Stato di diritto o ragion di stato? La difficile rotta verso un controllo europeo del rispetto dei valori dell’Unione negli Stati membri (dialogo con Ugo Villani)

1. Premessa: la rule of law ed i meccanismi di controllo nei confronti degli Stati membri

Se è vero che la poliedrica attività di Ugo Villani rende difficile scegliere un argomento che meglio ne testimoni gli interessi scientifici, ritengo che soprattutto nella sua produzione “comunitaria” più recente sia presente in maniera evidente una particolare attenzione alle tematiche della protezione dei principi democratici e dei valori fondanti l’Unione europea (Cfr. ex multis U. Villani, Principi democratici e diritti fondamentali nella “Costituzione europea”, in Comunità internaz., 2005, p. 643 e ss., e qui) Vorrei dunque dedicare a questo argomento il breve contributo a Lui dedicato.

Come è noto, l’art. 2 TUE stabilisce che l’Unione si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti alle minoranze. La medesima disposizione chiarisce l’origine e la portata di questa lista, aggiungendo che detti valori sono “comuni agli Stati membri in una società caratterizzata dal pluralismo, dalla non discriminazione, dalla tolleranza, dalla solidarietà e dalla parità tra donne e uomini”.

Nelle pagine che seguono si cercherà di approfondire la situazione attuale rispetto ai meccanismi di vigilanza del rispetto di uno di detti valori, in particolare lo “Stato di diritto” (rule of law), per ciò che concerne le attività svolte non già dalle istituzioni dell’Unione, a cui spetta in primo luogo adeguare la propria attività a quanto prescritto dall’art. 2 TUE, ma dagli Stati membri in foro domestico, dunque in contesti quanto meno formalmente estranei all’applicazione del diritto dell’Unione europea. Si tratta di una questione molto sensibile ed estremamente attuale, che comporta anche delle complesse valutazioni tecniche, che qui potranno soltanto essere accennate, in merito ai confini delle competenze dell’Unione e delle sue istituzioni rispetto a quelle degli Stati membri.

Il punto di partenza di questa ricostruzione è la controversa iniziativa assunta dalla Commissione europea di adottare, l’11 marzo 2014, una Comunicazione(COM/2014/0158 final) che crea un nuovo “quadro” per il controllo del rispetto dello Stato di diritto negli Stati membri e, nel 2016, di dare avvio per la prima volta ad una procedura, basata su detta Comunicazione, di cui è destinataria la Polonia. Detto meccanismo si inserisce, peraltro, in una serie di ulteriori iniziative, niente affatto coordinate tra di loro, che hanno nella sostanza il medesimo obiettivo e che vedono protagoniste altre istituzioni dell’Unione (cfr. le Conclusioni del Consiglio del 16 dicembre 2014 – su cui v. il contributo di O. Porchia, su questa Rivista – precedute dalla Nota della Presidenza italiana del 15 novembre 2014; cfr., del pari, la Risoluzione del Parlamento europeo del 25 ottobre 2016) nonché, in altro contesto, il Consiglio d’Europa attraverso la Commissione di Venezia. L’affollamento quasi spasmodico di queste iniziative è significativo, da un duplice punto di vista: da un lato, dimostra l’attualità e la rilevanza della questione, testimoniata dalla recente recrudescenza di crisi “sistemiche” di violazione della rule of law in alcuni Stati membri; dall’altro, rischia di produrre un effetto di confusione e di sovrapposizione tale da rendere in ultima analisi più complesso reagire in maniera efficace e credibile nei confronti delle situazioni di crisi. In definitiva, esse dimostrano a chiare lettere l’insufficienza dell’unico meccanismo formalmente previsto dai Trattati europei a questo fine, vale a dire il ricorso alla procedura di controllo codificata all’art. 7 TUE. Le iniziative di cui si discute si pongono infatti a monte della eventuale decisione, che il par. 1 della menzionata disposizione affida alla Commissione, al Parlamento o ad un terzo degli Stati membri, di innescare di fronte al Consiglio la procedura di constatazione dell’esistenza di un evidente rischio di violazione grave, da parte di uno Stato membro, dei valori di cui all’art. 2 TUE. La scelta, assunta con il Trattato di Nizza, di affidare la predetta constatazione ad una decisione del Consiglio, da assumere con la maggioranza dei quattro quinti dei suoi membri, nonché la necessità di un ulteriore intervento, quando la crisi si è già manifestata e la violazione perpetrata in maniera, oltre che grave, “persistente”, per l’adozione di misure sanzionatorie quali la sospensione dei diritti attribuiti agli Stati membri dai Trattati, ha di fatto contribuito sinora a rendere lettera morta la disposizione in questione.

