Quanto ci costa la violazione degli obblighi “comunitari”? La recente “condanna” dell’Italia ex art. 260, par. 2, TFUE in materia di rifiuti e il mancato versamento di fondi strutturali
Il 2 dicembre 2014 la Corte di giustizia (causa C-196/13, Commissione c. Italia) ha irrogato sanzioni pecuniarie di rilevante entità nei confronti dell’Italia, all’esito di una seconda procedura di infrazione ex art. 260, par. 2, TFUE .
Tale procedura, definita di manquement sur manquement, consente, come noto, di accertare (ed eventualmente sanzionare) la mancata ottemperanza, da parte di uno Stato membro dell’Unione europea, ad una sentenza dichiarativa di un’infrazione (ex art. 258 TFUE), attraverso l’emanazione di una seconda pronuncia, definita comunemente – benché impropriamente, la prima sentenza essendo, appunto, solo dichiarativa – di “doppia condanna”.
Nel caso di specie, la Corte, in primo luogo, ha accertato che l’Italia, non avendo adottato tutte le misure necessarie per dare esecuzione alla sentenza Commissione c. Italia (causa C-135/05) del 26 aprile 2007, è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza dell’art. 260, par. 1, TFUE e, in secondo luogo, ha condannato tale Stato al pagamento di entrambe le sanzioni pecuniarie previste dal trattato, ovvero penalità (di mora) e somma forfettaria.
La pronuncia in commento costituisce l’occasione per svolgere alcune riflessioni sulle modalità di applicazione delle sanzioni pecuniarie da parte della Corte di giustizia, nonché sulle perdite recentemente subite dall’Italia per violazioni di obblighi “comunitari”.
L’inadempimento accertato dalla Corte di giustizia
Occorre premettere che, con la citata sentenza Commissione c. Italia nella causa C-135/05, la Corte di giustizia aveva accolto il ricorso per infrazione proposto dalla Commissione ai sensi dell’art. 226 CE (attuale art. 258 TFUE), dopo aver constatato il mancato adempimento, in modo generale e persistente, da parte dell’Italia, degli obblighi, relativi alla gestione dei rifiuti, ad essa imposti ai sensi delle disposizioni contenute in tre direttive. Si trattava, in particolare, degli artt. 4, 8 e 9 della direttiva 75/442 del Consiglio (c.d. direttiva rifiuti), dell’art. 2, par. 1, della direttiva 91/689 del Consiglio (c.d. direttiva rifiuti pericolosi), nonché dell’art. 14, lettere da a) a c), della direttiva 1999/31 del Consiglio (c.d. direttiva discariche).
A meno di due settimane dalla pronuncia di accertamento della violazione, l’8 maggio 2007 la Commissione ha avviato un dialogo con l’Italia, in relazione alle misure necessarie per dare attuazione alla sentenza; peraltro, non reputando soddisfacenti le comunicazioni ricevute, la “custode dei trattati” ha inviato a tale Stato, il 1° febbraio 2008, una lettera di messa in mora e, il 26 giugno 2009, un parere motivato (non essendo ancora, all’epoca, entrato in vigore il trattato di Lisbona, che, come noto, ha abolito il parere motivato nella procedura di manquement sur manquement), con cui ha fissato un primo termine, poi prorogato sino al 30 settembre 2009, entro cui il nostro Paese avrebbe dovuto porre fine all’inadempimento. È a tale data, ossia alla scadenza del termine fissato dal parere motivato (o dalla lettera di messa in mora, per quanto riguarda, oggi, la procedura di “doppia condanna”) che la Corte fa riferimento, secondo una giurisprudenza consolidata, per valutare la persistenza dell’infrazione.
