Secondo atto del dialogo pregiudiziale sulle garanzie europee del giudice onorario italiano

 1. Lo scorso 7 aprile 2022, la Corte di giustizia dell’Unione europea è ritornata sulle tutele lavoristiche e di politica sociale dettate dall’Unione, con riferimento al giudice non togato italiano (Corte giust., 7 aprile 2022,  causa C-236/20, PG c. Ministero della Giustizia e a.).

Il rinvio pregiudiziale è stato posto dal TAR Emilia Romagna adito per dirimere una controversia avente ad oggetto l’accertamento dell’esistenza di un rapporto di lavoro di pubblico impiego, a tempo pieno o a tempo parziale, tra il giudice di pace e il Ministero della Giustizia.

L’ordinanza di rinvio solleva tre quesiti pregiudiziali. Il primo interroga la Corte sulla compatibilità della normativa italiana secondo cui i giudici di pace non sono equiparati ai giudici ordinari quanto al trattamento economico, assistenziale e previdenziale e del tutto esclusi da forme di tutela assistenziale e previdenziale garantita al lavoratore subordinato pubblico con la Carta dei diritti fondamentali dell’UE e con quattro direttive europee. Precisamente, le direttive: 1999/70/CE sul lavoro a tempo determinato; 1997/81/CE sul lavoro a tempo parziale; 2003/88/CE sull’orario di lavoro e 2000/78/CE in tema di parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro. Analogamente, il secondo ripropone la prima questione in relazione ai principi dell’UE in tema di autonomia e indipendenza della funzione giurisdizionale di cui all’art. 47 della Carta. Infine, il terzo chiede se l’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, allegato alla direttiva 1999/70/CE, ammetta che l’incarico a tempo determinato dei giudici di pace, fissato in otto anni complessivi, possa essere sistematicamente prorogato di ulteriori quattro, senza la previsione di alcuna sanzione effettiva e dissuasiva in alternativa alla trasformazione in rapporto a tempo indeterminato.

2. Va osservato che non è la prima volta che il giudice italiano chiede l’intervento chiarificatore del giudice UE in merito allo status della nostra magistratura elettiva ai sensi del diritto UE.

Il precedente importante risale all’estate 2020 (Corte giust., 16 luglio 2020, causa C-658/18, Governo della Repubblica italiana, caso UX), quando la Corte UE ha dato un primo inquadramento europeo al giudice di pace, in merito all’esercizio di funzioni giurisdizionali, alla tipologia contrattuale, alla nozione di lavoratore e, in particolare, al diritto di beneficiare di ferie annuali retribuite al pari dei magistrati togati, qualora il giudice nazionale accerti che le situazioni sono comparabili e che non ci siano ragioni obiettive in grado di giustificare trattamenti differenti (C. PesceIl giudice di pace italiano al vaglio della Corte di giustizia UE. Nota a sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea del 16 luglio 2020, causa C-658/18, Governo della Repubblica italiana, in Eurojus, 2020).

Nondimeno, il giudice nazionale ha ritenuto opportuno che il giudice UE ritornasse sulla questione, al fine di definire i profili di incompatibilità tra il diritto dell’Unione e la normativa interna, a suo dire, ancora inesplorati e di orientare il giudice nazionale, fortemente responsabilizzato dopo la pronuncia UX.

Motivando la necessità di una seconda pronuncia, il giudice remittente pone alla Corte UE interrogativi nuovi o, comunque, di più ampio respiro rispetto a quelli del caso UX, tesi ad accertare, in riferimento al diritto primario e derivato UE, lo status giuridico di pubblico dipendente del giudice non di carriera e la posizione giuridica, economica, assistenziale e previdenziale spettante alla magistratura elettiva.

La sentenza non tradisce le aspettative e, nella parte conclusiva, fornisce risposte interpretative esaurienti non prive di ripercussioni (v. infra).

La parte iniziale sembra, invece, confutare l’ordinanza di rinvio. Così, il primo quesito, considerato ammissibile solo in parte, è risolto dal giudice UE, operando, in buona sostanza, un rinvio alla giurisprudenza UX. Un epilogo preannunciato avendo la Corte già affrontato la condizione giuridica del magistrato elettivo (C. Pesce, La magistratura onoraria italiana alla luce del diritto dell’Unione europea, su rivista.eurojus.it, 2021). Diversa sorte tocca al secondo quesito per il quale il giudice UE conclude di non disporre degli elementi di fatto e di diritto necessari per pronunciarsi in modo utile. Invero, la mancata pronuncia sul punto non sembra lasciare il giudice a quo privo di indicazioni, dal momento che il secondo quesito – riguardante i principi UE di autonomia e di indipendenza giurisdizionale (art. 47 Carta) – ricalca la prima questione e può dirsi così assorbito. Nondimeno, nulla esclude che, qualora il dubbio interpretativo persista, il dialogo pregiudiziale continui a condizione, però, che il quesito sia elaborato in maniera funzionale.