2. La rule of law in un’Unione europea in trasformazione

Il punto di partenza di questo percorso può essere sintetizzato in una frase: l’Unione europea è una “comunità di diritto” (a community based on the rule of law). Questa precisazione è ormai familiare nel lessico del diritto dell’Unione in quanto proviene da una consolidata giurisprudenza della Corte di giustizia. Nella sentenza Les Verts c. Parlamento, del 1986, così come in innumerevoli pronunce successive (ex multis, sentenza del 5 ottobre 2015, Schrems, ove si legge che “l’esistenza stessa di un controllo giurisdizionale effettivo, destinato ad assicurare il rispetto delle disposizioni del diritto dell’Unione, è inerente all’esistenza di uno Stato di diritto”), la Corte ha qualificato questa affermazione aggiungendo che essa comporta che “né gli Stati che ne fanno parte, né le sue istituzioni sono sottratti al controllo della conformità dei loro atti alla Carta costituzionale di base costituita dal trattato” (punto 23).

Il principio è stato poi codificato all’art. 47, primo comma, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Le sue conseguenze applicative sono molteplici, e comportano in primo luogo effetti di rilievo nei confronti dell’Unione stessa, in quanto le sue istituzioni sono tenute a seguire precisi comportamenti tra cui la messa disposizione dei singoli di una serie di ricorsi giurisdizionali tali da realizzare una tutela effettiva dei loro diritti.

Quanto alle attività svolte dagli Stati membri, essendo la rule of law un principio generale del diritto operante a tutto tondo nell’ordinamento dell’Unione, qualora esse intervengano nel “cono d’ombra” del diritto UE sono sottoposte sia al controllo “accentrato” della Commissione e della Corte di giustizia attraverso il procedimento d’infrazione, sia a quello “diffuso” affidato ai giudici nazionali, che si esplicita attraverso una vasta gamma di possibilità di intervento sino all’esercizio del potere ultimo di “disapplicazione” della legge interna incompatibile con il diritto dell’Unione.

Altro è, tuttavia, chiarire quali siano le conseguenze, dal punto di visto dal diritto dell’Unione, qualora i valori elencati all’art. 2 TUE – incluso, quindi, il principio della rule of law – siano messi a repentaglio dagli Stati membri al di fuori del pur amplissimo “campo di applicazione” del diritto dell’Unione. Come anticipato, a seguito della vicenda che ha coinvolto la Repubblica d’Austria con l’ascesa al potere del partito populista di J. Haider, con una decisione di estrema rilevanza se solo si considera l’impatto su ciò che era sino ad allora considerato parte della “giurisdizione domestica” degli Stati membri, con il Trattato di Amsterdam (1997) si è inserita nel Trattato una procedura di controllo e sanzione finalizzata a vigilare sui comportamenti “interni” degli Stati, qualora questi siano capaci di incidere sulla “mutua fiducia” tra gli Stati membri e quindi di mettere in discussione la solidarietà e la piena comunanza di valori che la partecipazione al processo di integrazione europea richiede. In ragione della delicatezza delle valutazioni e della obiettiva novità della procedura rispetto al contesto generale delle competenze dell’Unione, si è tuttavia preferito affidare al Consiglio europeo il compito di reagire – con sanzioni di tipo “costituzionale” quale la sospensione del diritto di voto in Consiglio – alle violazioni “gravi e persistenti” dei valori fondanti l’Unione, con l’attribuzione alla Commissione ed al Parlamento di un potere di iniziativa e l’esclusione della Corte di giustizia da valutazioni di merito (art. 269 TFUE). Con le successive revisioni dei trattati, ed in particolare con il Trattato di Nizza, il bagaglio di possibili interventi è stato arricchito sino al punto di distinguere due diverse procedure (una, di nuovo conio, di mera censura, l’altra sanzionatoria) in ragione della gravità della situazione, ma è rimasta la (voluta) configurazione dell’intero meccanismo di controllo come essenzialmente politico, inteso cioè ad operare come una forma di moral suasion piuttosto che come un vero e proprio scrutinio di carattere giuridico sul comportamento degli Stati: in altri termini, la sola prospettiva della “messa alla berlina” dello Stato membro recalcitrante ai valori dell’Unione avrebbe comportato un effetto deterrente.