Nonostante l’Italia abbia trasmesso, tra l’ottobre 2009 e il febbraio 2013, ulteriori documenti alla Commissione, quest’ultima ha ritenuto che detto Stato non avesse adottato tutti i provvedimenti necessari a dare esecuzione alla sentenza Commissione c. Italia del 26 aprile 2007 e, pertanto, ha adito (nuovamente) la Corte, il 16 aprile 2013, ai sensi dell’art. 260, par. 2, TFUE. Senza entrare nel merito delle singole contestazioni mosse dalla Commissione nei confronti dello Stato convenuto, può affermarsi che, come efficacemente sintetizzato dall’avvocato generale Kokott (cfr. le conclusioni presentate il 4 settembre 2014, nella causa C-196/13, spec. punto 42), gli obblighi di esecuzione gravanti sull’Italia – identificabili interpretando il dispositivo della sentenza Commissione c. Italia del 26 aprile 2007 alla luce della motivazione della stessa – possono essere sostanzialmente ricondotti a tre tipi di infrazioni, ovvero: (i) l’utilizzazione di discariche illegali, in parte con l’abbandono di rifiuti pericolosi; (ii) la mancata bonifica delle discariche illegali chiuse, contenenti, in parte, rifiuti pericolosi; (iii) la mancanza del rilascio di una nuova autorizzazione, ai sensi della c.d. direttiva discariche, per le discariche rimaste in funzione. Le censure proposte dalla Commissione, in merito alla violazione delle disposizioni sopra richiamate, a seguito della pronuncia Commissione c. Italia del 26 aprile 2007, sono state ritenute fondate dalla Corte, che ha, dunque, affrontato le questioni relative alle (possibili) sanzioni pecuniarie.
Le sanzioni pecuniarie inflitte all’Italia e la discrezionalità di cui dispone la Corte di giustizia nella loro determinazione
È ben noto che la Corte, a partire dalla sentenza Commissione c. Francia (causa C-304/02), ha affermato la possibilità che siano irrogate sia la somma forfettaria, sia la penalità di mora, previste dall’art. (allora) 228, par. 2, CE (attuale art. 260, par. 2, TFUE), in ragione delle distinte funzioni svolte dalle due sanzioni (avendo carattere dissuasivo ed effetto preventivo generale, la prima, e carattere coercitivo/persuasivo specifico, la seconda; cfr. C. Amalfitano, La procedura di “condanna” degli Stati membri dell’Unione europea, Milano, 2012, p. 81), malgrado la formulazione di detta norma le metta in relazione attraverso la congiunzione «o» (cfr. altresì, da ultimo, Corte giust., 11 dicembre 2012, causa C-610/10, Commissione c. Spagna, punto 140). È altresì noto – e, del resto, il suddetto orientamento ne costituisce un’emblematica dimostrazione (cfr. C. Amalfitano, cit., p. 143 s.) – che la Corte gode di un’assoluta discrezionalità in ordine alla determinazione delle sanzioni da infliggere e del relativo importo. Tale autonomia valutativa pare giustificata (i) dalla lettera dell’art. 260, par. 2, TFUE, ai sensi del quale «[l]a Corte, qualora riconosca che lo Stato membro in questione non si è conformato alla sentenza da essa [precedentemente] pronunciata, può comminargli il pagamento di una somma forfettaria o di una penalità» (corsivo aggiunto), nonché (ii) a contrario, dalla previsione di cui al par. 3 del medesimo articolo, che, per i casi di sanzioni irrogate già con la “prima sentenza” di infrazione, dispone che la Corte debba invece mantenersi «entro i limiti dell’importo indicato dalla Commissione» (cfr. C. Amalfitano, cit., p. 110 ss.).
Con riferimento alle sanzioni pecuniarie, nell’ambito della procedura di manquement sur manquement, dunque, la Corte di giustizia non è vincolata né alle proposte della Commissione, che costituiscono soltanto un utile punto di riferimento, né agli orientamenti contenuti nelle comunicazioni adottate da tale istituzione (cfr., oggi, la comunicazione SEC(2005) 1658, sull’applicazione dell’art. 228 del trattato CE, aggiornata, da ultimo, dalla comunicazione C(2014) 6767 final). Peraltro, come riconosciuto dalla stessa Corte, siffatti orientamenti contribuiscono a garantire la trasparenza, la prevedibilità e la certezza del diritto nell’azione condotta dalla stessa Commissione quando formula proposte relative alle sanzioni ex art. 260, par. 2, TFUE (in tal senso cfr., ad esempio, Corte giust., 11 dicembre 2012, causa C-610/10, Commissione c. Spagna, cit., punto 116).
