Squadre investigative comuni: l’Italia finalmente recepisce la decisione quadro 2002/465/GAI

Il 10 marzo 2016 è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale (Serie Generale n. 58) il d. lgs. 15 febbraio 2016, n. 34 che attua nell’ordinamento italiano la decisione quadro 2002/465/GAI del Consiglio del 13 giugno 2002, relativa alle squadre investigative comuni (nel prosieguo: SIC). Il recepimento di tale decisione quadro è avvenuto sulla base della delega contenuta nell’art. 18 della c.d. legge di delegazione europea 2014 (legge 114/2015), recante «Delega al Governo per il recepimento delle direttive europee e l’attuazione di altri atti dell’Unione europea». La trasposizione della normativa in parola si poneva come un’urgenza per il legislatore italiano che, non avendo rispettato il termine ultimo per il recepimento da essa imposto – ossia il 1° gennaio 2003 – rischiava di subire una procedura di infrazione. Dal 1° dicembre 2014, infatti, non è più in vigore il regime transitorio relativo ai meccanismi di tutela giurisdizionale con riferimento agli atti di ex terzo pilastro dell’Unione europea di cui all’art. 10 del protocollo n. 36 allegato al TUE e al TFUE (su cui, cfr in questa Rivista, C. Amalfitano), con la conseguenza che la Corte di giustizia può censurare gli Stati membri che non ottemperino agli obblighi di attuazione del diritto europeo anche con riferimento al settore della cooperazione giudiziaria in materia penale.

Le squadre investigative comuni.

Il d. lgs. n. 34/2016 contiene la disciplina relativa alla costituzione ed al funzionamento delle SIC, operanti nel territorio dell’Unione europea, istituite su iniziativa di un’autorità italiana ovvero di autorità di altro Stato membro cui l’Italia sia invitata a partecipare. Le SIC costituiscono una forma di cooperazione non rogatoriale finalizzata all’accertamento e alla repressione di forme di criminalità transazionale. La novità di maggiore impatto dello strumento consiste nel fatto di non prevedere mere misure di coordinamento tra organi requirenti nazionali bensì di consentire la formazione di un gruppo investigativo internazionale che agisce nell’ambito di un obiettivo comune, operando simultaneamente nei vari Stati membri interessati dalle indagini. Tale modalità operativa dovrebbe realizzare una maggiore efficacia repressiva nei confronti di quei crimini (in particolare, traffico di droga, terrorismo, tratta di esseri umani, pedopornografia, criminalità informatica) che agiscono sempre più su scala internazionale, con conseguente frazionamento della fattispecie criminosa tra i vari Stati membri che, caratterizzandosi per normative penali talora assai difformi, determinano seri ostacoli alle attività investigative e repressive.

L’idea di costituire delle SIC risale al trattato di Amsterdam del 1997, ma la prima disciplina di dettaglio è riscontrabile solo nell’art. 13 della convenzione europea di assistenza giudiziaria in materia penale del 2000. I ritardi registrati nella ratifica di tale convenzione – che richiedeva, per entrare in vigore, l’adesione da parte di almeno otto Stati membri – oltre all’accresciuta percezione dell’importanza dello strumento, alla luce degli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001 hanno determinato il Consiglio ad adottare un nuovo strumento normativo, a carattere maggiormente vincolante. La disciplina delle SIC è stata quindi riproposta all’interno della decisione quadro 2002/465/GAI ma – nonostante le intenzioni del Consiglio – la sua attuazione negli Stati membri ha richiesto molto più tempo del previsto: solo pochissimi Stati hanno rispettato il termine del 1° gennaio 2003, mentre la maggioranza ha predisposto norme interne di attuazione solo nel corso del 2005. L’Italia, infine, è giunta a recepire la suddetta decisione quadro con ben tredici anni di ritardo rispetto al termine formale di trasposizione.

L’attuazione della disciplina nell’ordinamento italiano.

