Prime riflessioni sulla decisione ‘Google android’

1. La decisione Google Android ’in a nutshell’, necessariamente

Ragionare in termini giuridici su un complesso caso antitrust avendo a disposizione un paio di comunicati stampa non è una buona idea. Questa ovvia constatazione dovrebbe indurre ad astenersi dal prendere posizione sulla decisione del 18 luglio 2018 (European Commission, Case AT.40099, July 18, 2018), con la quale la Commissione europea ha imposto a Google la più alta sanzione pecuniaria della storia dell’Unione – oltre 4,34 miliardi di euro – per pratiche di abuso di posizione dominante riguardanti i dispositivi mobili Android. Infatti sul contenuto di questa decisione sono disponibili solo il comunicato stampa del 15 aprile 2015 che sintetizza la comunicazione degli addebiti, e quello del 18 luglio 2018 che riassume in poche pagine l’esito dell’istruttoria.

Ciò nonostante qualche considerazione può essere svolta, tenendo conto che dai comunicati stampa disponibili è possibile ricostruire con una certa precisione le argomentazioni di principio della Commissione. Peraltro, già dai primi giorni successivi all’adozione della decisione, molti membri della ‘comunità antitrust’ globale non si sono trattenuti dall’esprimere la loro opinione sulla stessa, normalmente criticandola.

Va preliminarmente ricordato che quella del 18 luglio 2018 è la seconda decisione di accertamento di infrazioni antitrust che la Commissione adotta nei confronti della società di Mountain View. Infatti, circa un anno prima (il 27 giugno 2017), la Commissione aveva sanzionato Goolge con un’ammenda di 2,42 miliardi di euro, anche in quel caso per abuso di posizione dominante (European Commission, case AT.39740, June 27, 2017, Google Search Shopping). Secondo la Commissione, Google, nei risultati delle ricerche on line effettuate dagli utenti, aveva sistematicamente attribuito una posizione preminente al proprio servizio di acquisti comparativi, denominato Google Shopping, e aveva retrocesso i servizi comparativi dei concorrenti nelle pagine più remote (in media solo a pagina quattro). In tal modo Google aveva abusato della propria posizione dominante sul mercato della ricerca generica per accordare un vantaggio illegale al suo servizio di acquisti comparativi rispetto ai servizi dei concorrenti.

La nuova decisione riguarda invece l’uso abusivo del sistema operativo Android, la cui versione originale fu acquistata da Google nel 2005 ed è oggi utilizzato in circa l’80% dei dispositivi mobili ‘intelligenti’ (smartphone e tablet) in Europa e nel mondo.

Diversamente da iOS di Apple, Android è un sistema operativo “open source”. Ciò significa che quando Google ne sviluppa una nuova versione pubblica il relativo codice sorgente on line permettendo a terzi, quanto meno in via di principio, di scaricarlo gratuitamente per creare versioni “modificate”, note come “Android forks”. Tuttavia, il source code accessibile a terzi copre solo le caratteristiche di base del sistema operativo, e non le applicazioni e i servizi Android, per ottenere i quali i produttori di smatphone e tablet devono stipulare con Google specifici contratti. Inevitabilmente, dunque, l’utilizzo di Android investe non trascurabili profili giuridici ed economici, tra i quali molti riguardano il rispetto del diritto antitrust.

Nella decisione, la Commissione ha anzitutto riscontrato che Google occupa una posizione dominante nei mercati dei servizi di ricerca generica su Internet, dei sistemi operativi per dispositivi mobili smart che possono essere concessi su licenza, e dei portali di vendita di applicazioni per il sistema operativo Android. Su tale presupposto, essa ha successivamente imputato a Google tre distinti tipi di pratiche abusive. Anzitutto Google avrebbe concesso significativi incentivi finanziari ad alcuni dei maggiori produttori di dispositivi e di operatori di reti mobili a condizione che installassero in esclusiva Google Search sull’intera gamma dei loro dispositivi operanti con Android. In secondo luogo, nonostante Android sia in via di principio un sistema open source, Google avrebbe impedito ai produttori di dispositivi di utilizzare le versioni modificate da terzi di Android, c.d. ‘Android forks’ se non quelle approvate specificamente da Google.  Infine, Google avrebbe concesso la licenza per l’uso di Play Store, portale di accesso alle app commercialmente imprescindibile, solo a condizione che i produttori di dispositivi pre-installassero il servizio di ricerca generale Goolge search e il browser Goolge Chrome.