Non sono mancate le richieste di intervento ed i tentativi di innescare la procedura dell’art. 7 TUE, come nel caso dell’espulsione, nel 2010, di gruppi di nomadi dalla Francia nello Stato membro di origine (Risoluzione del Parlamento europeo del 6 settembre 2010), ovvero, nel caso dell’Ungheria, in conseguenza delle dichiarazioni espresse dal governo in tema di immigrazione, diritto di asilo e ripristino della pena di morte (Risoluzione del Parlamento europeo del 10 giugno 2015), nonché della adozione di riforme costituzionali, comprese quelle relative all’indipendenza dei media (Risoluzione del Parlamento europeo del 3 luglio 2013). Qualche anno prima, il Parlamento si era anche espresso sulla situazione dei media in Italia, con la Risoluzione sui rischi di violazione, nell’UE e particolarmente in Italia, della libertà di espressione e di informazione (articolo 11, paragrafo 2 della Carta dei diritti fondamentali).

Di fatto, la procedura codificata all’art. 7 non ha dato buona prova di sé. I pur rari tentativi di innescarla a fronte di evidenti situazioni di crisi dei valori dell’Unione in alcuni Stati membri si sono arenati a causa certo della timidezza dimostrata sia dalla Commissione, sia dal Parlamento europeo, che non hanno mai ritenuto di farvi formalmente ricorso, sia degli Stati membri, che non hanno sinora inteso modificare le regole del Trattato al fine di dare maggiore efficacia alla procedura.

Da qui l’iniziativa assunta dalla Commissione con la ricordata Comunicazione, di creare un nuovo meccanismo di controllo. Il suo funzionamento è noto e ad esso sono stati dedicati studi molto approfonditi (cfr. D. Kochenov, L. Pech; P. Mori, in A. Tizzano,p. 204; C. Closa, D. Kochenov).

In questa sede ci limitiamo a ricordare che esso si articola in tre fasi: nella prima, la Commissione opera una valutazione della situazione esistente in un Paese membro, aprendo un “dialogo strutturato” con le autorità di quest’ultimo, finalizzato alla rimozione delle situazioni di criticità. Se questo dialogo non dà i frutti sperati, la prima fase può concludersi con l’adozione di una (riservata) rule of law opinion, nella quale la Commissione rende nota allo Stato coinvolto la sua posizione e le misure che si aspetta siano assunte per rimediare alla crisi. La seconda fase prende l’avvio dalla valutazione delle misure prese dallo Stato a seguito della Opinion e comporta l’eventuale adozione di una Raccomandazione, con la quale la Commissione rende esplicite (e pubbliche) le richieste rivolte allo Stato membro, domandando formalmente un intervento risolutore in un termine prestabilito. Infine, se anche questa fase non offre le soluzioni sperate, la Commissione decide il “follow-up”, che potrebbe (finalmente) consistere nell’attivazione della procedura di cui all’art. 7.

