Prove generali di bail-in: il caso delle banche italiane

1. Le ragioni dell’impiego della c.d. resolution

Com’è noto, la Banca d’Italia, con provvedimento del 21 novembre 2015, approvato dal Ministro dell’Economia e delle Finanze il 22 novembre 2015, ha disposto l’avvio di un programma di risoluzione (o resolution) di quattro banche italiane, che da febbraio dello stesso anno erano sottoposte ad amministrazione straordinaria: Banca Marche, Banca Popolare dell’Etruria e del Lazio, Cassa di risparmio di Ferrara, CariChieti. L’avvio della procedura è stato attuato sulla base di uno specifico piano di risoluzione conforme alla nuova direttiva 2014/59/UE, denominata “Bank recovery and resolution Directive” (d’ora in poi “BRRD”), recepita nell’ordinamento italiano lo scorso 16 novembre con il D.lgs. 180/2015. La BRRD ha introdotto in tutti gli Stati membri dell’Unione regole armonizzate per prevenire e gestire le crisi delle banche e delle imprese di investimento. La Commissione Europea ha approvato (si veda il comunicato stampa) il piano di risoluzione delle quattro banche italiane, giudicandolo compatibile con le norme sugli aiuti di Stato alle banche nel contesto della crisi finanziaria (“Comunicazione sul settore bancario del 2013”).

Sottoporre una banca a risoluzione comporta l’avvio di un processo di ristrutturazione gestito da autorità indipendenti – le autorità di risoluzione – al fine di evitare una interruzione nella prestazione dei servizi essenziali e di ricostituire le condizioni di operatività economica della parte sana della banca e liquidare invece le parti restanti deteriorate. Ai sensi dell’art. 32 della BRRD, nonché dell’art. 17 del D.lgs. 180/2015 (che ne costituisce la norma nazionale di trasposizione), le autorità di risoluzione possono sottoporre una banca alla resolution se ritengono sussistenti congiuntamente le seguenti condizioni: (i) la banca è in dissesto o a rischio di dissesto (ad esempio, quando, a causa di perdite, l’intermediario abbia azzerato o ridotto il proprio capitale); (ii) non si ritiene che misure alternative di natura privata (quali aumenti di capitale) o di vigilanza consentano in tempi ragionevoli di evitare il dissesto dell’intermediario; (iii) la sottoposizione della banca alla liquidazione ordinaria non permetterebbe di salvaguardare la stabilità sistemica, di proteggere depositanti e clienti, di assicurare la continuità dei servizi finanziari essenziali e, quindi, la risoluzione è necessaria nell’interesse pubblico. Nel caso italiano, sembra potersi affermare che siffatte condizioni fossero presenti. Secondo la Banca d’Italia, ovvero l’autorità nazionale competente, ai sensi della normativa summenzionata, alla gestione delle crisi, la risoluzione degli enti in difficoltà ha permesso di salvaguardare l’economia dei territori in cui essi sono stabiliti, nonché di proteggere i risparmi delle famiglie e delle imprese detenuti nella forma di depositi, conti correnti e obbligazioni ordinarie, e infine di mantenere i rapporti di lavoro in essere, evitando di utilizzare denaro pubblico.

In effetti, se le quattro banche italiane in crisi non fossero state salvate, l’unica opzione consentita, alla luce del combinato disposto della normativa dell’Unione sulle crisi bancarie (la BRRD) e della Comunicazione della Commissione del 2013 (cit., v. par. 64) sarebbe stata la liquidazione coatta amministrativa delle banche in questione. Qualora queste ultime fossero state liquidate, i creditori − e quindi non soltanto gli obbligazionisti subordinati − sarebbero stati rimborsati solo dopo la liquidazione degli assets della banca, in misura parziale e dopo anni. I detentori di titoli subordinati, di conseguenza, considerata l’entità delle perdite, non avrebbero, in ogni caso, recuperato le somme loro dovute. Per di più, con la liquidazione sarebbero rientrati la maggior parte dei prestiti concessi da ciascuna banca, con effetti negativi dirompenti sull’economia reale locale.