In Italia, l’istituto delle SIC non era del tutto sconosciuto. Una prima regolamentazione, infatti, era ravvisabile già nell’art. 6 della legge 367/2001 di ratifica ed esecuzione dell’accordo Italia – Svizzera che completava la convenzione europea di assistenza giudiziaria in materia penale del 1959. Un breve accenno all’istituto era riscontrabile altresì nella legge 146/2006 di ratifica della convenzione delle Nazioni Unite contro il crimine organizzato transnazionale.

Nonostante la conoscenza dell’istituto, l’iter legislativo che ha portato al recepimento della decisione quadro 2002/465/GAI in Italia è stato lungo e assai travagliato.

Già nel corso della XV legislatura, invero, era stato presentato un disegno di legge – n. 1271 – relativo alle SIC. Tale disegno di legge era poi stato approvato dal Senato il 26 gennaio 2007 ma l’iter legislativo si era concluso prematuramente a causa dello scioglimento delle Camere, dovuto alla conclusione anticipata della legislatura. Durante la XVI legislatura si sono susseguiti altri due disegni di legge in materia di SIC – n. 804 del 19 giugno 2008 e n. 841 del 26 giugno 2008 – che riproducevano integralmente il contenuto del precedente disegno di legge. Nel gennaio 2009 la Commissione Giustizia del Senato ha provveduto all’unificazione dei due testi ed il disegno di legge, così riunito, è passato all’esame del Senato che lo ha approvato il 6 aprile 2011. L’iter legislativo si è quindi nuovamente rallentato fino all’inserimento della delega legislativa al recepimento della decisione quadro 2002/465/GAI nella legge di delegazione europea 2014 che ha portato alla predisposizione del testo finale, confluito nel d. lgs. n. 34/2016, contenente – peraltro – varie modifiche rispetto ai disegni di legge precedenti.

Il ritardo con cui il nostro legislatore ha provveduto a recepire la decisione quadro 2002/465/GAI risulta tanto più grave in quanto l’Italia resta uno dei pochissimi Stati membri a non aver ancora ratificato la citata convenzione di assistenza giudiziaria in materia penale del 2000, con la conseguenza che, fino ad oggi, è mancata ogni base giuridica per costituire ovvero partecipare ad una SIC nel territorio dell’Unione europea. A questo proposito, giova sottolineare che è all’esame del Senato il disegno di legge – n. 1460 – relativo alla ratifica ed esecuzione della menzionata convenzione del 2000. Dato che quest’ultima contiene già al suo interno la disciplina delle SIC ne discende che, una volta ratificata in tutti gli Stati membri, cesseranno di produrre effetti le disposizioni della decisione quadro 2002/465/GAI, con salvezza – tuttavia – delle singole normative interne di attuazione.

La disciplina delle squadre investigative comuni secondo il d. lgs. n. 34/2016.

Il d. lgs. n. 34/2016 consta di otto articoli che delineano una normativa di attuazione speciale in quanto non incidono – tranne in minima parte – sul codice di procedura penale. Tale scelta redazionale è stata giustificata alla luce della portata limitata e specifica delle disposizioni contenute nella decisione quadro 2002/465/GAI, che si coordinano con la normativa sostanziale e processuale penale del nostro ordinamento grazie ad una serie di richiami, presenti nel testo del decreto legislativo. Esso si articola sostanzialmente in due ipotesi: la prima concerne la procedura di costituzione di una SIC su iniziativa di un’autorità requirente italiana (art. 2); la seconda riguarda il caso in cui sia la competente autorità di altro Stato membro ad invitare il suo corrispondente italiano a formare una SIC, per indagare su una determinata fattispecie criminosa di interesse comune (art. 3).

 La costituzione della squadra investigativa comune su iniziativa italiana.