3. Il primo caso: la Polonia e le regole sul funzionamento della Corte costituzionale

Nella Risoluzione del 10 giugno 2015 sulla situazione in Ungheria il Parlamento europeo sollecitava la Commissione “ad attivare la prima fase del quadro UE per rafforzare lo Stato di diritto e ad avviare quindi immediatamente un approfondito processo di monitoraggio riguardante la situazione della democrazia, dello Stato di diritto e dei diritti fondamentali in Ungheria, vagliando l’eventuale violazione grave e sistemica dei valori su cui si fonda l’Unione ai sensi dell’articolo 2 TUE, compreso l’impatto combinato di una serie di misure che esasperano lo stato della democrazia, lo Stato di diritto e i diritti fondamentali, e valutando l’emergenza di una minaccia sistemica allo stato di diritto in questo Stato membro che potrebbe trasformarsi nel chiaro rischio di una grave violazione ai sensi dell’articolo 7 TUE”. La richiesta del Parlamento, reiterata con la successiva Risoluzione del dicembre 2015, non ha avuto seguito. Per alcune delle questioni in astratto riconducibili alla violazione dei principi dello Stato di diritto la Commissione ha preferito – anche in ragione della maggiore efficacia dell’intervento – ricorrere alla procedura di infrazione, con risultati (almeno in punto di diritto) positivi (cfr. Commissione c. Ungheria)

La prima volta in cui il nuovo meccanismo di controllo ha conosciuto una effettiva applicazione riguarda la situazione di crisi manifestatasi in un altro Stato membro, la Polonia, a seguito dell’ascesa al potere del partito nazionalista “Diritto e giustizia” e quindi delle riforme avviate dal nuovo governo ed approvate dal Parlamento polacco. Per riassumere una vicenda molto articolata (il “caso polacco” è ricostruito nei dettagli da C. Curti Gialdino, e più di recente da P. Mori), a salire sul banco degli accusati dal punto di vista del mancato rispetto dei principi dello Stato di diritto è stata la nuova disciplina in tema di nomina e di funzioni della Corte costituzionale, adottata dal Parlamento polacco nel dicembre del 2015 in sostituzione della precedente e con effetti retroattivi, al non celato scopo di ridurre il mandato di alcuni giudici (tra cui il Presidente), ritenuti troppo vicini al vecchio regime, sostituirne altri di nuova nomina ma non ancora insediatisi e impedire che altri ancora potessero prestare giuramento. La nuova legge comportava poi, a giudizio della Commissione, una intollerabile limitazione dell’autonomia della Corte costituzionale nei confronti del potere esecutivo, potendo quest’ultimo intervenire per condizionarne l’attività e l’effettività delle decisioni. Il tutto comportava un “systemic threat” allo Stato di diritto meritevole di reazione attraverso l’attivazione del nuovo meccanismo inaugurato con la Comunicazione del 2014. Ad oggi (dicembre 2016) quasi tutti i passaggi procedurali previsti dalla Comunicazione della Commissione sono stati svolti: il 23 dicembre 2015 il Commissario Timmermans, vice presidente della Commissione e responsabile della procedura in oggetto, ha chiesto chiarimenti al governo polacco, ai quali hanno fatto seguito numerosi incontri nonché, il 1° giugno 2016, l’adozione e l’invio a quest’ultimo della formale rule of law opinion; nonostante l’approvazione di nuove leggi in maniera da venire incontro ad alcune delle perplessità manifestate dalla Commissione, quest’ultima adottava il 27 luglio 2016 una Raccomandazione sullo Stato di diritto in Polonia, così dando luogo alla seconda fase della procedura. La Raccomandazione richiedeva alla Polonia di risolvere i punti ancora controversi nel termine di tre mesi. Alla scadenza del termine il Governo polacco faceva presente di non volersi adeguare alla Raccomandazione, non condividendola nel merito ed invocando – peraltro con una certa incoerenza, dopo aver partecipato alle precedenti fasi della procedura – l’assenza di base giuridica dell’intero meccanismo, in quanto non previsto dai Trattati e capace di produrre interferenze indebite su materie che il governo polacco definiva appartenenti ai “Poland’s internal affairs”. L’ultima tappa di cui si ha conoscenza al momento in cui si scrive è l’adozione, il 21 dicembre 2016, di una Raccomandazione supplementare, con la quale la Commissione dava conto delle novità legislative nel frattempo intervenute in Polonia rispetto al funzionamento della Corte costituzionale ed allo status dei suoi giudici, non ritenendole peraltro decisive per eliminare tutti i punti di frizione. La Commissione decideva quindi di concedere altri due mesi per la soluzione della crisi, così rinviando la decisione più delicata, vale a dire quella se attivare o meno il procedimento di cui all’art. 7, par. 1, TUE.