 2. Le fasi del piano di risoluzione

Una volta deliberata dalla Banca d’Italia la resolution degli istituti in crisi, il piano di risoluzione delle quattro banche, approvato dalla Commissione all’esito di trattative con il Governo italiano, si è articolato in tre punti. In primo luogo, le perdite delle banche sono state in parte coperte mediante gli strumenti di investimento più rischiosi, vale a dire le azioni e le obbligazioni subordinate, per loro natura esposti al rischio di impresa. In secondo luogo, sono state costituite quattro banche ‘ponte’ al fine di garantire l’esercizio delle funzioni essenziali degli enti in dissesto. Infine, è stata costituita un’unica bad bank per la gestione delle attività deteriorate, ossia prestiti la cui riscossione non è certa perché i debitori sono insolventi o in grave difficoltà.

Per quanto attiene più specificamente alla prima fase, come accennato, le perdite delle banche sono state in parte coperte mediante azioni e strumenti subordinati. La parte residua di perdite è stata assorbita in seconda battuta grazie ad un intervento diretto del Fondo di risoluzione nazionale (cfr. infra). Le quattro banche originarie sono dunque divenute dei contenitori residui in cui sono state confinate le perdite e sono state subito poste in liquidazione coatta amministrativa.

Il ricorso alle azioni e alle obbligazioni è esplicitamente richiesto, dalla BRRD (art. 43 ss.), come precondizione per procedere alla risoluzione ordinata delle banche. Tale direttiva fornisce alle autorità di risoluzione una vasta gamma di strumenti per gestire in maniera efficiente la resolution degli istituti in crisi, tra i quali rientra il bail-in: quest’ultimo permette di svalutare azioni e crediti e di convertirli in azioni al fine di coprire le perdite e ricapitalizzare la banca in dissesto. Tale strumento si applica seguendo una gerarchia la cui ratio si fonda sul principio secondo cui chi investe in strumenti finanziari più rischiosi debba sostenere prima degli altri le eventuali perdite o la conversione in azioni. Solo una volta esaurite tutte le risorse della categoria più rischiosa sarà possibile passare alla categoria successiva. L’ordine di priorità tra le passività assoggettabili a bail-in, ai sensi dell’art. 48 della BRRD, è il seguente: (i) gli azionisti; (ii) i detentori di altri titoli di capitale, (iii) gli altri creditori subordinati; (iv) i creditori chirografari; (v) le persone fisiche e le piccole e medie imprese titolari di depositi per l’importo eccedente i 100.000 euro; (vi) il fondo di garanzia dei depositi, che contribuisce al bail-in al posto dei depositanti protetti.

Per contro, la BRRD (art. 44, co. 2) esclude dall’ambito di applicazione del bail-in una serie di passività: (i) i depositi protetti dal sistema di garanzia dei depositi, ossia quelli di importo fino a 100.000 euro; (ii) le passività garantite, inclusi i covered bonds e altri strumenti garantiti; (iii) le passività derivanti dalla detenzione di beni della clientela o in virtù di una relazione fiduciaria, come ad esempio il contenuto delle cassette di sicurezza o i titoli detenuti in un conto apposito; (iv) le passività interbancarie (ad esclusione dei rapporti infragruppo) con durata originaria inferiore a 7 giorni; (v) le passività derivanti dalla partecipazione ai sistemi di pagamento con una durata residua inferiore a 7 giorni; (vi) i debiti verso i dipendenti, i debiti commerciali e quelli fiscali purché privilegiati dalla normativa fallimentare. Le passività non espressamente escluse possono essere sottoposte a bail-in.

Ad ogni modo, l’autorità di risoluzione può escludere in via discrezionale passività diverse da quelle elencate all’art. 44, co. 2, BRRD, quando l’applicazione completa del bail-in comporti un rischio per la stabilità finanziaria o comprometta la continuità di funzioni essenziali (art. 44, co. 3, BRRD). In questo caso, il contributo al ripianamento delle perdite dell’ente può essere trasferito al Fondo di risoluzione, il cui intervento non può superare il 5% del totale del passivo, a condizione che sia stato applicato un bail-in minimo pari all’8% delle passività totali (art. 44, co. 5, BRRD). Va chiarito che, di norma, il Fondo può essere utilizzato solo per assicurare l’efficace applicazione degli strumenti di risoluzione e non per assorbire direttamente le perdite dell’ente sottoposto a resolution, salvo nel caso eccezionale sopramenzionato.