Quanto alla prima delle predette ipotesi, il nostro legislatore ha individuato, quale autorità competente ad esercitare l’iniziativa volta alla costituzione di una SIC, il Procuratore della Repubblica «quando procede a indagini relative ai delitti di cui agli articoli 51, commi 3-bis, 3-quater e 3-quinquies, e 407, comma 2, lettera a), del codice di procedura penale o a delitti per i quali è prevista la pena dell’ergastolo o della reclusione superiore nel massimo a cinque anni». Si tratta – come è noto – di condotte criminose gravi e sovente caratterizzate da portata transnazionale, circostanza da sé sufficiente a giustificare il ricorso alla costituzione di una SIC. La formulazione rigida del primo comma dell’art. 2 è temperata, tuttavia, dal comma successivo che consente al Procuratore della Repubblica di promuovere la formazione di una SIC altresì in diverse ipotesi, in cui specifiche valutazioni di efficienza delle indagini inducano a ritenere opportuna l’istituzione di una SIC. Si tratta, in particolare, delle ipotesi in cui «al di fuori dei casi di cui al comma 1, la richiesta può essere formulata anche quando vi è l’esigenza di compiere indagini particolarmente complesse sul territorio di più Stati membri o di assicurarne il coordinamento». In questo modo, il legislatore ha allargato il novero di reati per combattere i quali è consentita l’istituzione delle SIC, coerentemente con quanto previsto dalla decisione quadro 2002/465/GAI che non contempla alcuna limitazione quanto alla tipologia di reato perseguito. Si noti, inoltre, che è stato eliminato il riferimento – contenuto nell’art. 1 lett. a) della decisione quadro 2002/465/GAI – al requisito del «collegamento tra le indagini», così da rendere possibile costituire la squadra anche qualora vi sia una sola indagine complessa, che richiede un’azione investigativa coordinata in più Stati membri. L’art. 2 si premura, infine, di assicurare il coordinamento tra i vari uffici della Procura della Repubblica, stabilendo a carico del pubblico ministero procedente un onere di informazione rivolto – a seconda dei casi – al Procuratore Generale presso la Corte d’Appello ovvero al Procuratore nazionale antimafia o antiterrorismo.

La partecipazione dell’Italia a squadre investigative comuni su iniziativa di altro Stato.

Passando all’esame della seconda ipotesi disciplinata dal d. lgs. n. 34/2016 – riguardante la procedura di costituzione di una SIC su richiesta dell’autorità competente di un altro Stato membro – preme evidenziare l’apprezzabile scelta del nostro legislatore di ridurre quasi del tutto il vaglio politico del Ministro della Giustizia sulla decisione di aderire ad una SIC, in linea con le più recenti tendenze volte alla completa giurisdizionalizzazione delle procedure di cooperazione giudiziaria europea in materia penale. Infatti, mentre nelle prime bozze del disegno di legge (in particolare in quello approvato il 6 aprile 2011) si attribuiva un vero e proprio potere di veto al Ministro della Giustizia – il quale poteva impedire la partecipazione delle autorità italiane ad una SIC, qualora ci fossero ragioni di temere una compromissione della sicurezza dello Stato – nell’attuale testo di legge tale potere è rimesso al Procuratore della Repubblica. Egli, infatti, può decidere di non dare corso alla richiesta di costituire una SIC qualora questa comporti il compimento di atti «espressamente vietati dalla legge o contrari ai principi fondamentali dell’ordinamento giuridico italiano», nel qual caso egli è tenuto ad effettuare una mera comunicazione al Ministro della Giustizia nonché, naturalmente, alle autorità richiedenti degli altri Stati coinvolti. Non si comprende, tuttavia, se – ricevuta la comunicazione – permanga in capo all’organo politico uno spazio per eventuali valutazioni di opportunità oppure se questo debba limitarsi a prendere conoscenza della decisione dell’autorità giudiziaria. In ogni caso, è certo che il rifiuto di dare corso alla costituzione della SIC non preclude all’autorità straniera la possibilità di rinnovare la richiesta, purché sia rispettosa dei principi cardine dell’ordinamento giuridico italiano. Sempre con riferimento all’art. 3, è interessante notare il tentativo di semplificare la procedura di trasmissione della richiesta tra autorità giudiziarie con l’obiettivo, in particolare, di non attribuire conseguenze eccessivamente pregiudizievoli all’eventuale trasmissione della richiesta ad un’autorità italiana non competente nel caso concreto. Il comma 2 prevede, infatti, che «il Procuratore della Repubblica che riceve la richiesta di cui al comma 1, se ritiene che essa interessi altro ufficio del pubblico ministero, la trasmette immediatamente, dandone avviso all’autorità straniera richiedente». In questo modo, la richiesta giungerà all’ufficio del pubblico ministero titolare delle indagini che richiedono un’azione concertata con lo Stato estero richiedente, senza subire i ritardi di un eventuale rifiuto e conseguente rinnovazione della richiesta.