Nel caso di specie, quanto alla penalità di mora, che, come noto, mira a far sì che lo Stato ponga fine in tempi rapidi all’inadempimento, sia la Commissione, sia l’avvocato generale hanno proposto una penalità decrescente – al fine di tenere conto dei progressi realizzati dall’Italia nell’esecuzione della sentenza del 2007, in omaggio al principio di proporzionalità – calcolata su base giornaliera, per un totale, rispettivamente, di 256.816,20 euro e di 158.200 euro al giorno. La Corte, dichiarata la necessità di imporre una penalità di tipo decrescente, ha scelto di computarla su base semestrale, fissandone l’importo in 42.800.000 euro a semestre (mentre le proposte di Commissione e avvocato generale, se moltiplicate per centottanta giorni, sarebbero state corrispondenti, rispettivamente, a circa 46.200.000 euro e a circa 28.500.000 euro) e precisando che, da tale somma iniziale, saranno detratti 400.000 euro per ciascuna discarica contenente rifiuti pericolosi messa a norma conformemente alla sentenza Commissione c. Italia del 2007 e 200.000 euro per ogni altra discarica messa a norma alle medesime condizioni. È da notare che la base temporale stabilita dalla Corte risulta maggiormente vantaggiosa per l’Italia, rispetto a quella giornaliera proposta dall’avvocato generale, poiché, come è espressamente specificato nella motivazione e nel dispositivo della pronuncia, la penalità sarà calcolata alla fine di ciascun semestre, essendo dunque possibile, in caso di progressi significativi, pagare una somma già fortemente ridotta al termine del primo semestre (nonché, in ipotesi, evitare del tutto il pagamento della penalità, qualora l’Italia riesca a dimostrare alla Commissione di avere adottato, entro tale periodo, tutte le misure necessarie per dare attuazione alla sentenza in commento).
Con riguardo, poi, alla somma forfettaria, che, invece, come noto, “copre” il periodo di tempo intercorrente tra la “prima sentenza” emessa dalla Corte di giustizia e la sentenza pronunciata all’esito della procedura di manquement sur manquement, la Commissione ha proposto un importo di circa 51.000.000 euro, che l’avvocato generale ha suggerito di aumentare a 60.000.000 euro. La Corte – tenuto conto del numero elevato di discariche non ancora conformi al diritto dell’Unione e delle oltre venti procedure di infrazione in materia di rifiuti, nei confronti dell’Italia, concluse con una dichiarazione di inadempimento – ha inflitto allo Stato convenuto il pagamento di una somma forfettaria di 40.000.000 euro.
Se, da un lato, le decisioni della Corte hanno comportato una riduzione degli importi proposti dalla Commissione (e suggeriti dall’avvocato generale), dall’altro lato, tuttavia, i giudici di Lussemburgo hanno motivato in modo assai sintetico le scelte relative (soprattutto) al quantum delle sanzioni. Pur essendo costante in giurisprudenza l’affermazione secondo cui al procedimento di infrazione, in ragione della sua natura del tutto peculiare e “atipica” rispetto ai sistemi processuali nazionali, non si applica il principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato – e nonostante la discrezionalità assoluta di cui, come detto, gode la Corte di giustizia nella determinazione delle sanzioni – non può non notarsi la differenza tra le dettagliate indicazioni fornite, sotto tale profilo, dalla Commissione (nonché dall’avvocato generale) e il ben più generico ragionamento della Corte. Quest’ultima, infatti, dopo avere preso in esame le circostanze di fatto e di diritto che conducono a ritenere sussistente l’inadempimento dell’Italia e necessarie le sanzioni pecuniarie, non fornisce alcuna spiegazione circa il metodo di calcolo delle stesse (limitandosi a ricordare, in linea di principio, i criteri rilevanti), là dove invece la “custode dei trattati” e l’avvocato generale avevano puntualmente richiamato i criteri e le formule matematiche contenute nelle comunicazioni della Commissione sopra menzionate.
Una siffatta modalità, totalmente discrezionale, di calcolo delle sanzioni, da parte della Corte, non rappresenta una novità ed è stata oggetto di svariate critiche (formulate sia in dottrina, sia, ad esempio, dall’avvocato generale Ruiz-Jarabo Colomer nelle conclusioni presentate il 28 settembre 1999, nella causa C-387/97, Commissione c. Grecia, punto 90 ss.), in ragione della scarsa trasparenza e della conseguente mancanza di prevedibilità da essa causate, pur potendo essere giustificata alla luce di un approccio fondato sull’equità (cfr. C. Amalfitano, cit., p. 114 s., nonché p. 206 ss.). È la stessa Corte, del resto, a fare espresso riferimento, in molti casi, a tale concetto, nel fissare l’importo (prevalentemente) della somma forfettaria (cfr., ad esempio, il punto 120 della sentenza in commento). Peraltro, pare potersi affermare che calcoli effettuati con maggiore trasparenza garantirebbero meglio la certezza del diritto e la prevedibilità delle sanzioni, incrementando, con tutta probabilità, il carattere dissuasivo e gli effetti general-preventivi di queste ultime.
