Prima pronuncia pregiudiziale della Corte di giustizia sulle garanzie difensive di indagati e imputati nei procedimenti penali

 1. Contesto in cui si colloca la decisione in esame

 Con sentenza del 15 ottobre 2015, causa C-216/14, Covaci, la Corte di giustizia ha affrontato, per la prima volta, la tematica dei diritti di imputati e indagati in un procedimento penale. La pronuncia è stata determinata dalla prima questione pregiudiziale sollevata ai sensi dell’art. 267 TFUE da un giudice tedesco, dopo l’adozione delle prime direttive elaborate nel settore della cooperazione giudiziaria in materia penale successivamente all’entrata in vigore del trattato di Lisbona. Per facilitare e rafforzare l’applicazione del principio del reciproco riconoscimento delle decisioni penali, su cui tale cooperazione si fonda ex art. 82, par. 1, TFUE, il par. 2 della medesima disposizione attribuisce al Parlamento europeo e al Consiglio dell’Unione la competenza a stabilire norme minime, mediante direttive, che abbiano ad oggetto, tra l’altro, i diritti della persona nella procedura penale. Proprio ricorrendo a tale base giuridica, l’Unione ha adottato la direttiva 2010/64/UE relativa al diritto all’interpretazione e alla traduzione nei procedimenti penali, e la direttiva 2012/13/UE relativa al diritto all’informazione nei procedimenti penali, entrambe oggetto delle questioni pregiudiziali sulle quali la Corte è stata chiamata a pronunciarsi nella causa in esame.

Nella materia di cui si tratta, l’obbligatorietà della competenza pregiudiziale della Corte di giustizia costituisce, come noto, una novità relativamente recente, essendo stata introdotta con il trattato di Lisbona. Nelle previgenti disposizioni del TUE (art. 35) era demandata agli Stati membri la facoltà di accettare tale competenza della Corte in relazione agli atti adottati nell’allora “terzo pilastro” dell’Unione, e una dichiarazione di accettazione della giurisdizione della Corte era stata presentata da (soli) 19 Stati membri (sulla fine del regime transitorio per gli atti del terzo pilastro v. in questa rivista).

 2. Il rinvio pregiudiziale

La domanda di pronuncia pregiudiziale, con la quale sono state sottoposte all’attenzione della Corte di giustizia due distinte questioni interpretative, è stata proposta il 30 aprile 2014 dall’Amtsgericht Laufen (Germania), al fine di chiarire quale dovesse essere la portata delle disposizioni contenute nelle predette direttive, in relazione alla normativa tedesca contenuta all’art. 184 del Gerichtsverfassungsgesetz (legge organica sulla giustizia) e agli articoli 132 e 410 del Strafprozessordnung (codice di procedura penale).

Le questioni pregiudiziali sono state sollevate dal giudice a quo nell’ambito dello svolgimento di un procedimento semplificato finalizzato all’emissione di un decreto penale di condanna. La peculiarità di tale giudizio consiste nell’assenza di un’udienza preventiva e, conseguentemente, di contraddittorio, essendo lo stesso differito al momento – eventuale – in cui il soggetto destinatario del provvedimento proponga opposizione al decreto, entro il termine di 15 giorni dalla ricezione della notifica, innanzi allo stesso giudice che lo ha emesso. La mancanza della garanzia del contraddittorio è bilanciata, quindi, dal carattere provvisorio del decreto penale di condanna, che acquisisce efficacia di cosa giudicata soltanto in caso di mancata o non tempestiva opposizione. Qualora il destinatario della notifica sia privo di residenza o domicilio nel territorio nazionale, questa è effettuata ad un domiciliatario, indicato dal primo, sul quale graverà l’incombenza di comunicare il contenuto dell’atto al suo effettivo destinatario.

Nel caso di specie, il destinatario del decreto penale di condanna era un cittadino di nazionalità rumena che, durante un controllo stradale, era stato fermato alla guida, sul territorio tedesco, di un veicolo senza valida copertura assicurativa, recante un certificato di assicurazione falsificato. Ascoltato dinanzi all’autorità di polizia con l’aiuto di un interprete, e in assenza di residenza o domicilio nello Stato procedente, il soggetto, ai sensi dell’art. 132 del codice di procedura penale tedesco, era stato invitato a nominare un domiciliatario per la ricezione delle notifiche inerenti al procedimento aperto a suo carico.