L’accordo costitutivo: la composizione della squadra.

Uno degli aspetti certamente più delicati e complessi della disciplina delle SIC concerne la redazione dell’accordo costitutivo (art. 4) da parte dei rappresentanti degli Stati partecipanti. Mediante tale accordo, infatti, vengono disciplinati aspetti essenziali della composizione e del funzionamento della SIC, quali – ad esempio – i poteri dei partecipanti, l’oggetto e le finalità delle indagini etc.

Le scelte del nostro legislatore in merito alla composizione della SIC meritano qualche riflessione in quanto si distaccano parzialmente dalle indicazioni contenute nella decisione quadro 2002/465/GAI. L’art. 4 comma 2 lett. a) del d. lgs. n. 34/2016, infatti, prevede che l’atto costitutivo debba indicare i componenti della SIC, i quali vengono distinti in due categorie: i membri nazionali, cioè agenti e ufficiali di polizia giudiziaria dello Stato membro di intervento, nonché uno o più magistrati dell’ufficio del pubblico ministero che ha sottoscritto l’atto costitutivo, ed i membri distaccati, cioè i «componenti della squadra appartenenti ad altri Stati membri».

Fin qui, la disciplina del d. lgs. n. 34/2016 coincide perfettamente con quanto previsto dalla decisione quadro 2002/465/GAI ed, in particolare, con il disposto dell’art. 1 comma 4. Il legislatore italiano, tuttavia, ha consapevolmente deciso di ignorare l’invito – contenuto nell’art. 1 comma 12 della decisione quadro – a consentire la partecipazione alla SIC altresì a «persone diverse dai rappresentanti delle autorità competenti degli Stati membri che costituiscono la squadra», espressione che si riferisce a funzionari di organismi istituiti ai sensi del TUE, tra cui, certamente, membri di Europol, dell’OLAF, rappresentanti di organismi internazionali, nonché dell’allora costituenda Eurojust. L’esclusione di tali soggetti dalle SIC istituite ai sensi del d. lgs. n. 34/2016, è stata giustificata con l’obbligo di mantenere il segreto sugli atti di indagine del pubblico ministero e della polizia giudiziaria, come previsto dall’art. 329 c.p.p. Pur nella consapevolezza della legittimità della scelta compiuta dal legislatore italiano – che ha sfruttato una possibilità espressamente concessa dalla decisione quadro – ci si può interrogare sulla sua opportunità, a fronte del ruolo sempre più importante che tali organismi assumono nel coordinamento centralizzato delle operazioni di cooperazione giudiziaria e di polizia nel territorio dell’Unione europea. La partecipazione di organismi – quali Europol ed Eurojust – alle SIC, lungi dal mettere a rischio il buon esito delle indagini (e fermo restando che non sarebbero loro attribuiti ruoli attivamente investigativi), potrebbe risultare determinante al fine di risolvere eventuali difficoltà di coordinamento tra i membri della squadra, monitorarne il funzionamento, nonché fornire eventuali informazioni supplementari. È utile ricordare, inoltre, che – come previsto dall’art. 5 comma 2 n. 4 della legge 41/2005di attuazione della decisione istitutiva di Eurojust – il membro nazionale conserva un potere di impulso nei confronti dell’autorità giudiziaria per la creazione di una SIC.

