche (punto 54.3 della parte in diritto).

Secondo tale impostazione, la carica di presidente di un’autorità portuale (oggetto della causa Haralambidis) rientrerebbe nella categoria dei «soggetti estranei», in quanto attiene ad un «ente pubblico avente una personalità̀ giuridica diversa dallo Stato (e posta sotto la sua vigilanza), che dunque non fa parte degli apparati ministeriali statali e non costituisce una delle articolazioni con le quali neppure si attua il relativo indirizzo politico» (punto 54.6 della parte in diritto). Per contro, ad avviso dei giudici della sesta sezione del Consiglio di Stato, i dirigenti ministeriali, compresi i direttori dei musei de quibus, sarebbero riconducibili alla categoria dei «pubblici poteri», in quanto rappresentano «l’immediata espressione del potere esecutivo» e costituiscono «l’organo amministrativo di vertice del Ministero [dei beni e delle attività culturali e del turismo], con il quale si attua l’indirizzo politico del Governo» (punto 54.6 della parte in diritto).

La dicotomia proposta dalla sentenza-ordinanza 677/2018 sottende un approccio «istituzionale» all’applicazione della deroga per gli «impieghi nella pubblica amministrazione», incentrato sulla posizione dell’ente nell’ambito dell’ordinamento. Per contro, la giurisprudenza della Corte di giustizia ha costantemente assunto un approccio «funzionale» all’interpretazione della deroga de qua, soffermandosi non già sul rapporto di «dipend[enza] dallo Stato o da altri enti pubblici» (sentenza del 17 dicembre 1980, Commissione c. Belgio, punto 11), ma soltanto sull’esercizio di «mansioni che hanno ad oggetto la tutela degli interessi generali dello Stato» (sentenza del 2 luglio 1996 Commissione c. Grecia, punto 34), intese restrittivamente come le «prerogative che esorbitano dal diritto comune, []i privilegi e []i poteri coercitivi a cui i privati debbono sottomettersi» (AG Mayras, conclusioni del 28 maggio 1974, Jean Reyners c. Stato belga), ossia i c.d. «poteri d’imperio» che si sostanziano, ad esempio, nell’adozione di «provvedimenti di carattere coattivo» (sentenza del 10 settembre 2014, Haralambidis, punti 56-57).

Peraltro, se l’art. 45, par. 4, TFUE non è stato ritenuto applicabile ad un incarico, quale quello di presidente di un’autorità portuale, che comporta l’esercizio, ancorché sporadico, di poteri d’imperio, non si vede come possa essere ricondotto a tale deroga un impiego, quale quello di direttore di un istituto museale, che non dispone di analoghi poteri, ma si risolve nell’assolvimento di attività culturali e di gestione (quali l’organizzazione di mostre ed esposizioni, la determinazione dell’importo dei biglietti d’ingresso e degli orari d’apertura), sia pure affiancate da attività di stampo più marcatamente pubblicistico (quali l’affidamento diretto o in concessione delle attività e dei servizi pubblici di valorizzazione del museo, l’autorizzazione al prestito di beni culturali e l’esercizio delle funzioni spettanti ai Soprintendenti archeologia, belle arti e paesaggio). Più convincente appare, al riguardo, la precedente valutazione compiuta dal Consiglio di Stato, che nella  sentenza 3666/2017 aveva affermato che le mansioni affidate ai direttori dei musei attengono ad un’«attività prevalentemente rivolta alla gestione economica e tecnica», non suscettibile di inquadramento nella deroga di cui all’art. 45, par. 4, TFUE.