A conclusione delle indagini, il pubblico ministero chiedeva l’emissione di un decreto penale di condanna che avrebbe dovuto essere notificato all’imputato, per il tramite del domiciliatario nominato, con l’avvertenza che eventuali osservazioni, nonché l’opposizione stessa, avrebbero dovuto essere redatte in lingua tedesca.

Il giudice a quo, ritenendo che nell’ambito del procedimento pendente dovessero trovare applicazione le disposizioni delle menzionate direttive 2010/64 e 2012/13, e nutrendo dubbi in ordine all’interpretazione delle disposizioni ivi contenute, in relazione alla disciplina nazionale applicabile, ha sospeso il procedimento e sottoposto alla Corte di giustizia due questioni pregiudiziali.

 3. La prima questione interpretativa inerente alla direttiva 2010/64 e la soluzione della Corte

 Con la prima questione, il giudice tedesco ha chiesto «[s]e gli articoli 1, paragrafo 2, e 2, paragrafi 1 e 8, della direttiva 2010/64 debbano essere interpretati nel senso che ostino all’applicazione di un provvedimento giudiziale che consenta all’imputato, in applicazione dell’articolo 184 del Gerichtsverfassungsgesetz tedesco, di presentare validamente ricorso soltanto nella lingua processuale, nella specie il tedesco».

Prima di procedere all’analisi di siffatta questione, la Corte ha verificato se nell’ambito di applicazione della direttiva 2010/64 rientrasse anche la situazione dell’imputato nel procedimento penale per decreto di condanna, concludendo in senso positivo. L’art. 1, par. 2, della direttiva, nel delineare l’operatività del diritto all’interpretazione e alla traduzione, fa coincidere il momento iniziale del suo riconoscimento con la conoscenza ufficiale (in quanto derivante dalle autorità competenti), da parte del soggetto interessato, di essere indagato o imputato per un reato. Deve, pertanto, ritenersi che il destinatario di un decreto penale di condanna, non ancora definitivo, debba beneficiare dei diritti processuali riconosciuti dalla direttiva.

Il citato art. 184 della legge organica sulla giustizia sancisce, genericamente, che «La lingua dei procedimenti giudiziari è il tedesco » (salve le precisazioni di cui all’art. 187 della medesima legge, in ordine al riconoscimento dei diritti all’interpretazione e alla traduzione all’indagato/imputato che «non padroneggi la lingua tedesca»). Da tale disposizione consegue naturaliter la necessità di predisporre gli atti indirizzati all’autorità giudiziaria nella lingua del procedimento, nel caso di specie anche l’opposizione a decreto penale di condanna, ancorché il proponente non parli il tedesco. Al fine di verificare se una simile conclusione fosse compatibile con le garanzie riconosciute dalla direttiva all’imputato alloglotta, i giudici del Lussemburgo hanno analizzato separatamente le disposizioni di cui agli articoli 2 e 3 della direttiva, considerando che essi concernono due diritti distinti, rispettivamente il diritto all’interpretazione e il diritto alla traduzione degli atti. Occorre sin da ora rilevare che, sebbene la disposizione di cui all’art. 3 non fosse espressamente richiamata nella domanda pregiudiziale, la Corte la ha comunque ritenuta rilevante per la soluzione del caso di specie, fornendo la propria interpretazione anche in relazione ad essa.

Con riferimento all’art. 2, il diritto all’assistenza di un interprete è riconosciuto agli indagati/imputati che non siano in grado di comprendere e farsi comprendere, limitatamente alle comunicazioni orali intercorrenti con l’autorità giudiziaria (in sede di udienza e di interrogatorio) o con il difensore (finalizzate a rendere un interrogatorio o a predisporre  una memoria o un’istanza procedurale). Finalità ultima di tale garanzia è quella di consentire l’esercizio dei diritti della difesa e di tutelare l’equità del procedimento (cfr. 17° considerando della direttiva 2010/64).