Un altro aspetto poco chiaro, circa la composizione della SIC, riguarda la determinazione del soggetto preposto a dirigerla. La decisione quadro 2002/465/GAI si mostra coerente al principio della lex loci (secondo cui – come noto – la SIC opera conformemente al diritto nazionale dello Stato membro in cui interviene), stabilendo che la direzione della squadra debba spettare al rappresentante dello Stato membro nel quale di volta in volta essa interviene. Una soluzione di questo tipo, tuttavia, denota criticità che discendono dalla circostanza che il capo della squadra debba mutare ogni volta in cui l’indagine si sposti da uno Stato membro ad un altro, con possibili ricadute negative sull’efficienza organizzativa della squadra.

Il legislatore italiano sembra aver considerato questa circostanza laddove prevede (art. 4 comma 2 lett. b) che la designazione del direttore della squadra avvenga in via convenzionale in sede di redazione dell’atto costitutivo. Tuttavia, se si prosegue nella lettura dell’articolo in parola, ci si avvede che, al comma 6, è disposto perentoriamente che sia il pubblico ministero italiano a dirigere la SIC, quando questa operi in territorio italiano, nel rispetto dell’art. 327 c.p.p. Ne discende che – qualora il direttore della squadra, nominato nell’accordo costitutivo, non appartenga all’autorità giudiziaria italiana e le indagini si spostino nel nostro Paese – la guida della squadra dovrà necessariamente mutare in favore del membro italiano. Si dovranno attendere le prime esperienze concrete per verificare la validità di siffatta soluzione, evidentemente tesa a valorizzare il dogma della sovranità nazionale.

 L’accordo costitutivo: oggetto, finalità e durata delle indagini.

Come accennato, l’atto costitutivo della SIC deve contenere altresì l’indicazione dell’oggetto e della finalità delle indagini (art. 4 comma 2 lett. c) nonché della loro durata (art. 4 comma 2 lett. d). Ciò non dovrebbe comportare un’eccessiva rigidità nello svolgimento delle attività della SIC in quanto è consentito modificare in corso di svolgimento obiettivi ed oggetto dell’indagine, coerentemente con le sopravvenute esigenze investigative ed organizzative.

Quanto alla delicata questione della durata delle indagini svolte dalla SIC, la soluzione prescelta dal nostro legislatore consiste nel non limitarne rigorosamente la durata. Si prevede, infatti, che i membri della SIC – in sede di redazione dell’accordo costitutivo – stabiliscano in via convenzionale un termine entro cui ragionevolmente le attività investigative dovrebbero concludersi, salva possibilità di proroga ai sensi dell’art. 4 comma 4. Tale proroga non necessita di autorizzazione da parte di un’autorità giudiziaria ma, benché non espressamente indicato, dovrà rispettare i termini massimi di durata delle indagini ex art. 405 e ss. del nostro codice di procedura penale. Il nostro legislatore, dunque, mostra di ritenere implicito il rispetto delle norme procedurali del nostro ordinamento; in particolare, essendo le SIC nient’altro che uno strumento di indagine al pari di ogni altro, esse dovranno soggiacere al termine generale di durata stabilito dal nostro ordinamento per gli atti compiuti in fase di indagini preliminari. Se questa tecnica legislativa può ritenersi accettabile per quanto concerne la questione della durata delle indagini, maggiori dubbi potrebbe sollevare con riferimento alla delicatissima problematica dell’utilizzabilità processuale delle prove acquisite dai membri della SIC.

L’utilizzabilità delle informazioni investigative e degli atti di indagine: profili problematici.

La concreta efficacia dell’istituto delle SIC e l’idoneità a porsi come valida alternativa agli strumenti rogatoriali dipende strettamente dalle regole in materia di circolazione ed utilizzazione delle informazioni, raccolte dai membri della squadra.