4. La preclusione costituzionale: la riserva ai cittadini italiani dei «pubblici uffici» e delle «funzioni pubbliche» e l’assenza di reciprocità nell’accesso agli incarichi dirigenziali negli altri Stati membri

Nella sentenza-ordinanza 677/2018 si legge altresì che la disapplicazione della normativa interna che impone il requisito della cittadinanza italiana, da cui discenderebbe la liceità della partecipazione dei cittadini di altri Stati membri alle selezioni per gli incarichi dirigenziali presso i musei italiani, sarebbe preclusa da alcune previsioni costituzionali (punti 56-57 della parte in diritto). Secondo il Consiglio di Stato, in particolare, la Costituzione riserverebbe ai cittadini italiani l’esercizio degli «uffici pubblici» (art. 51 Cost.) e delle «funzioni pubbliche» (art. 54 Cost.), quali gli incarichi dirigenziali in questione, e consentirebbe a limitazioni di sovranità a vantaggio dell’ordinamento dell’Unione esclusivamente «in condizione di parità con gli altri Stati» (art. 11 Cost.), condizione che non potrebbe ritenersi soddisfatta in quanto ai giudici amministrativi non consta che, negli altri Stati membri, i cittadini italiani abbiano accesso ad incarichi di rango equivalente.

Quanto a rilievo fondato sul riferimento costituzionale ai «pubblici uffici» ed alle «funzioni pubbliche», sembra sufficiente richiamare le sentenze del Consiglio di Stato 1210/2015 e 3666/2017, in cui si afferma che tali previsioni costituzionali devono essere lette in conformità all’art. 11 Cost. «nel senso di consentire l’accesso dei cittadini degli Stati dell’Unione europea agli uffici pubblici e alle cariche pubbliche nazionali in via generale, sulla base del principio della libera circolazione delle persone ex art. 45 TFUE», fatta eccezione per gli «impieghi nella pubblica amministrazione», di cui al par. 4 di tale articolo, come interpretato dalla Corte di giustizia.

Né assume rilievo la circostanza che anche le costituzioni di altri Stati membri contengano disposizioni concepite per riservare ai cittadini, salvo eccezioni, l’accesso agli impieghi pubblici: se è vero che l’art. 45, par. 4, TFUE ha lo scopo di tener conto dell’esistenza di siffatte disposizioni e del legittimo interesse degli Stati membri di riservare ai propri cittadini gli incarichi connessi all’esercizio dei pubblici poteri ed alla tutela dell’interesse nazionale, la Corte di giustizia ha chiarito che la portata del principio della libera circolazione dei lavoratori non può essere limitata da «interpretazioni della nozione di ‘pubblica amministrazione’ tratte dal solo diritto nazionale», in quanto ciò pregiudicherebbe l’efficacia e l’uniforme applicazione del diritto dell’Unione nei vari Stati membri (sentenza del 17 dicembre 1980Commissione c. Belgio, punti 18 e 19).

Quanto alla «regola della reciprocità» invocata dal Consiglio di Stato, giova ricordare che la Corte di giustizia ha da tempo affermato l’estraneità di tale logica internazionalistica ai rapporti che s’instaurano tra gli Stati membri dell’Unione europea (chiarissima, in tal senso, la sentenza del 13 novembre 1964, Commissione c. Lussemburgo e Belgio). Secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale, difatti, «uno Stato membro non può, in alcun caso … invocare l’eventuale disconoscimento del Trattato da parte di un altro Stato membro per giustificare la propria inosservanza» (sentenza del 14 febbraio 1984, Commissione c. Germania, punto 11). La situazione non muterebbe se la stessa Guardiana dei Trattati restasse inerte dinanzi alla perdurante applicazione, da parte di uno o più Stati membri, di requisiti di cittadinanza nell’accesso alle cariche pubbliche non coperte dalla deroga di cui all’art. 45, par. 4, TFUE e ciò in quanto, per costante giurisprudenza, «anche qualora la Commissione contravvenga ai suoi doveri … ciò non dispensa uno Stato membro dagli obblighi impostigli … in applicazione del Trattato» (sentenza del 16 giugno 1966, Germania c. Commissione).