Così delineata la portata dell’art. 2, la Corte ha ritenuto che esorbiterebbe dagli obiettivi perseguiti dalla stessa direttiva un’interpretazione della garanzia volta ad estenderne la portata fino a ricomprendere la «traduzione di tutti i ricorsi proposti dalle persone interessate avverso un provvedimento giudiziario emesso nei loro confronti» (punto 38 della sentenza).

Per avvalorare la propria tesi, la Corte di giustizia richiama espressamente la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo che, nell’interpretare l’art. 6 della CEDU, ha più volte ribadito che «il rispetto dei requisiti relativi al processo equo si limita a garantire che l’accusato sia a conoscenza degli addebiti contestatigli e possa difendersi, senza che sia necessaria la traduzione scritta di tutte le prove documentali o di tutti i documenti ufficiali contenuti nel fascicolo» (Corte eur. D.U., 19 dicembre 1989, Kamasinski c. Austria, par.74, richiamata al punto 39 della sentenza in commento). Il riferimento alla giurisprudenza della Corte EDU deve ritenersi pienamente condivisibile in quanto ai sensi dell’art. 8 della direttiva 2010/64, le garanzie ivi sancite non possono determinare una regressione delle garanzie già offerte dalla CEDU e dagli ordinamenti degli Stati membri. La clausola di non regressione esplicita un principio generalmente previsto dall’art. 52, par. 3, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, nella misura in cui tale disposizione attribuisca ai diritti sanciti nella Carta, e corrispondenti a quelli garantiti dalla CEDU (tra i quali l’art. 47 della Carta, in materia di garanzie processuali), significato e portata uguali a questi ultimi, con salvezza per il diritto dell’Unione di apprestare un livello di protezione più elevato. Qualora nell’interpretare l’art. 6 della CEDU, la Corte di Strasburgo avesse ritenuto che la presentazione di un ricorso da parte dell’imputato alloglotta nella propria lingua costituisse imprescindibile garanzia per tutelare il diritto ad un equo processo, la Corte di giustizia avrebbe dovuto interpretare a sua volta la garanzia di cui all’art. 2 della direttiva in modo da non causare una regressione della tutela fornita dalla Convenzione. Orbene, poiché una disciplina in tal senso non è rinvenibile all’interno della CEDU, nell’interpretazione fornitane dalla Corte EDU, e poiché l’art. 2 della direttiva non contiene testualmente, sotto questo profilo, una garanzia maggiore rispetto a quella convenzionale, deve ritenersi che l’imputato, nel proporre opposizione a decreto penale di condanna, non potrà beneficiare della traduzione del ricorso per il tramite della garanzia del diritto all’interprete, quale sancita dall’art. 2 della direttiva 2010/64.

Ad una conclusione differente, invece, è pervenuta la Corte di giustizia nell’ipotesi in cui l’opposizione a decreto penale di condanna sia proposta oralmente (se consentito nel giudizio a quo), presso la cancelleria del giudice che lo ha emesso, ovvero mediante l’ausilio di un difensore, dovendosi garantire, in entrambi i casi, l’intervento di un interprete che oralmente consenta all’imputato medesimo di farsi comprendere, rispettivamente, dal cancelliere che dovrà redigere il processo verbale di opposizione, ovvero dal difensore che dovrà assisterlo nella predisposizione dell’atto. Facendo leva su tale argomento, l’avvocato generale, nelle conclusioni depositate il 7 maggio 2015 (su cui v. in questa rivista), aveva ritenuto iniquo che la nomina o meno del difensore potesse incidere sulla fruibilità del diritto all’interprete, suggerendo alla Corte di risolvere il quesito pregiudiziale nel senso che il diritto assicurato dalla direttiva potesse assumere anche «la forma di una traduzione scritta delle parole espresse dalla difesa in un documento quale un atto introduttivo di un ricorso» (punto 78 delle conclusioni). La soluzione prospettata non è stata accolta dalla Corte che ha, piuttosto, ritenuto l’inidoneità dell’art. 2 della direttiva a fornire risposta positiva al quesito posto dal giudice del rinvio.