Queste quattro questioni relative all’applicazione dell’art. 102 TFUE saranno di seguito esaminate.

2. La posizione dominante di Google

Come sopra accennato, la Commissione ha reputato che Google detenesse una posizione dominante in tre differenti mercati. Questa affermazione appare incontestabile in relazione a due di essi: nel mercato della ricerca generica su Internet, il motore Google search possiede nella maggior parte di paesi SEE quote superiori al 90%, e del pari, nel mercato dei portali di vendita per applicazioni del sistema Android, da Play Store, di proprietà di Goolge, viene scaricato il 90% delle app per dispositivi Android.

La terza posizione dominante di Google accertata dalla Commissione appare invece più controversa. Secondo la tesi accolta nella decisione, Google detiene una posizione dominante – con una quota di mercato superiore al 95% – sul mercato mondiale (eccezion fatta per la Cina) dei sistemi operativi per dispositivi mobili smart che possono essere concessi in licenza. Questo mercato sarebbe peraltro protetto da importanti barriere all’ingresso determinate, in parte, dalle notevoli risorse finanziarie necessarie per accedervi e, in altra parte, dai c.d. effetti di rete, vale a dire dal fenomeno in base al quale quanto più gli utenti utilizzano un sistema operativo, tanto più gli sviluppatori elaborano applicazioni per tale sistema, e ciò a sua volta attrae un numero ancora maggiore di utenti. Il complesso di questi elementi conferirebbe a Google il potere di determinare in modo sostanzialmente autonomo la sua condotta nel mercato dei sistemi operativi che possono essere oggetto di licenza.

Il punto più delicato di questa analisi consiste nella scelta di non considerare Android parte di un più ampio mercato comprendente anche i sistemi operativi che non sono concessi in licenza, come iOS di Apple o BlackBerry OS. Secondo i primi commenti critici della decisione sarebbe contraddittorio sostenere che alcuni sistemi operativi non appartengono al medesimo mercato di Android per il solo fatto che vengono usati solo dai loro proprietari. Ciò equivarrebbe a sostenere che le produzioni integrate verticalmente con la distribuzione non fanno parte del medesimo mercato delle produzioni liberamente disponibili nei mercati a valle. Un autore ha, al riguardo, osservato che seguendo il ragionamento della Commissione, sarebbe valida anche la seguente paradossale conclusione: nel mercato dei corn-flakes non esisterebbe concorrenza tra i due unici produttori mondiali di mais nel caso in cui uno di essi vendesse corn-flakessolo attraverso un brand appartenente al proprio gruppo (v. P. Akman, Will the European Commission’s Google decision benefit consumers?, in Truth on the Market).

Per quanto apparentemente discutibile a noi non sembra che la posizione della Commissione sia effettivamente debole.  Per stabilire se due prodotti appartengono o meno al medesimo mercato, occorre – come è ben noto – domandarsi se essi sono o meno sufficientemente sostituibili agli occhi dei possibili acquirenti (Corte di giustizia, sentenza del 14 febbraio 1978, C-27/76, UBC c. Commissione, pt. 22, ECLI:EU:C:1978:22). Ora, va sottolineato che gli utenti di sistemi operativi sono i produttori di dispositivi mobili e non i consumatori finali. Pertanto, la domanda a cui è necessario dare una risposta è se tali produttori possono agevolmente sostituire Android con, ad esempio, il sistema iOS di Apple. È evidente che tale risposta non può che essere negativa, dato che iOS – per politica commerciale e tecnica di Apple – non è concesso in licenza. È dunque chiara la ragione per cui iOS, e gli eventuali altri sistemi operativi non concessi in licenza, non appartengono allo stesso mercato di Android, il quale è invece, come detto, è un sistema open source. Questa precisazione, serve a risolvere l’apparente paradosso offerto dall’esempio dei produttori di mais. Se uno dei due produttori dell’esempio riserva il suo mais solo ad una impresa collegata verticalmente, tale mais non può mai essere un’alternativa a quello che l’altro produttore rende disponibile sul mercato della produzione di corn-flakes e dunque i mais dei due produttori non sono sostituibili tra loro, il che equivale a dire che essi appartengono a due mercati diversi. Ciò che è invece vero è che i derivati dei due mais, ossia i corn-flakes, appartengono allo stesso mercato, il quale però è diverso – e si colloca a valle – di quello del mais.