È evidente come la nuova regola del bail-in rappresenti un passaggio epocale, posto che comporta un cambio profondo dell’approccio storicamente seguito nel caso di crisi bancarie, ispirato all’idea di bail-out (salvataggio dall’esterno ovverosia ad opera dello Stato). La BRRD muove dal presupposto che, nelle attuali condizioni di mercato, non siano più necessarie misure di salvataggio approvate a norma dell’art. 107, par. 3, lett. b), TFUE, basate sull’assunto che, in presenza di un istituto di credito in dissesto, si porrebbe sempre una crisi sistemica da risolvere, rinviando la valutazione approfondita del piano di ristrutturazione a una fase successiva. Adesso, la nuova normativa UE, prima della concessione di aiuti per la ristrutturazione a favore di una banca, impone condizioni più severe per la condivisione degli oneri e disciplina un sistema di controllo preventivo più stringente. Infatti, da una parte, l’art. 37, co. 10, BRRD, prevede che, in caso di crisi sistemica, l’autorità di risoluzione può tentare di reperire finanziamenti da fonti alternative ricorrendo agli strumenti pubblici, a condizione che gli azionisti e i detentori di altri titoli di proprietà, i detentori degli strumenti di capitale pertinenti e altre passività ammissibili dell’ente soggetto a risoluzione abbiano contribuito ad assorbire le perdite per un ammontare non inferiore all’8% delle passività totali. Dall’altra, sotto il profilo procedurale, l’art. 56, BRRD, che deve essere letto congiuntamente alla Comunicazione della Commissione del 2013 (cit.), stabilisce che il piano di risoluzione dell’istituto beneficiario del sostegno pubblico debba essere elaborato dal Governo, con l’avallo dell’autorità di risoluzione nazionale, e successivamente dichiarato dalla Commissione compatibile con le norme sugli aiuti di Stato. Solo una volta ottenuta la dichiarazione di conformità di suddetto piano sarà poi possibile procedere alla notifica formale per ottenere l’autorizzazione alla erogazione della misura di ricapitalizzazione pubblica tesa a coprire la carenza di capitale residua.

Va osservato che la completa applicazione del bail-in è scattata in Italia solo dal primo gennaio 2016 (art. 106, D.lgs. 180/2015); nondimeno anche prima di tale data è stato possibile procedere alla svalutazione o alla conversione delle azioni e dei crediti subordinati, qualora fosse necessario per evitare il fallimento di un istituto di credito. Ciò conformemente alla Comunicazione della Commissione del 2013 (cit., v. par. 40), la quale già imponeva il coinvolgimento di azionisti e creditori subordinati prima di un eventuale supporto pubblico, quale misura di condivisione degli oneri (burden-sharing) necessaria per ritenere il sostegno pubblico compatibile con la disciplina sugli aiuti di Stato. Nel caso delle quattro banche italiane, è stato possibile azzerare le azioni e le obbligazioni subordinate ricorrendo a tale burden-sharing, considerato che il 22 novembre 2015 (data in cui è stato approvato dal Consiglio dei Ministri il decreto legge che ha permesso l’immediata applicazione del piano di risoluzione degli istituti in crisi), il bail-in, che prevede altresì il coinvolgimento di obbligazionisti ordinari e depositanti in caso di dissesto della banca, non era ancora entrato in vigore.

La soluzione italiana alla crisi delle quattro banche si presenta dunque come il risultato di una applicazione coordinata del nuovo D.lgs. 180/2015, che recepisce gli strumenti di resolution contemplati nella BRRD, e della Comunicazione della Commissione del 2013, che già esigeva una condivisione degli oneri, in caso di ristrutturazione di una banca in crisi, a carico dei suoi investitori prima di poter autorizzare un eventuale supporto pubblico. La scelta di ridurre le azioni e le obbligazioni subordinate degli investitori era quindi l’unica soluzione praticabile ai sensi delle attuali norme UE. In aggiunta, va sottolineato come il Governo, agendo in anticipo, sia riuscito a evitare l’applicazione della più severa regola del bail-in, che avrebbe coinvolto altre categorie di passività ammissibili, con la prospettiva peraltro di esporre il Fondo di garanzia dei depositi ad un esborso potenziale di oltre dodici miliardi di euro per intervenire nel bail-in in luogo dei depositi protetti.