L’attenzione dei giudici del Kirchberg si è, poi, soffermata sull’art. 3 della direttiva 2010/64, contenente la disciplina del diritto alla traduzione di documenti fondamentali del processo. Devono intendersi tali, tutti gli atti che siano teleologicamente orientati all’esercizio del diritto di difesa e alla tutela dell’equità del procedimento. La disposizione, peraltro, definisce nel dettaglio la portata della garanzia, individuando tre categorie di atti per i quali la traduzione deve sempre essere disposta: si tratta degli atti che privano una persona della libertà, delle sentenze e degli atti che contengono i capi d’imputazione (par. 2). Accanto a questa presunzione di necessità della traduzione scritta, la direttiva rimanda ad una valutazione discrezionale delle autorità competenti la scelta di riconoscere tale garanzia in relazione ad atti ulteriori, anche su sollecitazione dell’interessato (par. 3).

Dall’elencazione degli atti la cui traduzione è obbligatoria, nonché dalla finalità del diritto alla traduzione, i giudici hanno ritenuto che il diritto in parola riguardasse «solo la traduzione scritta nella lingua compresa dalla persona interessata di determinati documenti redatti nella lingua del procedimento da parte delle autorità competenti» (punto 44 della sentenza). Ciò determina la natura unidirezionale del diritto alla traduzione, inteso quale mezzo per consentire all’indagato/imputato di comprendere il procedimento ma non anche di farsi comprendere, al punto che lo stesso par. 4 dell’art. 3, nell’escludere anche dalla traduzione di atti fondamentali, quelle parti non necessarie al fine di «consentire agli indagati o agli imputati di conoscere le accuse a loro carico», individua la ratio ultima della garanzia nella conoscibilità degli addebiti mossi ad un individuo nell’ambito di un procedimento penale. Ne consegue, pertanto, l’impossibilità di inserire necessariamente all’interno della sfera di operatività del diritto alla traduzione anche quegli atti che, come l’opposizione a decreto penale di condanna, hanno per destinatario l’autorità giudiziaria e non l’indagato/ imputato, che ne è invece l’autore.

Un temperamento a questa conclusione, potrebbe essere rinvenuto, a detta della Corte, nel par. 3 del medesimo art. 3, disposizione che consente, come accennato, all’autorità competente di individuare, caso per caso, ulteriori atti per i quali ritenere necessaria la traduzione. In questo modo, la soluzione in ordine al riconoscimento del diritto a beneficiare della traduzione nella lingua del procedimento del ricorso proposto in una lingua diversa è demandata, secondo il ragionamento della Corte, al giudice nazionale dinanzi al quale la questione sulla traducibilità dell’atto si pone.

A fronte di tali premesse, la Corte risolve il primo quesito pregiudiziale includendovi l’interpretazione dell’art. 3 della direttiva, seppur come detto, non richiamato dal giudice a quo. Essa dichiara «gli articoli da 1 a 3 della direttiva 2010/64/UE, devono essere interpretati nel senso che non ostano a una normativa nazionale, come quella oggetto del procedimento principale, la quale, nell’ambito di un procedimento penale, non consenta alla persona, nei cui confronti sia stato emesso decreto penale di condanna, di proporre opposizione per iscritto avverso il decreto stesso in una lingua diversa da quella del procedimento, sebbene tale persona non padroneggi quest’ultima lingua, a condizione che le autorità competenti non ritengano, conformemente all’articolo 3, paragrafo 3, di tale direttiva, che, alla luce del procedimento di cui trattasi e delle circostanze del caso di specie, detta opposizione costituisca un documento fondamentale» (punto 51 della sentenza, corsivi aggiunti).

Nell’interpretare la direttiva 2010/64, la Corte di giustizia ha, dunque, chiaramente affermato che nessuna disposizione ivi contenuta può determinare un obbligo per gli Stati membri di consentire all’imputato alloglotta di presentare un atto, come l’opposizione a decreto penale di condanna, nella propria lingua, salva la facoltà per l’autorità nazionale competente di riconoscere a tale atto valore fondamentale ai sensi dell’art. 3, par. 3, con tutti gli effetti che ne conseguono in ordine alla sua traducibilità.