Analogamente, sebbene i sistemi operativi che non possono essere concessi in licenza non appartengano allo stesso mercato di Android, i dispositivi mobili che li installano possono invece rientrare nello stesso mercato dei dispositivi che utilizzano Android. I due mercati però si trovano, rispettivamente, a monte e a valle, e non vanno confusi.

Coerentemente con questo approccio, la Commissione si è anche domandata se, eventualmente, la concorrenza nel mercato a valle dei dispositivi mobili, in particolare tra i dispositivi Apple e quelli che utilizzano Android, potesse limitare indirettamente il potere di Google nel mercato a monte dei sistemi operativi che possono essere concessi in licenza. Infatti, se fosse relativamente agevole per un utente che utilizza un dispositivo Android cambiare quest’ultimo con un dispositivo Apple in reazione ad un non trascurabile e non transitorio incremento del prezzo dell’uso di Android da parte dei produttori di dispositivi (faccio ovviamente riferimento al c.d. SSNIP test. V. Comunicazione delle Commissione sulla definizione del mercato rilevante ai fini dell’applicazione del diritto comunitario della concorrenza, in GUCE C 372/5, del 9.12.1997) si potrebbe concludere che Google non ha un effettivo potere nel mercato dei sistemi operativi (la stessa linea di ragionamento è seguita da C. Cafarra, O. Latham, M. Bennett, F. Etro, P. Regibeau, B. Stillman, Goolge Android: European ‘Techlash or Milestone in Antitrust Enforcement?).

La Commissione ha però stabilito che tale tipo di concorrenza nel mercato a valle non limita in maniera sufficiente Google a monte. Ciò in considerazione in particolare delle seguenti circostanze: a) le decisioni di acquisto degli utilizzatori finali sono influenzate da una serie di fattori (quali le caratteristiche degli hardware e la marca dei dispositivi), che sono indipendenti dal sistema operativo mobile; b) i dispositivi Apple sono solitamente più onerosi dei dispositivi Android e pertanto possono non risultare accessibili ad un’ampia porzione della base di utenti dei dispositivi Android; c) gli utenti dei dispositivi Android che decidono di passare ai dispositivi Apple devono sostenere significativi costi di trasferimento (ad esempio perdita di applicazioni, dati e contatti, necessità di apprendere come usare un nuovo sistema operativo e d) anche se gli utenti finali decidono di passare da un dispositivo Android ad un dispositivo Apple, gli effetti sulle attività principali di Google sono limitati in quanto Google Search è il motore di ricerca di default dei dispositivi Apple ed è quindi probabile che gli utenti Apple continuino ad utilizzare Google Search per le loro ricerche (v. Commissione europea, Comunicato stampa del 18 luglio 2018, cit.).

Ci pare che questi argomenti, forse ad eccezione del primo, siano astrattamente idonei ad escludere l’influenza nel mercato a monte della concorrenza esistente nel mercato a valle. Naturalmente quanto ciò sia vero sul piano concreto dipende da valutazioni di fatto che non sono valutabili senza avere a disposizione i dati sui quali ha lavorato la Commissione.

3. Pagamenti illegali in cambio di pre-installazione esclusiva di Google Search

Venendo agli abusi delle indicate posizioni dominanti, la Commissione ha anzitutto imputato a Google di aver concesso significativi incentivi finanziari a quei grandi produttori di dispositivi e operatori di reti mobili che fossero disposti a pre-installare in esclusiva l’applicazione Google search sull’intera gamma dei loro dispositivi Android.