4. Per concludere: ritorno a Spinelli?

Con riserva di valutare quali saranno le prossime mosse della Commissione alla scadenza del nuovo termine concesso alla Polonia, appare evidente da quanto sinora esposto che la prima applicazione del nuovo meccanismo di controllo del rispetto dello Stato di diritto ha incontrato un parziale successo. In primo luogo, è significativa la circostanza che lo Stato membro coinvolto abbia partecipato alla procedura, se pure in maniera critica sul merito delle accuse, in tutti i suoi stadi, fornendo la propria collaborazione sia con incontri con la Commissione, sia con l’adozione di misure che, per quanto non ritenute, sinora, risolutive, hanno di certo contribuito a risolvere alcuni dei punti di frizione. In effetti, se al momento non è chiaro quale sarà l’esito finale della procedura, è sul piano della moral suasion, piuttosto che su quello strettamente giuridico, che questo meccanismo è stato concepito, considerata l’assenza di una base giuridica adeguata per sostenere veri e propri obblighi a carico degli Stati.

Dunque, il meccanismo di controllo ha avuto e può avere in futuro un suo ruolo per arginare situazioni complesse che vedono nel dialogo la loro prima possibilità di soluzione. Peraltro, anche in ragione della natura volontaria della partecipazione degli Stati membri, appare difficile contestarne la conformità ai trattati, in quanto, a nostro modo di vedere, il meccanismo concepito con la Comunicazione del 2014 può essere senza grandi difficoltà inquadrato tra i compiti della Commissione rientranti nel suo generale ruolo di “guardiana dei Trattati”, di cui all’art. 17 TUE.

Di riflesso, la partecipazione degli Stati membri alla procedura attivata dalla Commissione si inquadra nel generale obbligo di collaborazione codificato all’art. 4, par. 3, TUE. In aggiunta, non va sottovalutato che il meccanismo si pone in una fase prodromica rispetto all’eventuale esercizio di un potere che il Trattato comunque affida alla Commissione, vale a dire l’attivazione della procedura di controllo ex art. 7 TUE, per cui appare difficile negare la conformità ai trattati istitutivi di una procedura che non ha altro fine che quello di consentire un dialogo tra la Commissione e gli Stati membri e quindi di evitare potenziali situazioni di crisi che potrebbero comunque essere oggetto della procedura prima indicata. Da questo punto di vista, è vero che il meccanismo creato dalla Commissione e la procedura di controllo di cui dispone il Consiglio ai sensi dell’art. 7, par. 1, TUE hanno alcuni punti in comune: ad esempio, sia il Consiglio sia la Commissione posseggono la facoltà di rivolgere raccomandazioni allo Stato membro coinvolto ai fini della soluzione condivisa della crisi in atto. Si tratta tuttavia, evidentemente, di interventi che comportano conseguenze (in primis, politiche) del tutto diverse.

