Settanta anni dopo
Il raggiungimento dei settanta anni, che nella vita umana è (o meglio, era) considerato un termine naturale, tale non è mai stato per le istituzioni. Tanto meno lo è per una realtà così imponente quale l’Unione europea. Quando Robert Schumann diffuse il 9 maggio 1950 la dichiarazione che sta all’origine della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (Ceca), predisposta da Jean Monnet, ancora aperte erano le ferite delle due guerre terribili che avevano insanguinato il mondo per responsabilità precipua delle potenze europee. L’ideale di un’unione politica di stampo federale si era affermata con il supporto di un’intensa partecipazione dell’opinione pubblica dell’Europa continentale ed aveva condotto, nel 1954, sino alla soglia di una costituzione federale. Ma il fallimento della Comunità europea di difesa non distolse chi credeva nella validità del progetto di unione. E fu anzitutto Jean Monnet a promuovere l’iniziativa puntando sull’unione economica dei Sei Paesi fondatori, già presenti nella Ceca. Venne ripreso il cammino, che condusse alla Comunità economica (Cee) varata nel 1957 poi divenuta Unione europea nel 1992, quindi alla votazione a suffragio universale del Parlamento europeo del 1979, all’Atto unico del 1986, ai Trattati di Amterdam (1997), di Nizza (2000) e di Lisbona (2007) e sino al presente.
L’intuizione di colui che si deve considerare il padre del processo di integrazione e della sua impalcatura istituzionale, Jean Monnet, era semplice. L’unione politica europea non si sarebbe potuta raggiungere di slancio, con un solo passo, ma andava perseguita procedendo per gradi, con la messa in opera di successive realizzazioni concrete. Queste creeranno – così si esprime la dichiarazione del 1950 – una progressiva “solidarietà di fatto” che potrà nel tempo condurre al risultato voluto. E’ importante comprendere che questa formula portava in sé un’idea fondamentale.Le forze avverse al processo ci sarebbero state, bene attrezzate a contrastare la creazione di un ordine nuovo”, che già Machiavelli aveva con lucidità dichiarato essere sempre difficile, perché fragile nei riguardi di tutto il complesso consolidato degli ordini esistenti. E allora la “solidarietà di fatto” evocata da Monnet e da Schumann implicava ed implica una convergenza dei valori e degli interessi: il mercato, la moneta, ma anche la coesione, anche la sicurezza rispondono ad interessi comuni, in quanto la loro progressiva realizzazione premia le iniziative e le forze economiche più convenienti per i cittadini, per i consumatori e per le imprese dinamiche; in pari tempo queste realizzazioni rappresentano altrettanti valori condivisi, che includono, accanto al benessere, la sicurezza, la stabilità della moneta e del risparmio, lo sviluppo delle regioni meno prospere, la ricerca scientifica ed altro ancora.
L’ispirazione di base dell’Unione era quella di un progetto politico. E tale ne è indubbiamente ancor oggi il fondamento, come risulta evidente dalla lettura dei primi articoli del Trattato sull’Unione europea, oltre che della Carta dei diritti del 2000, ora integrata nei Trattati di Lisbona. Questo percorso ormai lungo ha attraversato fasi diverse, estendendosi nel tempo dal mercato comune al mercato unico, quindi all’unione monetaria ed ormai – quantunque in buona parte ancora soltanto in linea di principio – anche alla politica estera e alla difesa, oltre che alla giustizia alla sicurezza. Non senza gli ostacoli, i ripetuti momenti di crisi che tutti conosciamo.