La pratica rientra nella categoria di violazioni dell’art. 102 TFUE generalmente definite come sconti fidelizzanti, in relazione ai quali la Corte di giustizia ha recentemente effettuato importanti precisazioni rispetto ad una giurisprudenza assai risalente. Secondo questa giurisprudenza (v. sentenza del 13 febbraio 1979, Hoffmann-La Roche c. Commissione, 85/76, ECLI:EU:C:1979:36, punto 89), costituiva un abuso la sola circostanza che un’impresa in posizione dominante vincolasse taluni acquirenti attraverso l’obbligo di rifornirsi in tutto o in larga parte del loro fabbisogno esclusivamente presso di essa, tanto se l’obbligo era imposto sic et simpliciter, quanto se aveva come contropartita la concessione di sconti. Peraltro, secondo la stessa giurisprudenza, costituiva un abuso di posizione dominante anche l’applicazione di un sistema di sconti di fedeltà, ossia di riduzioni subordinate alla condizione che il cliente – indipendentemente dal volume degli acquisti – si rifornisse esclusivamente per la totalità o per una parte considerevole del suo fabbisogno presso l’impresa dominante, a prescindere dall’esistenza di un obbligo formale di acquisto nei confronti di quest’ultima.

Nella sentenza Intel (v. sentenza del 6 settembre 2017, Intel Corporation Inc. c. Commissione, C-413/14 P,ECLI:EU:C:2017:632), resa il 6 settembre 2017 (dunque nelle more della procedura amministrativa della decisione in commento), pur confermando i suddetti principi, la Corte ha precisato che nel caso in cui l’impresa sostenga nel corso del procedimento amministrativo, sulla base di elementi di prova, che il suo comportamento non ha avuto la capacità di restringere la concorrenza e, in particolare, di produrre gli effetti di esclusione dal mercato, la Commissione è tenuta ad analizzare, non solo l’ampiezza della sua posizione dominante, ma anche il tasso di copertura del mercato ad opera della pratica concordata, le condizioni e le modalità di concessione degli sconti di cui trattasi, la loro durata e il loro importo, nonché l’eventuale esistenza di una strategia diretta ad escludere dal mercato i concorrenti quantomeno altrettanto efficaci (v. sentenza Intel., cit., pt. 139). La Corte ha altresì precisato che l’analisi della capacità di escludere dal mercato è del pari pertinente ai fini della valutazione della eventuale esistenza di giustificazioni oggettive all’abuso, ricordando che, nell’ambito di tale valutazione, l’effetto preclusivo della concorrenza derivante da un sistema di sconti può essere controbilanciato da vantaggi in termini di efficienza che vanno a beneficio anche del consumatore. Secondo la Corte, una tale ponderazione degli effetti della pratica contestata può essere svolta nella decisione della Commissione solo in esito ad un’analisi della capacità di esclusione dal mercato di concorrenti quantomeno altrettanto efficaci, intrinseca alla pratica considerata (v. sentenza Intel, cit., pt. 140).

Da quanto emerge dalle sintetiche indicazioni contenute nel comunicato stampa del 18 luglio 2018, la Commissione ha concretamente valutato gli effetti escludenti degli incentivi finanziari che Google concedeva in cambio dell’impegno a installare esclusivamente il suo motore di ricerca Google search. Da tali indicazioni emerge che la Commissione ha applicato un test di valutazione degli effetti escludenti ispirato al c.d. as efficient competitor test (AEC). In base a questo esame si deve ritenere che uno sconto praticato da un’impresa dominante ad un suo cliente esclude illegittimamente un concorrente altrettanto efficiente se il prezzo che il concorrente deve offrire al suddetto cliente per compensarlo della perdita dello sconto che riceveva dall’impresa dominante non sarebbe sufficiente nemmeno a coprire i costi di produzione di quest’ultima (per una più completa illustrazione del test AEC si v. la Comunicazione della Commissione sugli Orientamenti nell’applicazione dell’art. 82 del trattato CE al comportamento abusivo delle imprese dominanti volto all’esclusione dei concorrenti, in GUUE C 45/7, del 24.2.2009, ptt. 23-27 e 41). Questo tipo di analisi sembra aver guidato, la Commissione nella valutazione degli effetti degli incentivi finanziari di Google. Essa infatti, dopo aver richiamato espressamente lo standard di valutazione elaborato in Intel, ha affermato che la sua indagine aveva dimostrato che un motore di ricerca concorrente non sarebbe stato in grado di compensare un produttore di dispositivi o un operatore di rete mobile per la perdita degli introiti provenienti dalla redistribuzione delle entrate di Google, permettendogli di realizzare utili, poiché, anche se il motore di ricerca concorrente fosse stato preinstallato soltanto su alcuni dispositivi, questi avrebbe dovuto compensare il produttore o l’operatore per la perdita delle entrate provenienti da Google riguardanti tutti i dispositivi.

