Private enforcement: verso il recepimento della direttiva sul risarcimento del danno da illecito antitrust

1. Nell’ultimo biennio il c.d. private enforcement è stato al centro del dibattito in materia di diritto antitrust.

Il 25 dicembre 2014 è entrata in vigore una direttiva al riguardo, volta cioè a disciplinare il risarcimento del danno derivante dalla violazione delle disposizioni del diritto della concorrenza degli Stati membri e dell’Unione europea (direttiva 2014/104/UE, di seguito la “direttiva”).

Prima di tale direttiva, mancava una disciplina uniforme tanto a livello nazionale quanto a livello di Unione e lo strumento del private enforcement era quindi connotato da una grande incertezza e imprevedibilità, essendo tuttavia corposo l’acquis comunitario relativo all’esistenza del diritto ad ottenere un risarcimento per il danno antitrust (tra le più significative, si ricordano la sentenza Courage e la sentenza Manfredi).

2. Il termine di recepimento entro cui gli Stati membri devono conformare i propri ordinamenti al testo dalla direttiva è fissato al 27 dicembre 2016.

In Italia, lo scorso 27 ottobre, il tanto atteso schema di decreto legislativo recante attuazione della direttiva (atto n. 350) è stato approvato in Consiglio dei Ministri, trasmesso alle Camere e annunciato all’Assemblea il successivo 2 novembre 2016.

In linea generale, la struttura dello schema di decreto riproduce pressoché fedelmente quella della direttiva, contando i medesimi capi ad eccezione dell’aggiunta di un capo contenente le disposizioni di modifica delle cosiddetta legge antitrust (l. 287/1990 – Norme per la tutela della concorrenza e del mercato).

Per un’analisi della disciplina prevista dalla direttiva si rimanda al contributo in materia, pubblicato nella presente Rivista (F. Rossi Dal Pozzo, La direttiva sul risarcimento del danno da illecito antitrust. Armonizzazione delle regole nazionali in tema di private enforcement o occasione mancata?, 11 dicembre 2014).

In questa sede, meritano specifica menzione alcune previsioni nelle quali il legislatore italiano ha compiuto delle scelte volte a dare applicazione più ampia o a limitare il dettato della direttiva, laddove ne aveva la facoltà.

3. In primo luogo, al fine di meglio comprendere la ratio che ha guidato il legislatore italiano nel recepimento della direttiva, è utile evidenziare come sembrino rispettati all’interno dello schema di decreto i quattro criteri direttivi indicati all’articolo 2 della legge delega (l. 114/2015), ossia: consentire l’applicazione degli articoli 101 e 102 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (“TFUE”) e degli articoli 2 e 3 della legge antitrust in relazione a uno stesso caso, eliminando così il cosiddetto principio della barriera unica (ai sensi del quale la normativa nazionale trova applicazione solo laddove non si applichi quella dell’Unione); estendere l’applicazione delle disposizioni della direttiva anche alle violazioni delle previsioni della legge antitrust nazionale; prevedere l’applicazione della disciplina di recepimento della direttiva anche alle azioni collettive ex art. 140-bis del Codice del consumo in materia antitrust; procedere alla revisione della competenza delle sezioni specializzate in materia di impresa concentrando le controversie relative alle azioni di risarcimento del danno antitrust presso un numero limitato di uffici giudiziari.

In tal senso, la definizione di “diritto della concorrenza” di cui all’articolo 2 dello schema di decreto ricomprende – oltre agli articoli 101 e 102 TFUE – anche le previsioni rilevanti della legge antitrust italiana (articoli 2 e 3 l. 287/1990) nonché le disposizioni degli altri Stati membri che perseguano gli stessi obiettivi.

Ancora, lo schema riporta all’interno del suo ambito di applicazione le azioni collettive di cui all’articolo 140-bis del codice del Consumo, quando abbiano per oggetto il risarcimento del danno antitrust. Ciò è ancor più significativo, tenuto conto del fatto che nel testo della direttiva non si tratta delle class actions, che pure erano state al centro del dibattito prodromico alla proposta di direttiva. La scelta del legislatore italiano è quindi a tutti gli effetti diretta ad ampliare l’ambito di applicazione della direttiva.

L’articolo 17 dello schema di decreto prevede poi l’applicazione anche parallela degli articoli 101, 102 TFUE e degli articoli 2 e 3 della legge antitrust italiana in relazione ad uno stesso caso.

Infine, viene disposta – all’articolo 18 – la concentrazione delle controversie di risarcimento del danno antitrust presso le sezioni specializzate in materia di impresa di Milano, Roma e Napoli.

4. Con specifico riferimento alle modifiche apportate al codice di rito, lo schema di decreto si limita a recepire quelle modifiche strettamente necessarie ai sensi della direttiva.