Venendo al secondo punto in cui si è articolato il piano di risoluzione, per ciascuna delle quattro banche la parte “buona” è stata scissa da quella “cattiva” del bilancio. Per velocizzare l’esecuzione di siffatto piano, sono state costituite quattro banche ponte tramite il decreto legge del 22 novembre 2015, n. 183 (v. art. 1, co. 5). L’ente ponte è un veicolo societario a cui sono trasferiti beni e rapporti giuridici della banca sottoposta a risoluzione con l’obiettivo di mantenere la continuità delle sue funzioni essenziali; quando ricorrono condizioni di mercato adeguate, è prevista la cessione a terzi delle attività e delle passività dell’ente ponte. Nel caso di specie, le attività diverse dai prestiti in sofferenza sono state assegnate alle banche ponte; a fronte di tali attività, sono stati trasferiti i depositi, i conti correnti e le obbligazioni ordinarie. Il capitale è stato ricostituito a circa il 9% del totale dell’attivo ponderato per il rischio dal Fondo di risoluzione. Quest’ultimo è disciplinato all’art. 78 ss., D.lgs. 180/2015, ed è amministrato dall’Unità di risoluzione della Banca d’Italia. Il Fondo è alimentato con i contributi di tutte le banche del sistema; pertanto, non si tratta di risorse pubbliche, bensì di liquidità proveniente dal settore privato. In via provvisoria, le banche ponte sono gestite da amministratori appositamente designati dall’Unità di Risoluzione della Banca d’Italia. La missione degli amministratori, ai sensi dell’art. 42, co. 1, D.lgs. 180/2015, è di vendere la banca ‘buona’ al miglior offerente e successivamente retrocedere al Fondo di risoluzione quanto ricavato dalla vendita.

Da ultimo, il piano di risoluzione ha previsto la costituzione di una bad bank unica in cui sono stati accorpati i prestiti in sofferenza delle quattro banche originarie. La bad bank è uno strumento a cui ricorrono gli istituti di credito in difficoltà, i quali si “sdoppiano” e cedono parte del proprio portafoglio a nuovi veicoli societari che consentono alle banche di depurarsi dalle perdite derivanti da crediti difficilmente esigibili. Le attività deteriorate delle quattro banche sottoposta a risoluzione, svalutate a 1,5 miliardi a fronte dell’originario valore di 8,5 miliardi, dovranno essere vendute a specialisti nel recupero crediti o gestite direttamente per recuperarle al meglio. Le somme ricavate dalla bad bank verranno poi retrocesse al Fondo di risoluzione.

 3. La natura del fondo impiegato nel piano di risoluzione

Provvedendo nel modo sopra descritto, lo Stato non ha sostenuto alcun onere. Il costo della operazione è stato in parte sopportato dagli azionisti e dagli obbligazionisti subordinati delle quattro banche; tuttavia, per la maggior quota tale costo è gravato sul sistema bancario italiano, che ha alimentato con i suoi contributi il Fondo di risoluzione. L’intervento del Fondo risulta in definitiva così ripartito: 1,7 miliardi per ripianare le perdite delle banche originarie; 1,8 miliardi per ricapitalizzare le banche ponte; 140 milioni per conferire alla bad bank il capitale minimo necessario ad operare. La liquidità necessaria al Fondo di Risoluzione per permettere la sua immediata attivazione è stata anticipata, come consentito dall’art. 78, co. 1, lett. c), D.lgs. 180/2015, dalle tre banche italiane più grandi (Banca Intesa Sanpaolo, Unicredit e UBI Banca) a tassi di mercato e con scadenza massima di 18 mesi. Queste ultime hanno messo a disposizione due linee di credito: la prima, di lunga durata, verrà rimborsata quando le banche ponte verranno vendute e i crediti deteriorati verranno valorizzati sul mercato. La seconda, di durata inferiore, è stata subito ripianata con le somme che a fine anno le banche italiane hanno dovuto versare al Fondo di risoluzione come contributi ordinari ai sensi dell’art. 82, co. 1, D.lgs. 180/2015. In aggiunta, a garantire tale finanziamento ponte è intervenuta la Cassa depositi e prestiti (d’ora in poi “Cdp”). L’intervento della Cdp rimane peraltro solamente potenziale. In caso di mancata restituzione del prestito da parte del Fondo di risoluzione, la Cdp vanterebbe un credito a tassi di mercato verso lo stesso Fondo, il quale potrà aumentare i contribuiti a carico dell’intero sistema bancario per coprire l’ammanco. Ciò è previsto all’art. 2, co. 1, del decreto legge (cit.), il quale stabilisce che nel 2016 il Fondo di risoluzione potrà chiedere alle banche italiane contributi addizionali pari a due annualità rispetto a quella già prevista per l’anno 2016, portando così a 1,8 miliardi il contributo potenziale. Si tratta di una cifra che copre la Cdp da eventuali rischi e che pone quest’ultima nel ruolo di garante nel delicato processo di stabilizzazione del sistema finanziario italiano.