Le perdite recentemente subite dall’Italia a causa dell’inadempimento di obblighi “comunitari”
Agli esborsi dovuti dall’Italia a titolo di sanzioni pecuniarie inflitte con sentenze di “condanna”, si aggiungono le perdite subite nei casi, non infrequenti, di mancata erogazione di fondi, da parte dell’Unione europea, in seguito alla constatazione di inadempimenti, di vario genere, agli obblighi “comunitari”.
Un esempio recente è costituito dalla sentenza con cui il Tribunale (2 dicembre 2014, causa T-661/11, Italia c. Commissione) ha respinto il ricorso di annullamento proposto dall’Italia avverso una decisione della Commissione che, al fine di sanzionare le insufficienze dei controlli sulle “quote latte” in svariate regioni italiane, ritenuti tardivi, aveva comportato una rettifica finanziaria per un importo totale di oltre 70.000.000 euro, importo escluso dai finanziamenti assegnati nell’ambito del Fondo europeo agricolo di orientamento e di garanzia (FEAOG), del Fondo europeo agricolo di garanzia (FEAGA) e del Fondo europeo agricolo per lo sviluppo rurale (FEASR). Nello stesso senso può citarsi un caso in cui la Corte di giustizia (6 novembre 2014, causa C-385/13 P, Italia c. Commissione) ha confermato – in sede di impugnazione, da parte dell’Italia, di una sentenza del Tribunale – la possibilità, per la Commissione, di sospendere il pagamento di c.d. fondi strutturali nel caso in cui quest’ultima decida di avviare una procedura di infrazione ex art. 258 TFUE riguardo alle misure cui tali fondi sono destinati. Tale interpretazione, fondata sulla previsione di cui all’art. 32, par. 3, lett. f), del regolamento n. 1080/2006 (oggi sostituito dai regolamenti n. 1299/2013 e n. 1301/2013), ha riguardato, nel caso di specie, le misure relative alla raccolta e allo smaltimento dei rifiuti nella regione Campania, a dimostrazione della notevole rilevanza della gestione dei rifiuti e dell’attenzione rivolta dalla Commissione, nell’esercizio del suo ruolo di “guardiana dei trattati”, a tale questione. Non va dimenticato, peraltro, che, ove le sanzioni pecuniarie inflitte nell’ambito di procedure di infrazione (ovvero la mancata liquidazione di risorse relative ai fondi strutturali) siano causate da condotte poste in essere da enti locali, lo Stato può far valere un diritto di rivalsa nei confronti di questi ultimi, conformemente all’art. 43 della l. 234/2012.
Il settore dell’ambiente, in cui rientra la gestione dei rifiuti, è quello maggiormente riguardato dalle procedure di infrazione, come emerge dai dati più recenti diffusi dalla Commissione (cfr. la comunicazione COM(2014) 612 final, p. 12), in base ai quali risulta, altresì, che l’Italia deteneva, alla data del 31 dicembre 2013, il primato di Stato con il più alto numero di procedure a carico: 115, oggi, tuttavia, scese a 89 (cfr. la banca dati EUR-Infra). Una siffatta diminuzione può costituire il segnale di un crescente impegno, da parte dello Stato italiano, al fine di progressivamente “regolarizzare” la propria posizione con riferimento agli obblighi derivanti dal diritto dell’Unione europea, nonché, forse (benché solo indirettamente), di una certa efficacia deterrente delle sanzioni pecuniarie.
L’esecuzione della sentenza Commissione c. Italia (causa C-196/13) del 2 dicembre 2014 sarà indubbiamente oggetto di attenzione da parte dei mezzi di informazione, vista l’entità delle sanzioni inflitte e considerata l’importanza del tema della gestione dei rifiuti. Il primo “appuntamento” sarà a sei mesi dalla pronuncia, cioè all’inizio di maggio 2015; pur non essendo possibile escludere nuove contestazioni circa le modalità con cui la Commissione gestirà la fase di esecuzione – come ad esempio quella sollevata proprio dall’Italia e sfociata in un ricorso di annullamento respinto dal Tribunale il 21 ottobre 2014 (causa T-268/13, Italia c. Commissione) –, si può ipotizzare un intervento effettivo e totalmente riparatorio da parte dello Stato.
L’auspicio è che un siffatto approccio sia adottato anche con riferimento a cause “meno note”, così da poter ulteriormente ridurre i procedimenti di infrazione a carico dell’Italia e, con essi, gli inadempimenti, spesso di carattere strutturale, contestati al nostro Stato.