In particolare, viene introdotta la figura di “categoria di prove” estranea all’ordinamento italiano, indispensabile ai fini della disclosure di cui agli articoli 5 e 6 della direttiva. Tale nuova categoria probatoria è comunque fortemente limitata nel contenuto, dovendo essere “individuata mediante il riferimento a caratteristiche comuni dei suoi elementi costitutivi come la natura, il periodo durante il quale sono stati formati, l’oggetto o il contenuto degli elementi di prova di cui è chiesta l’esibizione e che rientrano nella stessa categoria” (cit. art. 3 dello schema di decreto).

5. Un altro tema rilevante – rispetto al quale il legislatore italiano ha avuto un margine di discrezionalità – è quello dell’effetto che le decisioni adottate dalle autorità garanti della concorrenza producono sui giudizi avviati per ottenere il risarcimento del danno antitrust.

Ai sensi dell’articolo 7 dello schema di decreto, in attuazione dell’articolo 9 della direttiva, la violazione del diritto della concorrenza si considera come definitivamente accertata se contenuta in decisioni dell’autorità garante italiana (o del giudice del ricorso).

Di conseguenza, l’autore della violazione non può dare prova contraria: a) della natura della violazione e b) della sua portata materiale, personale, temporale e territoriale, laddove tali elementi siano stati accertati dalla menzionata decisione definitiva; restano in ogni caso espressamente esclusi gli ulteriori elementi dell’illecito ossia il nesso di causalità, l’esistenza del danno e la sua quantificazione.

La relazione illustrativa che accompagna lo schema di decreto chiarisce che tale previsione non sarebbe in contraddizione con i principi costituzionali in materia di diritto di difesa, dal momento che l’autore della violazione può usufruire di una piena garanzia giurisdizionale impugnando il provvedimento dell’autorità innanzi al giudice amministrativo. La medesima relazione illustrativa introduce poi un’eccezione all’enunciata previsione, affermando che il giudice del risarcimento non sarebbe in ogni caso soggetto alla decisione dell’autorità garante nazionale non impugnata e divenuta definitiva, laddove consideri irrimediabilmente viziato il provvedimento dell’autorità, alla luce del principio della soggezione del giudice (solo) alla legge.

Il legislatore italiano, invece, si limita ad attribuire il valore di mera prova prima facie alla decisione definitiva di un’autorità garante della concorrenza che appartenga ad un altro Stato membro, risultando così valutabile con gli altri elementi di prova presentati dalle parti. In ciò il nostro legislatore ha adottato una scelta prudenziale, essendo sua facoltà attribuire valore di prova vincolante anche alle decisioni delle autorità garanti della concorrenza di altri Stati membri, considerato che il dettato della direttiva prevede l’obbligo di riconoscerle “almeno a titolo di prova prima facie”.

6. Infine, lo schema di decreto (letto alla luce della relazione illustrativa) prevede che le disposizioni sostanziali da esso contenute trovino applicazione solo dall’entrata in vigore della legge di recepimento, essendo soggette al principio di irretroattività, previsto dall’articolo 22 della direttiva e intrinseco del nostro ordinamento.

Il legislatore italiano, che pur non era vincolato in questo senso dalla direttiva, ha invece optato per l’applicazione retroattiva – ai giudizi promossi successivamente al 26 dicembre 2014 – delle disposizioni processuali che disciplinano, in particolare, l’ordine di esibizione nei confronti delle parti o dei terzi, l’esibizione delle prove contenute nel fascicolo di un’autorità garante della concorrenza, i limiti nel loro uso e il potere del giudice a sospendere sino a due anni il processo pendente laddove le parti abbiano fatto ricorso ad una procedura di composizione consensuale della controversia.

Viene esclusa dall’applicazione retroattiva solamente la disposizione processuale relativa alla competenza dei tribunali per le imprese, in considerazione della necessaria applicazione dell’articolo 5 del codice di procedura civile che dispone che la competenza si determini avendo riguardo alla legge vigente al momento della proposizione della domanda.

7. In conclusione, a giudizio di chi scrive, lo schema di decreto legislativo – che pure deve ancora passare il vaglio delle Camere – recepisce il dettato della direttiva e rispetta i principi di efficacia ed equivalenza, richiamati dalla stessa direttiva all’articolo 4.

La disciplina italiana, così come contenuta nello schema di decreto, non sembra infatti rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficoltoso l’esercizio del diritto al pieno risarcimento per il danno antitrust. Inoltre, come si è detto, le procedure e le norme nazionali relative alle azioni per il risarcimento del danno a seguito di violazioni dell’articolo 101 o 102 TFUE sono le medesime di quelle che disciplinano azioni simili per danni deri­vanti da violazioni del diritto nazionale, risultando rispettato il principio di equivalenza.


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