4. Profili problematici della vicenda: trasparenza delle operazioni bancarie e conflitto di interessi delle banche nella collocazione degli strumenti finanziari

Dalla vicenda sopra descritta, emerge la necessità di ulteriori interventi normativi al fine di garantire maggiormente gli investitori non professionali. In particolare, appaiono necessarie l’individuazione di nuovi strumenti per assicurare maggiore trasparenza nelle operazioni bancarie, nonché la modifica delle modalità di collocamento dei titoli presso il pubblico.

In relazione alla prima necessità, va rilevato un problema legato al deficit di cultura finanziaria più che alla disciplina europea di gestione delle crisi bancarie. In effetti, lo stesso processo di integrazione europea e la credibilità delle istituzioni UE sono entrati in crisi in relazione al rapporto tra risparmiatori, Unione europea e banche. Non si vuole negare l’importanza del bail-in; tuttavia, una riforma di così forte impatto sulle garanzie di norma accordate ai risparmiatori richiedeva certamente maggiore pubblicizzazione da parte delle istituzioni coinvolte, banche comprese. Sebbene i risparmiatori abbiano il dovere di informarsi sulle condizioni di rischio degli strumenti che vengono loro proposti, è realistico pensare che, nel caso di specie, chi ha collocato bond subordinati agli investitori inconsapevoli abbia commesso un abuso sanzionabile. La gestione del risparmio si basa sulla fiducia e per rafforzare quest’ultima bisogna garantire trasparenza nei confronti dei risparmiatori che devono essere resi edotti dei rischi assunti attraverso prospetti informativi meno criptici.

In ordine invece al secondo profilo problematico, vale a dire la necessità di modifica delle modalità di collocamento dei titoli presso il pubblico, appare opportuno azzerare il conflitto di interessi dei collocatori, altrimenti il rischio di subire dei raggiri per gli investitori non istituzionali resta elevatissimo. Innanzitutto, i titoli che presentano un profilo di maggior rischio, oltre a essere presentati con chiarezza, dovrebbero essere collocati solo da chi nella banca ha maggiori responsabilità, proibendo la loro vendita allo sportello. Inoltre, alla clientela al dettaglio, intenzionata a sottoscrivere titoli della banca, potrebbero essere offerti solo certificati di deposito, coperti dal Fondo di garanzia dei depositi, in luogo delle obbligazioni, che possono essere prese al laccio dal bail-in. Allo stesso tempo potrebbero essere riservati gli strumenti di debito diversi dai depositi agli investitori professionali, in particolare se si tratta di strumenti subordinati, ovverosia quelli che vengono coinvolti nelle perdite subito dopo le azioni in caso di resolution della banca.

È alto il rischio che l’inerzia istituzionale consolidi l’opinione presso i cittadini di una totale indifferenza delle ripercussioni derivanti dal passaggio storico a cui vanno incontro a seguito della entrata in vigore delle nuove regole dell’Unione sulle crisi bancarie. Pertanto, per evitare uno scollamento ulteriore tra cittadini europei e istituzioni UE sono necessarie risposte urgenti in vista della tutela degli investitori privati non istituzionali e non solo, come avvenuto con il varo della BRRD, degli operatori finanziari specializzati.


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