Peraltro Google sembra aver accettato le conclusioni della Commissione dato che, dopo l’inizio della procedura amministrativa, ha revocato gradualmente l’obbligo di esclusiva, per cui l’infrazione accertata dalla Commissione nella decisione è relativa soltanto al periodo 2011-2014.

4. Le pratiche leganti: il test Microsoft

Gli altri due tipi di infrazioni contestate a Google possono essere ricondotti alle c.d. pratiche leganti, ossia a quelle pratiche commerciali in virtù delle quali un’impresa in posizione dominante impone, per la fornitura di un bene o di un servizio, condizioni aggiuntive e ingiustificate. Una forma specifica di tale genere di abbinamento forzoso è tipizzata nello stesso art. 102 del TFUE che, alla lett. d), qualifica come abusivo subordinare la conclusione dei contratti all’accettazione da parte degli altri contraenti di prestazioni supplementari che, per loro natura o secondo gli usi commerciali, non abbiano alcun nesso con l’oggetto dei contratti stessi.

In materia, più che alla giurisprudenza della Corte – che si è pronunciata molto sporadicamente e senza prendere una posizione di principio (V. segnatamente sentenza del 2 marzo 1994, Hilti AG c. Commissione, C-53/92 P,  ECLI:EU:C:1994:77)- occorre fare riferimento al test delineato dal Tribunale nella sentenza Microsoft (sentenza del 17 settembre 2007, T-201/04, Microsoft c. Commissione, ECLI:EU:T:2007:289.  Per una approfondita analisi del test Microsoft si v. R. Nazzini, The Evolution of the Law and Policy on Tying: A European Perspective from Classic Leveraging to the Challenges of Online Platforms, in 26 Journal of Transational Law and Policy, 2016-17). In quella sede, il Tribunale ha affermato che il problema delle vendita abbinata deve essere valutato accertando la sussistenza di cinque requisiti: a) il prodotto principale e quello abbinato sono prodotti distinti, b) l’impresa interessata detiene una posizione dominante nel mercato del prodotto principale, c) tale impresa non offre ai consumatori la possibilità di ottenere il prodotto principale senza il prodotto abbinato, d) la pratica limita la concorrenza, ed infine e) manca per essa una giustificazione obiettiva (v. in particolare il punto 869 della sentenza che rinvia al punto 794 della decisione; quest’ultimo è riportato al punto 842 della sentenza Microsoft).

Il test Microsoft con ogni evidenza rappresenta, per usare un eufemismo, un’interpretazione evolutiva dell’art. 102, lett. e). Non ci si riferisce tanto ai primi tre requisiti, attraverso i quali il Tribunale esprime in maniera per certi versi più ambigua ciò che già si può ricavare dalla disposizione, quanto piuttosto agli ultimi due.

Partendo dal requisito sub a) occorre sottolineare che la circostanza che i prodotti debbano essere distinti va intesa nel senso che essi devono essere due (o più di due) prodotti distinti e non che i prodotti debbano essere diversi; è infatti indubbio che sussisterebbe una pratica legante se, ad esempio, in sede di acquisto di uno smartphone si fosse obbligati a comprarne anche un secondo uguale. Il requisito sub b), a sua volta, esplicita un dato ovvio perché abbinare due prodotti partendo dal mercato che non si domina conduce generalmente ad una perdita di clienti; ad esempio, se un’impresa domina il mercato degli scafi ma non quello delle vele, imporre l’acquisto dello scafo ai clienti interessati solo alle vele determina un amento delle vendite delle vele …dei concorrenti (l’esempio della pratica legante tra scafi e vele è proposto da F. Denozza, Antitrust, Leggi antimonopolistiche e tutela dei consumatori, Bologna, 1988, pp. 106 ss, testo che rimane ancora oggi uno dei più stimolanti in materia). Infine, il requisito, di cui sub c), relativo all’inesistenza della possibilità di acquisto separato dei prodotti abbinati ci pare una condizione ontologica della pratica, perché se tale possibilità sussiste il legame tra prodotti è solo virtuale.