Ma proprio Monnet aveva visto con chiarezza e dichiarato sin dal principio che l’Europa si sarebbe costruita attraverso le crisi, sarebbe stata la risultante delle risposte alle crisi. E dunque, come non riconoscere che oggi proprio le crisi planetarie che gravano sul presente e sul futuro dell’umanità stanno determinando risposte europee altrimenti impensabili? La minaccia climatica, la drastica diminuzione della biodiversità, la pandemia attuale e quelle del futuro, la rivoluzione informatica e digitale, la manipolazione genetica con i gravissimi rischi connessi: questo formidabile complesso di sfide impone di farvi fronte a livello planetario, perché si tratta di rischi non evitabili con chiusure nazionali in un mondo ormai irreversibilmente globalizzato. Ritenere che queste realtà del presente abbiano sminuito, se non addirittura esaurito significato del progetto europeo, questo convincimento, pur presente in una parte dell’opinione pubblica, sarebbe tuttavia infondato. Va tenuto presente che la regione del mondo nella quale maggiore è la consapevolezza che di fronte alle sfide globali occorre una risposta tale da superare i livelli nazionali è proprio l’Europa. E il progetto istituzionale che sta operando in queste direzioni, pur faticosamente ma certo assai meglio rispetto alle politiche messe in atto dalle grandi potenze, è proprio quello che si sta concretando con l’Unione europea. Ed è chiaro che già da oggi che solo un’entità politica di livello continentale può sperare di influire sulle grandi scelte per il futuro. Nessuno Stato europeo ha le dimensioni necessarie e sufficienti.
L’opinione pubblica europea di questo appare consapevole. E non a caso è pur sempre a favore dell’Unione, chiede più Europa, nonostante le rinascenti pulsioni sovraniste e nazionaliste, alimentate anche dalle crisi. I sondaggi recenti dimostrano senza ambiguità questa perdurante tendenza pro-europea. L’elezione europea del 2019 lo ha chiaramente dimostrato. E senza la pronuncia dei tre quarti dei votanti a sostegno dei quattro maggiori partiti pro-europei, ora presenti e attivi nel Parlamento europeo della legislatura 2019-2024, al vertice della Commissione non sarebbe stata votata dal Parlamento stesso una Presidente che del Green Deal ed ora del Health Deal ha fatto il centro del proprio programma di governo. Senza la pandemia, il Consiglio europeo non avrebbe infine messo in cantiere un processo di accrescimento sostanziale del bilancio dell’Unione, condizione per gli investimenti necessari su questi fronti come su altri. La democrazia, con tutti i suoi limiti che sperimentiamo ogni giorno, è ancora lo strumento migliore per portare avanti ideali politici condivisi. Conta peraltro anche quella che sempre Machiavelli denominava la “fortuna”: cioè le opportunità che la storia offre a chi sappia coglierle per avanzare. Senza la parziale retromarcia degli Stati Uniti non si sarebbe, dopo decenni di stasi, riavviato un programma di difesa e di sicurezza comune in Europa.
L’Unione europea non soltanto ha garantito ai cittadini europei un settantennio di pace senza precedenti dalla fine dell’Impero romano, ma ha prodotto nel tempo un innalzamento straordinario del livello di benessere individuale e collettivo, coniugato e stimolato con puntuali interventi di politica agraria, di politica industriale, di politica sociale, di solidarietà. E’ stata inoltre determinante nel ritorno alla democrazia di Paesi come la Spagna, il Portogallo, la Grecia e gli Stati dell’Europa orientale dopo la caduta dell’impero sovietico. E’ una costruzione politica e istituzionale che conferma la tesi per la quale, a fronte dei limiti e dei difetti dei singoli e delle collettività, che non sono mai visibilmente diminuiti nel corso della storia, solo le istituzioni offrono la possibilità di evolvere nel tempo diventando “più sagge”. L’Unione europea ne offre un esempio tra i più illuminanti.
E tuttavia la grandiosa cattedrale dell’Unione ad oggi non è compiuta. L’esito è tuttora incerto, come sempre incerto è il futuro della storia umana. Ancora per troppe materie di competenza dell’Unione il potere di governo al livello europeo è debole, il diritto di veto anche di un singolo Governo nazionale paralizza le decisioni, il Parlamento che ci rappresenta come cittadini europei non ha in troppe materie cruciali il necessario potere di codecisione, né può porre in atto una vera fiscalità comune fondata su risorse proprie. Ma la situazione è in movimento, grazie anche alle spinte impresse dalle crisi. E dunque l’intuizione dei padri fondatori, da Altiero Spinelli a Jean Monnet, ma anche di altri grandi personaggi dell’Europa di questo settantennio, resta più che mai valida e attuale.
Antonio Padoa Schioppa, professore emerito di Storia del diritto medievale e moderno nell’Università degli Studi di Milano