Quest’ultima precisazione si pone, tuttavia, in contrasto con il precedente iter motivazionale della Corte, allorquando nel richiamare l’art. 3, par. 4, ha dichiarato che la finalità ultima del diritto alla traduzione è quella di far conoscere all’indagato/imputato le accuse a suo carico, in quanto ciò costituisce presupposto indispensabile per esercitare qualsiasi diritto della difesa. Da tale premessa, come già sottolineato, la Corte ha fatto discendere l’impossibilità di ritenere traducibili gli atti rispetto ai quali il soggetto sia l’autore e non il destinatario. Ragioni di coerenza determinano l’impossibilità di discostarsi da una simile conclusione anche qualora la traduzione sia riconosciuta non in quanto l’atto rientri in una delle tre categorie di cui al par. 2, bensì in quanto l’autorità procedente abbia ritenuto che questo fosse comunque fondamentale.

L’eventuale scelta del legislatore nazionale, volta a consentire all’imputato alloglotta di presentare un atto di opposizione a decreto penale di condanna nella propria lingua, con onere finanziario a carico dello Stato (art. 4 della direttiva), ancorché espressione di una valutazione insindacabilmente rimessa al potere legislativo, non può comunque trovare “copertura” nelle disposizioni della direttiva 2010/64, avendo questa la funzione esclusiva di assicurare la traduzione degli atti provenienti dall’autorità giudiziaria e necessari per la comprensione delle accuse. Tale rilievo, peraltro, appare confermato anche da una considerazione di ordine letterale: il 22° considerando della direttiva in analisi, nel sancire che «[l]’interpretazione e la traduzione a norma della presente direttiva dovrebbero essere fornite nella lingua madre degli indagati o imputati o in qualsiasi altra lingua che questi parlano o comprendono», àncora il diritto alla traduzione degli atti alla lingua madre o altra lingua comprensibile dall’interessato, escludendo per converso che la garanzia in oggetto possa ricomprendere quegli atti che, già redatti nella lingua dell’imputato, debbano essere tradotti nella lingua del procedimento.

 4. La seconda questione pregiudiziale inerente alla direttiva 2012/13 e l’interpretazione della Corte

 Con la seconda questione, il giudice del rinvio ha chiesto alla Corte di giustizia «[s]e gli articoli 2, 3, paragrafo 1, lettera c), e 6, paragrafi 1 e 3, della direttiva 2012/13/UE debbano essere interpretati nel senso che ostino a che venga disposta la nomina di un domiciliatario di un imputato qualora il termine per la presentazione di rimedi giuridici inizi a decorrere già con la notifica al domiciliatario e, in definitiva, resti irrilevante se l’imputato abbia o meno avuto conoscenza dell’accusa».

La disciplina dell’opposizione a decreto penale di condanna, contenuta nel codice di procedura penale tedesco, come già ricordato, àncora l’inizio della decorrenza del termine di quindici giorni per la sua presentazione alla ricezione della notifica. Dal combinato disposto con le previsioni nazionali in tema di notifica degli atti all’indagato/imputato privo di residenza o domicilio nello Stato, dai quali si ricava un obbligo per lo stesso di nominare un domiciliatario, discende che il termine per proporre opposizione inizi a decorrere sempre dalla notifica del decreto che, in questo caso, non sarà indirizzata al suo diretto destinatario, bensì alla persona da esso indicata. Il domiciliatario è tenuto a trasmettere l’atto per posta ordinaria all’interessato, il quale potrà, in caso di impossibilità di rispettare il termine di quindici giorni, avvalersi dell’art. 44 del codice di procedura penale tedesco che garantisce la rimessione nel termine di presentazione di un ricorso, in caso di impossibilità incolpevole di rispettarlo.

La direttiva 2012/13, concernente il diritto all’informazione, ha una duplice portata: da un lato, concerne l’informazione sui diritti processuali che occorre riconoscere all’indagato/imputato; dall’altro lato, essa attiene all’informazione sull’accusa che viene mossa al soggetto nell’ambito di un procedimento penale. La questione sollevata, ad avviso della Corte di giustizia, è inerente a questa seconda garanzia riconosciuta dalla direttiva, sicché è sull’interpretazione del solo art. 6 che si è soffermata l’attenzione dei giudici.