Viceversa, sugli ultimi due requisiti del test Microsoft va posta maggiore attenzione.

Quanto al requisito sub d) in base alla quale la pratica legante deve restringere la concorrenza, va anzitutto va chiarito che esso si riferisce ad un effetto di preclusione del mercato nei confronti dei concorrenti. In tal senso la versione inglese della sentenza è molto più chiara di quella italiana, parlando di ‘foreclosure’ della concorrenza (v. sentenza Microsoft, cit., pt. 842), e non genericamente di ‘restriction’. Come sopra accennato esso è frutto di una interpretazione assai evolutiva del testo dell’art. 102, la cui lettera, con ogni evidenza, non contempla la presenza di tale requisito. In effetti il Tribunale ha esplicitamente affermato che, in linea di principio, un comportamento va considerato abusivo ‘solo se idoneo a restringere la concorrenza’ (v. sentenza Microsoft, cit., pt. 867). Questa precisazione conduce a connotare le vendite abbinate più come un abuso nei confronti dei concorrenti (nel mercato del prodotto abbinato) che come una condotta contraria alla possibilità di scelta dei consumatori, qualificazione che esprime probabilmente l’intento originario della lett. d) dell’art. 102.  Peraltro, a parziale moderazione dell’evoluzione, il Tribunale ha altresì affermato che il requisito della restrizione della concorrenza, normalmente, può essere ritenuto soddisfatto per sénelle vendite abbinate esclusive, anche se nulla vieta alla Commissione di valutarne la effettiva sussistenza, alla luce delle circostanze specifiche del caso (v. sentenza Microsoft, cit., pt. 868).

Infine, come visto, con il requisito sub e), il Tribunale precisa che, ai fini dell’illegalità della pratica legante, occorre che manchi per essa una giustificazione obiettiva. Anche in relazione a tale condizione si può osservare che non appare contemplata dal testo dell’art. 102. Tuttavia, va ricordato che la giurisprudenza della Corte ha progressivamente elaborato tale condizione in relazione a tutti gli abusi rientranti nell’art. 102, sino a farne un requisito generale di applicabilità della norma (v. segnatamente, sentenza del 27 marzo 2012, C-209/10 P, Post Danmark I, ptt. 41-42). I limiti delle finalità delle presenti note non consentono ulteriori considerazioni a questo riguardo, ma evidentemente questa condizione meriterebbe un approfondimento quanto alla sua portata in termini di politica di applicazione dell’art. 102.

Riassumendo, il test elaborato dal Tribunale nella sentenza Microsoft può essere espresso nei seguenti termini: sussiste una pratica legante abusiva se un’impresa in posizione dominante impone, ai fini della fornitura di un bene o di un servizio, l’accettazione di un altro bene o servizio che conduce ad una restrizione della concorrenza nel mercato del secondo bene o servizio; tale restrizione può comunque ritenersi un effetto presunto della pratica. In ogni caso quest’ultima sfugge dall’applicazione dell’art. 102, se esiste per essa una giustificazione obiettiva.

5. Le pratiche leganti imputate a Google: in particolare, il problema dello status quo bias

Le pratiche leganti contestate a Google sono, come sopra accennato, di due tipi.

In forza di una prima pratica, Google richiedeva ai produttori di dispositivi, desiderosi di installare le applicazioni di sua proprietà, di impegnarsi a non sviluppare o vendere alcun dispositivo che utilizzasse una versione di Android modificata (le c.d. “Android forks”) che non fosse approvata da Google medesima. In sostanza quest’ultima legava la fornitura delle sue applicazioni all’impegno a non adottare certe Andtroid forks.

In relazione a questa pratica, la Commissione ha svolto due ordini di considerazioni. In primo luogo, essa avrebbe ridotto la capacità concorrenziale dei rivali di Google; le prove reperite dalla Commissione, ad esempio, avrebbero indicato che l’obbligo di non utilizzare Androids forks non autorizzati ha impedito ad un certo numero di grandi produttori di sviluppare e vendere dispositivi basati su Fire OS, la versione Android sviluppata da Amazon. In secondo luogo, la pratica avrebbe bloccato un canale che avrebbe permesso ai concorrenti di Google di introdurre applicazioni e servizi preinstallabili sulle Android forks, producendo in tal modo un impatto negativo sugli utenti, in termini di ostacolo a ulteriori innovazioni e allo sviluppo di nuovi dispositivi basati su versioni alternative di Android.