Si consideri, peraltro, che agli atti di indagini compiuti dalla SIC non sembrano potersi applicare le norme ed i principi giurisprudenziali elaborati in tema di rogatoria, stante la grande diversità dei due istituti. Per questo motivo, le disposizioni del d. lgs. n. 34/2016 che trattano questo profilo rappresentano indubbiamente il banco di prova dell’intera disciplina, quantomeno sul piano dell’ordinamento interno.

L’art. 6 comma 4 si occupa di stabilire un regime di limitata utilizzabilità delle informazioni legittimamente ottenute dei componenti della squadra, che possono essere utilizzate per una serie di finalità prestabilite tra cui emergono, in primis, quelle pattuite in sede di redazione dell’accordo costitutivo (lett. a). A ciò si aggiunge la possibilità di utilizzare le medesime informazioni altresì allo scopo di individuare, indagare e perseguire altri reati (lett. b), a condizione che vi sia il consenso dello Stato membro interessato, il quale tuttavia può rifiutarlo solo qualora ciò possa pregiudicare le indagini da esso stesso condotte. È poi possibile fare uso delle informazioni ottenute dalla squadra per scongiurare una minaccia immediata e grave alla sicurezza pubblica (lett. c) nonché per altri scopi concordemente stabiliti dagli Stati costituenti la SIC (lett. d). È evidente come tale ultima disposizione funga da clausola di chiusura, consentendo – di fatto – ampia libertà agli Stati partecipanti alla SIC. L’art. 6 comma 5 autorizza, poi, il Procuratore della Repubblica che ha sottoscritto l’accordo costitutivo a chiedere agli altri membri di ritardare l’utilizzazione delle informazioni ottenute dalla squadra, per un periodo massimo di sei mesi, al fine di non pregiudicare indagini in corso in Italia.

Le disposizioni appena citate adoperano un concetto assai vago di utilizzabilità e trascurano l’aspetto centrale della questione, afferente all’utilizzabilità processuale, nel nostro ordinamento, degli atti di indagine compiuti all’estero dai membri della SIC.

Punto di partenza per ragionare sull’argomento è la scelta del legislatore europeo di adottare il principio della lex loci (art. 1 comma 3 della decisione quadro 2002/465/GAI), fatto proprio anche dal legislatore italiano che – come anticipato – all’art. 6 primo comma del d. lgs. n. 34/2016, prevede che «la squadra investigativa comune opera sul territorio dello Stato in conformità alla legge italiana». Ne discende che – quantomeno per gli atti di indagine compiuti in Italia sulla base della legge italiana – non dovrebbero porsi problemi di utilizzabilità nel nostro ordinamento. Più incerto appare il destino degli atti di indagine compiuti all’estero dai membri della SIC: invero, si è previsto, all’art. 6 comma 2, che i verbali degli atti irripetibili possano entrare nel fascicolo del dibattimento ai sensi dell’art. 431 del codice di procedura penale, che viene quindi modificato per effetto della presente disciplina.

Quanto agli atti ripetibili, inizialmente l’art. 6 comma 3 sembrava ammettere un’indiscriminata utilizzabilità degli atti compiuti all’estero congiuntamente con l’autorità straniera o nell’ambito delle SIC che si prevedeva avessero «la stessa efficacia degli atti corrispondenti compiuti secondo le norme del codice di procedura penale». La disposizione, così formulata, suggeriva una totale parificazione tra gli atti di indagine compiuti in Italia secondo la legge italiana e quelli compiuti all’estero sulla base della lex loci. Pur nella consapevolezza dell’assoluta necessità di favorire la libera circolazione della prova penale nello spazio europeo di libertà, sicurezza e giustizia, non si può prescindere dal rispetto dei principi fondamentali del nostro ordinamento nonché dall’osservanza di alcune regole cardine in materia di raccolta e formazione della prova, con particolare riferimento a quelle volte a tutelare i diritti fondamentali dei soggetti coinvolti nel procedimento penale. Probabilmente, il nostro legislatore non intendeva imporre, ex abrupto, l’utilizzabilità processuale interna di ogni tipo di prova – comunque e ovunque raccolta dalla SIC – quanto piuttosto considerava scontato il rispetto delle disposizioni del nostro codice di procedura penale in materia probatoria, utilizzando la medesima tecnica redazionale già sperimentata nell’art. 4, in tema di durata massima delle indagini.