3. Il terzo quesito, come già detto, riguarda la compatibilità con la clausola 5 dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato della normativa nazionale, in forza della quale un simile rapporto di lavoro può essere oggetto, al massimo, di tre rinnovi successivi, ciascuno di quattro anni, per una durata totale non superiore a sedici anni, e che non prevede la possibilità di sanzionare il rinnovo abusivo di simili rapporti di lavoro.

Come è noto, la clausola menzionata prevede tutele minime tese ad evitare la precarizzazione dei lavoratori dipendenti attraverso il ricorso ad una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato in danno dei lavoratori. La disposizione non impone la conversione del rapporto a tempo indeterminato, ma richiede agli Stati membri di prevedere un meccanismo sanzionatorio effettivo e dissuasivo.

In sintonia con le pronunce europee sul precariato e con quanto poteva apparire abbastanza plausibile (C. Pesce, La magistratura onoraria italiana, cit.), la sentenza qui segnalata ribadisce che una normativa nazionale, che vieta la trasformazione di una successione di contratti a tempo determinato in contratto di lavoro pubblico a tempo indeterminato, può essere considerata conforme all’accordo quadro, qualora preveda una misura destinata ad evitare e, se del caso, a sanzionare l’utilizzo abusivo di una reiterazione di contratti a tempo definito.

Guardando all’ordinamento italiano, la Corte di Lussemburgo riscontra un’ipotesi di abuso dei contratti a termine ed accerta che la proroga sistematica del contratto del giudice incaricato non è accompagnata dalla previsione di sanzioni effettive e dissuasive in alternativa alla trasformazione in rapporto a tempo indeterminato. Ciò può generare una ripetizione indiscriminata di contratti a tempo che lascia il lavoratore privo di tutele giuridiche. Nondimeno, osserva la Corte UE, spetta al giudice nazionale valutare l’adeguatezza del diritto interno e, nel caso, sanzionare la reiterazione abusiva.

In definitiva, l’Unione riconosce alla nostra magistratura onoraria tutele lavoristiche più ampie rispetto a quelle previste dal diritto interno, pure non mettendo in discussione l’organizzazione giurisdizionale disegnata dalla Costituzione italiana. Ancora una volta, la Corte UE ribadisce che spetta al giudice a quo il compito di applicare il diritto dell’Unione, disapplicare il diritto nazionale difforme e, soprattutto, di trovare il giusto equilibrio tra la configurazione nazionale dell’ordinamento giudiziario e i diritti delle parti garantiti dall’Unione.

4. In linea di massima, il principio espresso dalla pronuncia PG è che la disciplina italiana concernente la magistratura elettiva non è conforme al diritto UE, in quanto priva di disposizioni che consentano di sanzionare il rinnovo abusivo di rapporti di lavoro a tempo determinato. A ciò si unisce una precisa responsabilizzazione del giudice adito nel vagliare la violazione e nel porvi rimedio.

Le implicazioni di simili enunciazioni meritano un approfondimento, seppure breve. Quanto argomentato dalla Corte UE può avere un effetto domino a livello interno e dell’Unione (C. Pesce, La magistratura onoraria italiana, cit.). Come è noto, la violazione di obblighi imposti dall’Unione comporta l’onere dello Stato inadempiente di ristorare adeguatamente chi lamenti e dimostri il pregiudizio patito e, parallelamente, può determinare l’avvio di una procedura di infrazione, nell’ipotesi in cui la Commissione europea ne vagli l’opportunità.

In relazione al primo profilo, il giudice nazionale ha ora gli elementi per compiere il giudizio di apprezzamento poc’anzi menzionato. Così, a partire dal caso in esame, i magistrati elettivi possono vantare il diritto a vedersi risarcito il danno che deriva dall’impossibilità di sanzionare la reiterazione abusiva del termine apposto ai singoli incarichi. Un precedente importante per domande risarcitorie analoghe formulabili sia da quanti sono nell’esercizio delle funzioni sia da coloro che abbiano cessato l’incarico, naturalmente, previo riscontro dei termini procedurali.

Lo Stato italiano potrebbe cumulare le conseguenze interne, invero, difficilmente quantificabili, con quelle derivanti dalla partecipazione all’Unione europea. Senza potere entrare qui nel merito, ricordiamo che lo Stato membro che viola gli obblighi derivanti dai trattati istitutivi e/o dal diritto derivato UE, si espone alla discrezionalità della Commissione circa l’apertura di una procedura di infrazione. E, nella fattispecie, la lacuna normativa italiana potrebbe condurre ad una condanna da parte della Corte di giustizia UE; oppure, qualora, nelle more, lo Stato italiano uniformasse la disciplina interna in tema di magistratura non togata ai criteri europei normativi e giurisprudenziali, la procedura potrebbe chiudersi anticipatamente.

Il monito all’Italia a prendere i provvedimenti necessari appare comunque indiscutibile. La sentenza PG, pur demandando all’apprezzamento del giudice adito le conclusioni sulla violazione di obblighi comunitari, sembra rivolgersi al legislatore italiano spingendolo a rivedere la normativa alla luce dei parametri europei in tema di garanzie riconosciute ai lavoratori ed a farlo quanto prima possibile, per arginare conseguenze farraginose e rischiose in termini sia di contezioso interno sia di ammende e condanne europee.


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