A riguardo Google ha sempre sostenuto che la limitazione delle Androids forks utilizzabili era dovuta all’esigenza di preservare l’operatività e l’affidabilità della piattaforma open source. Secondo Google, per avere successo, tali piattaforme devono bilanciare le esigenze di tutti coloro che le utilizzano e le limitazioni introdotte servivano ad evitare la frammentazione dell’ecosistema Android, con danno degli utenti, sviluppatori e produttori di dispositivi mobili.

Queste argomentazioni sono state tenute in conto nella procedura che ha condotto alla decisione, presumibilmente nell’ambito della valutazione delle giustificazioni obiettive alla pratica legante. Tuttavia, la Commissione ha concluso che erano, almeno in parte, infondate. Per un verso, Google avrebbe potuto fare in modo che i dispositivi Android che utilizzano le applicazioni e i servizi di sua proprietà fossero conformi ai propri requisiti tecnici, senza impedire lo sviluppo di versioni alternative di Android. Per l’altro, Google non avrebbe fornito alcun elemento di prova attendibile che dimostrasse che le versioni alternative di Android avrebbero subito avarie tecniche o non sarebbero riuscite a sostenere alcune applicazioni.

La questione della necessità della pratica legante ai fini della anti-frammentazione del sistema Andriod è sostanzialmente tecnica, e dunque su di essa è impossibile prendere posizione. Dal punto di vista giuridico, tuttavia, la decisione sembra solida in quanto la Commissione non sembra aver omesso di valutare con attenzione le giustificazioni di Google.

La seconda pratica legante è senz’altro intellettualmente più stimolante. Secondo la Commissione, Google, confidando sulla circostanza che il suo portale di accesso alle app – Play Store– risulta un’applicazione imprescindibile dal punto di vista commerciale, richiedeva ai produttori di dispositivi mobili, come condizione per la conclusione del contratto di licenza di Play Store, di pre-installare sia il motore di ricerca generico Goolge Search, sia il browser Google Chrome.

Google ha vigorosamente contestato che queste condizioni siano abusive, perché gli utenti, una volta acquistati i devices, possono facilmente e senza costi sia disinstallare Google Search eGoogle Chrome, sia aggiungere ad esse le applicazioni di concorrenti di Google. In sostanza dalla pratica legante non deriverebbe nessuna effettiva preclusione (foreclosure) della concorrenza né una restrizione della libertà di scelta dei consumatori, perché la concorrenza e la scelta sarebbero a distanza di un solo ‘click’ (in questo senso si vedano le prese di posizione di K. Walker, Senior Vice President di Google, Android: Choice at every turn, e di S. Pichai, CEO di Google, Androd has created more choice, not less. L’argomento merita attenzione, perché connota la pratica legante in esame in maniera del tutto nuova rispetto agli esempi precedenti. L’abbinamento tradizionale di due prodotti, infatti, presuppone l’irrealizzabilità, sul piano concreto, dell’acquisto di un prodotto alternativo a quello imposto dall’impresa dominante. Ciò in ragione, vuoi di eventuali elementi tecnici, vuoi dei costi supplementari connessi con l’acquisto di tale prodotto. Per tornare all’esempio velistico sopra proposto, nel caso di abbinamento obbligato tra uno scafo e le vele dell’impresa dominante, le vele dei concorrenti sono messe fuori gioco dal fatto che il consumatore ha già acquistato (forzosamente) le vele dell’impresa dominante e pertanto non si rivolge ai prodotti dei concorrenti, anche se astrattamente li preferirebbe. Il caso dell’abbinamento tra Play StoreGoogle SearchGoogle Chromeè invece significativamente diverso, perché il consumatore, una volta acquistato il dispositivo mobile, non incontra praticamente nessun costo a scaricare un motore di ricerca e/o un browser alternativi a quelli che gli sono stati (forzosamente) pre-installati sul suo dispositivo.