Il problema è allora un altro, e si rinviene nella debolezza dei poteri affidati alle istituzioni dall’art. 7 TUE per reagire a fenomeni di “moral crises” (la definizione è di K. Lane Scheppele, in C. Closa, D. Kochenov, p. 105) all’interno dell’Unione. Certamente, un salto di qualità potrebbe realizzarsi, a trattati inalterati, attraverso una coraggiosa quanto, al momento, non molto realistica presa di posizione della Corte di giustizia (e della Commissione) di intendere le crisi “sistemiche” allo stato di diritto come una violazione dell’art. 2 TUE e dei principi generali del diritto fondanti l’integrazione europea, con la conseguenza di poter ricorrere alla “tradizionale” procedura di infrazione ex art. 258 e ss. A ben vedere, questa strada appare senza grandi difficoltà perseguibile qualora la violazione della rule of law comporti una limitazione del diritto di accesso ad un giudice indipendente, e questa limitazione coinvolga anche posizioni giuridiche soggettive attribuite e tutelate dal diritto dell’Unione. Nel caso polacco, si potrebbe ritenere che la riduzione del livello di indipendenza del potere giudiziario (e del suo massimo esponente, la Corte costituzionale) rispetto ad altri poteri dello Stato provoca un vulnus al diritto ad un “ricorso effettivo”, codificato dall’art. 47, par. 1, della Carta, per tutti i casi in cui la Corte costituzionale si trovi a decidere questioni che coinvolgono il diritto dell’Unione. La procedura di infrazione potrebbe allora avere ad oggetto la violazione della Carta, posto che quest’ultima, come è noto, dal 1° novembre 2009 produce effetti giuridici obbligatori e vincola non solo le istituzioni europee ma anche gli Stati membri quando agiscono nell’attuazione del diritto dell’Unione (art. 51, par. 1, della Carta). Più difficile è estendere la portata del procedimento di infrazione al di là di casi di inadempimenti “comunitari” in senso proprio, non potendo di per sé la natura “sistemica” della violazione dei valori dell’Unione giustificare un inquadramento della fattispecie tra gli obblighi imposti agli Stati membri dal diritto dell’Unione, unici per i quali la procedura di infrazione può essere attivata.

Per queste situazioni “interne” – ma comunque lesive dello spirito di solidarietà e di lealtà reciproca che è alla base dell’integrazione europea – è sulla procedura dell’art. 7 TUE che appare necessario intervenire, nel contesto di una auspicabile nuova fase costituente di revisione dei trattati istitutivi. Un utile suggerimento potrebbe giungere, una volta di più (cfr. R. Mastroianni), dal Progetto di Trattato sull’Unione europea, elaborato con il determinante contributo di Altiero Spinelli ed approvato dal Parlamento europeo il 14 febbraio 1984. Intendiamo riferirci al quarto ed ultimo comma dell’art. 4 del Progetto di Trattato, secondo il quale “in caso di violazione grave e persistente da parte di uno Stato membro dei principi democratici o dei principi fondamentali, potranno essere adottate delle sanzioni, di cui all’art. 44 del presente trattato”. Come è evidente, si anticipavano così i contenuti dell’attuale articolo 7, par. 2, TUE, inserito nel diritto primario dell’Unione circa quindici anni più tardi. Peraltro, nell’articolo 44, dedicato alle sanzioni, il Progetto si spingeva più avanti: in primo luogo, quanto al merito, la violazione grave e persistente poteva concernere qualsiasi disposizione del Trattato, e non soltanto i principi democratici ed i diritti fondamentali; in secondo luogo, quanto alla procedura, se è vero che la decisione in merito all’adozione delle sanzioni rimaneva in capo al Consiglio europeo, la constatazione della violazione grave e persistente era affidata alla Corte di giustizia, su proposta del Parlamento o della Commissione. In effetti, se si discute del rispetto delle regole dello Stato di diritto, sembra naturale che a decidere sulla presenza o meno di una grave e persistente violazione debba essere un giudice e non gli Stati membri in sede di Consiglio. L’intervento della Corte in sede consultiva, con un meccanismo che ricorda quello, di estrema efficacia, già vigente (art. 218, par. 11, TFUE) nella procedura relativa alla conclusione degli accordi internazionali vincolanti l’Unione, conferirebbe alla procedura una veste diversa, più consona rispetto al fine che si intende perseguire e slegata da un rapporto troppo stretto con le contingenze politiche del momento.


facebooktwittergoogle_plusmailfacebooktwittergoogle_plusmail