La stessa giurisprudenza della Corte Costituzionale si attesta su posizioni analoghe. Fin dalla sentenza n. 300/1984, il Giudice delle leggi ha precisato che il riferimento alla «parità con gli altri Stati» contenuto nell’art. 11 Cost. non deve intendersi come «l’assoluta eguaglianza» a tra le limitazioni di sovranità consentite dal nostro ordinamento e quelle operate dagli altri Stati membri dell’Unione (punto 4 della parte in diritto). Tale disposizione, del resto, era stata concepita dal Costituente in vista dell’adesione alle Nazioni Unite, il cui Statuto poneva (e pone) chiaramente i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza in una posizione di privilegio rispetto agli altri membri di tale organizzazione.

Ad ogni buon conto, anche qualora il principio della libera circolazione dei lavoratori comportasse conseguenze nell’ordinamento italiano incompatibili con le previsioni della nostra Costituzione, sembra opportuno ricordare che, come chiarito dalla Corte di giustizia a partire dalla sentenza del 17 novembre 1970 Internationale Handelsgesellschaft, «il fatto che siano menomati … i principi di una costituzione nazionale non può sminuire la validità di un atto dell[’Unione] né la sua efficacia nel territorio» degli Stati membri (punto 3).

5. Conclusioni

Con la sentenza-ordinanza 677/2018, la sesta sezione del Consiglio di Stato ha rimesso all’Adunanza plenaria la valutazione di diverse questioni relative all’applicazione della normativa nazionale che impone il requisito della cittadinanza italiana per l’accesso agli incarichi pubblici di rango dirigenziale. In particolare, il consesso dei giudici amministrativi dovrà valutare se tale normativa può essere disapplicata in caso di contrasto con il principio della libera circolazione dei lavoratori previsto all’art. 45, paragrafi 1 e 2, TFUE anche in assenza di uno specifico motivo d’appello, dovrà accertare se la nozione di «impieghi nella pubblica amministrazione» di cui all’art. 45, par. 4, TFUE può essere riletta in chiave «istituzionale» al fine di ricomprendervi gli incarichi dirigenziali presso i ministeri ed i musei e dovrà chiarire se la disapplicazione della normativa sullo status civitatis per contrasto al diritto dell’Unione è possibile anche se la Costituzione riserva ai cittadini italiani l’esercizio di «uffici pubblici» (art. 51 Cost.) e delle «funzioni pubbliche» (art. 54 Cost.), e se gli altri Stati membri non assicurano condizioni di piena parità (art. 11 Cost.) nell’accesso ai rispettivi incarichi di vertice.

Tali quesiti riecheggiano gli interrogativi alla base della controversia, tutt’ora pendente innanzi alla Sezione lavoro del Tribunale di Firenze, relativa al concorso per assistente giudiziario, che con l’ordinanza del 27 maggio 2017 era stato temporaneamente sospeso «in modo da permettere ai cittadini comunitari» ed ai cittadini di Paesi terzi ad essi equiparati di partecipare, previa riapertura dei termini, alla procedura di selezione».

Come sottolineato in altra sede (A. Arena, Il requisito della cittadinanza italiana nell’accesso ai concorsi pubblici: brevi spunti di riforma alla luce della recente giurisprudenza, in SIDI Blog), la stessa esistenza di tali conteziosi evidenzia l’improcrastinabile necessità di un intervento di riforma della disciplina sul requisito di cittadinanza volto a restringere il novero degli impieghi pubblici riservati ai cittadini (in tal senso anche R. Caranta, La libertà di circolazione dei lavoratori nel settore pubblico, in Diritto dell’Unione Europea, 1999, p. 45, secondo il quale l’art. 1 del DPCM 174/1994 sarebbe una previsione «redatta in modo un po’ troppo generoso»).

Pertanto, nella prospettiva di una corretta risoluzione delle controversie pendenti e di una riforma organica della disciplina vigente, appare fortemente auspicabile che l’Adunanza plenaria voglia, come ha fatto la quarta sezione del Consiglio di Stato nel corso della causa Haralambidis con l’ordinanza 2492/2013, ottemperare al proprio obbligo di rinvio alla Corte di giustizia, onde ottenere delle indicazioni vincolanti e, si spera, risolutive in ordine all’interpretazione della nozione di «impieghi nella pubblica amministrazione» di cui all’art. 45, par. 4, TFUE.


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