Per giungere a ritenere illecito anche questo tipo di abbinamento la Commissione fa riferimento alla c.d. distorsione dello status quo. La distorsione (bias) consiste nel fenomeno di sistematica riluttanza dei consumatori ad abbandonare una situazione nota o acquisita per opzionare situazioni nuove o ignote, e ciò a prescindere dal calcolo della maggiore o minore utilità delle diverse opzioni.  Si tratta di una preferenza comportamentale, che smentisce l’assunto della perfetta razionalità dei soggetti economici, confermata da numerosi indagini empiriche ed avvalorata da ulteriori studi dellabehavioural economics (W. Samuelson & R. J. Zeckhauser, Status quo bias in decision making, in Journal of Risk and Uncertainty, 1, 1988, pp. 7–59; D. Kahneman, J. L. Knetsch, R. H. Thaler, Anomalies: The Endowment Effect, Loss Aversion, and Status Quo Bias., in Journal of Economic Perspectives, in Journal of Economic Perspectives, 1991, 5, 1, p. 193-206; R. Thaler, Misbehaving, The making of behavioral economics, Penguin, 2015).

Adottando la prospettiva scientifica indicata, la Commissione afferma che gli utenti che trovano applicazioni di ricerca e browsing preinstallate sui loro dispositivi tendenzialmente non le cambino. Essa dichiara di aver identificato elementi di prova che indicano che l’applicazione Google Search viene sistematicamente utilizzata con maggiore frequenza sui dispositivi Android, dove è preinstallata, rispetto ai dispositivi Windows Mobile, in cui gli utenti devono scaricarla. Tale dato dimostra, secondo la Commissione, che gli utenti non scaricano applicazioni concorrenti in quantitativi tali da annullare il vantaggio commerciale rappresentato dalla preinstallazione (la Commissione indica, a titolo di esempio, che nel 2016 sui dispositivi Android che avevano pre-installati Google Search e Chrome, oltre il 95% di tutte le ricerche è stato effettuato tramite Google Search mentre sui dispositivi Windows Mobile, che non pre-installavano le suddette app, la percentuale di ricerche effettuate tramite Google Search è stata inferiore al 25%; viceversa oltre il 75% delle ricerche è risultato effettuato tramite il motore di ricerca Bing di Microsoft, che viene preinstallato sui dispositivi Windows Mobile). La pratica legante, dunque, sebbene non imponesse un divieto di installare app dei concorrenti avrebbe comunque di fatto ridotto gli incentivi degli utenti a scaricare tali applicazioni. Ciò a sua volta avrebbe diminuito la capacità dei concorrenti di competere in modo efficace con Google.

Peraltro, la Commissione non ha nemmeno mancato di esaminare – evidentemente nel quadro dell’analisi delle giustificazioni obiettive alla pratica legante – gli argomenti avanzati da Google secondo le quali l’abbinamento dell’applicazione Google Search con il browser Chrome era necessario, in particolare, per permetterle di monetizzare il proprio investimento in Android. La Commissione ha ritenuto in parte infondate tali argomentazioni osservando che, per un verso, Google realizza ogni anno ingenti entrate soltanto tramite Play Store e raccoglie dai dispositivi Android masse significative di dati preziosi per le sue attività di ricerca e di pubblicità. Infine, Google avrebbe comunque beneficiato di un ingente flusso di entrate proveniente dalla pubblicità nei motori di ricerca anche senza le restrizioni.

In sostanza emerge che la decisione della Commissione anche sotto questi profili non manca di solide fondamenta scientifiche, fattuali e probatorie.

6. Altri androidi

Dalle prime valutazioni, necessariamente lacunose, ci pare che emerga che la questione Google esemplifica l’odierna complessità del rapporto tra politica antitrust e le dinamiche che caratterizzano i nuovi mercati digitali. Commissione si è confrontata con essi, per un verso, adattando il tradizionale tool boxantitrust alle particolarità del caso, e per l’altro, avvalendosi, per la prima volta in maniera cruciale, della nuova strumentazione concettuale elaborata dalla behavioural economics. In tal modo, nel complesso, la decisione sembra solida.  Se tale apparirà anche ai giudici europei che sono investiti della sua revisione giurisdizionale è difficile da prevedere. A tal fine forse occorrerebbe un altro genere di androide, quello di Blade Runner, che, come i romantici ricorderanno, vide cose che noi umani non possiamo nemmeno immaginare.


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