La centralità e la delicatezza della questione, tuttavia, ha determinato un ripensamento da parte del legislatore italiano che ha modificato l’art. 6 comma 3, aggiungendo la precisazione per cui i risultati probatori degli atti di indagine compiuti all’estero dai membri della squadra sono utilizzabili «secondo la legge italiana». Ne discende che tali atti non saranno automaticamente utilizzabili in un processo penale in corso in Italia, ma dovranno costituire oggetto di vaglio da parte dell’autorità giudiziaria, sulla base degli ordinari parametri probatori. Questa soluzione, per quanto più equilibrata della precedente, non soddisfa del tutto, stante il rischio di determinare la sostanziale inutilizzabilità dello strumento nel caso di un atteggiamento troppo rigido da parte delle nostre autorità giudiziarie.

Sarebbe stato (probabilmente) più opportuno – come peraltro suggerito dalla risoluzione del Consiglio del 26 febbraio 2010 sul modello di accordo volto alla costituzione di una squadra investigativa comune – prevedere l’individuazione di modalità condivise di acquisizione probatoria direttamente nell’accordo costitutivo ed, in particolare, nel c.d. «piano d’azione operativo», previsto dall’art. 4 comma 3. Tale piano – si legge nella norma – è allegato all’atto costitutivo e contiene l’indicazione delle misure organizzative e delle modalità di esecuzione delle indagini; proprio per la sua natura di “atto organizzativo” ben si presterebbe a contenere l’indicazione dei principi fondamentali e delle regole probatorie da seguire nel compimento degli atti di indagine, al fine di assicurare, nella massima misura possibile, la successiva utilizzabilità processuale del materiale investigativo raccolto. Questa soluzione permetterebbe, da una parte, di non rinunciare alle garanzie fondamentali previste dal nostro ordinamento in materia di raccolta e formazione della prova penale e, dall’altra, di consentire ugualmente l’ingresso nel nostro ordinamento di prove assunte in modo non totalmente conforme alle regole del codice di procedura penale, scongiurando così il rischio di rendere lo strumento concretamente inservibile. Ovviamente, le modalità di acquisizione delle prove indicate nel piano operativo dovrebbero almeno uguagliare lo standard di tutela previsto dalle direttive europee in materia di diritti procedurali dei soggetti indagati ed imputati in procedimenti penali (ad oggi, la 2010/64/UE, la 2012/13/UE, e la 2013/48/UE, nonché quelle che saranno adottate in attuazione del pacchetto di misure presentato dalla Commissione nel novembre 2013).

La responsabilità, civile e penale, dei membri della squadra investigativa comune.

Quanto alla responsabilità civile dei membri della SIC l’art. 7 prevede, in generale, l’obbligo di risarcire i danni causati a terzi nel corso delle attività investigative della squadra, conformemente al diritto dello Stato membro di intervento. In linea con le indicazioni fornite dalla decisione quadro, il nostro legislatore ammette che sia l’Italia a risarcire il danno verificatosi nel proprio territorio, quand’anche provocato da un membro distaccato, salvo il diritto di rivalsa sullo Stato di provenienza dello stesso. Tale regola vale, mutatis mutandis, quando a causare danni all’estero sia il componente italiano della squadra.

Ai fini della responsabilità penale, invece, l’art. 5 primo comma, stabilisce che i membri distaccati della SIC assumano lo status di pubblico ufficiale, con contestuale attribuzione delle funzioni di polizia giudiziaria, quando svolgono attività di indagine nel nostro Paese. A parziale deroga dell’equiparazione – quanto a status e poteri – tra membri nazionali e distaccati, il secondo comma consente al pubblico ministero di escludere i membri distaccati dal compimento di singoli atti investigativi in territorio italiano. Tale possibilità è contemplata anche dall’art. 1 comma 5 della decisione quadro, benché strettamente limitata a ‹‹ragioni particolari››. Il legislatore italiano ha rinunciato a predisporre un elenco, anche solo esemplificativo, di tali ragioni, preferendo lasciare ampia discrezionalità in capo all’organo requirente, con il solo limite di motivare la sua decisione. Sembra ragionevole auspicare che si faccia un uso quanto più ristretto possibile di questa facoltà, a fronte della finalità dell’istituto in esame, volto alla massima collaborazione e alla piena circolazione di informazioni e competenze all’interno della squadra.

Conclusione. Uno sguardo al panorama complessivo.

Il d. lgs. n. 34/2016 si inserisce in un contesto normativo europeo decisamente mutato rispetto al 2002, anno in cui è stata adottata la decisione quadro SIC.

Nel corso degli ultimi anni, infatti, l’Unione europea ha cercato di far fronte alla globalizzazione del crimine con una serie di misure volte a rafforzare la cooperazione giudiziaria e di polizia tra Stati membri. In particolare, nell’ottica di una sempre maggiore fiducia reciproca, si è assistito ad una proliferazione di strumenti di reciproco riconoscimento delle decisioni penali, che hanno talvolta raggiunto risultati considerevoli (si pensi alla decisione quadro 2002/584/GAI sul mandato d’arresto europeo). Più recentemente, il legislatore europeo ha inteso applicare la logica del reciproco riconoscimento altresì alla materia della circolazione delle prove penali. Il progetto si è concretizzato con l’adozione della direttiva 2014/41/UE sull’ordine europeo di indagine penale: si tratta di uno strumento di acquisizione probatoria transnazionale dotato di un campo di applicazione esteso a tutte le misure investigative ad eccezione delle osservazioni transfrontaliere e della costituzione di una SIC, con la conseguenza che il recepimento in Italia della suddetta direttiva (disposto dal punto 23 dell’allegato Bdella legge di delegazione europea 2014) non modificherà il regime relativo all’istituzione delle SIC. In realtà, la disciplina dell’ordine europeo di indagine penale tornerebbe applicabile nel caso in cui servisse l’assistenza di uno Stato membro non partecipante alla squadra; proprio per questo motivo, non si comprende come mai il legislatore italiano non abbia ritenuto necessario recepire l’art. 1 comma 8 della decisione quadro 2002/465/GAI, che regolamenta questa specifica ipotesi.

In ogni caso, pur nell’autonomia delle due discipline, non si può ignorare che la direttiva 2014/41/UE ha riproposto le medesime incertezze – in ordine all’utilizzabilità delle prove allogene nell’ordinamento del foro – di cui si è qui discusso, con riferimento alle prove raccolte dalle SIC (su cui, cfr. L. Camaldo, in Diritto Penale Contemporaneo).

È evidente che si tratta – ancora oggi – del problema cardine di ogni disciplina in materia di circolazione delle prove penali raccolte nel contesto di investigazioni transnazionali. Si rinnova, quindi, l’invito a riflettere sull’esigenza per gli Stati membri di intraprendere una seria opera di armonizzazione delle legislazioni nazionali in materia di prove penali, resa possibile dall’art. 82 par. 2 lett. a) del TFUE, quale unico modo per risolvere in modo effettivo e non frammentario la questione dell’utilizzabilità delle prove allogene. Solo superando la profonda eterogeneità delle normative processuali dei vari Stati membri – quanto meno in ordine ai criteri per l’ammissibilità della prova – si potrebbe infatti garantire la piena efficacia dell’attività delle SIC.


facebooktwittergoogle_plusmailfacebooktwittergoogle_plusmail