L’informazione sull’accusa deve essere garantita, ai sensi del par. 3 della disposizione testé richiamata, «al più tardi al momento in cui il merito dell’accusa è sottoposto all’esame di un’autorità giudiziaria» e deve concernere tanto i fatti contestati, quanto la loro qualificazione giuridica. In un procedimento semplificato, come quello previsto per l’emissione di un decreto penale di condanna, la notifica costituisce, a detta della Corte, «la prima occasione per l’imputato di essere informato in merito all’accusa formulata a suo carico. Ciò risulta peraltro confermato dal fatto che tale persona è legittimata a proporre non un ricorso avverso tale decreto dinanzi ad altro giudice, bensì un’opposizione che le consente di beneficiare, dinanzi al medesimo giudice, del procedimento in contraddittorio ordinario, nell’ambito del quale potrà esercitare appieno il proprio diritto di difesa » (punto 60 della sentenza). Tale rilievo consente di ritenere legittimo il differimento del momento di ricezione dell’informazione sull’accusa, rispetto al termine finale previsto dall’art. 6, par. 3, della direttiva, in quanto il destinatario di un decreto penale di condanna riceverà la notifica soltanto dopo che il giudice al quale è stata chiesta l’emissione del provvedimento abbia esaminato la fondatezza dell’accusa a suo carico, determinando l’atto di opposizione una nuova pronuncia dello stesso giudice in relazione all’attendibilità dei fatti contestati.

La qualificazione della notifica di un decreto penale di condanna come mezzo attraverso il quale la persona coinvolta in un procedimento penale riceve la comunicazione ufficiale sull’accusa a suo carico, secondo il disposto dell’art. 6 della direttiva 2012/13, determina la sua assoggettabilità ai requisiti ivi stabiliti, sebbene la direttiva stessa non specifichi le modalità attraverso le quali l’informazione debba essere fornita. La libertà degli Stati membri in ordine all’individuazione in concreto delle caratteristiche della comunicazione in questione incontra il limite del rispetto della finalità per la quale una tale garanzia deve essere riconosciuta, ovverosia quella di consentire all’indagato/imputato la predisposizione della propria difesa e di garantire l’equità del procedimento.

Se, pertanto, la Corte non può censurare la scelta del legislatore tedesco di provvedere alla comunicazione sul diritto all’informazione sull’accusa nelle forme della notifica al domiciliatario dell’indagato/imputato non residente o privo di domicilio, essa può verificare se, in concreto, tale forma di comunicazione ponga l’interessato nella condizione di esercitare i diritti della difesa. Tale risultato, secondo la Corte, può essere ottenuto esclusivamente ammettendo che la decorrenza del termine per la proposizione di opposizione al decreto penale di condanna coincida non con la notifica al domiciliatario, bensì con il momento in cui l’imputato ha avuto effettivamente conoscenza del provvedimento, anche al fine di «evitare qualsiasi discriminazione tra, da un lato, gli imputati che possiedano la propria residenza nella sfera di applicazione territoriale della legge nazionale interessata e, dall’altro, quelle la cui residenza non rientri nella sfera medesima, che sono le sole a dover nominare un domiciliatario ai fini della notifica dei provvedimenti giudiziari» (punto 65 della sentenza). In altre parole, l’equità del processo passa attraverso lo scomputo, dal termine per proporre opposizione, del tempo necessario al domiciliatario per portare a conoscenza dell’imputato il decreto penale di condanna ad esso notificato. Nelle more di questi adempimenti che competono al domiciliatario, il termine per proporre l’opposizione non potrebbe iniziare a decorrere.

Sulla base di tale ragionamento, la Corte di giustizia ha pertanto affermato che «gli articoli 2, 3, paragrafo 1, lettera c), e 6, paragrafi 1 e 3, della direttiva 2012/13 devono essere interpretati nel senso che non ostano a una normativa nazionale di uno Stato membro, come quella oggetto del procedimento principale, la quale, nell’ambito di un procedimento penale, imponga all’imputato non residente in tale Stato membro di nominare un domiciliatario ai fini della notifica di un decreto penale di condanna emesso nei suoi confronti, purché tale persona benefici effettivamente in toto del termine stabilito per proporre opposizione avverso il decreto stesso» (punto 68 della sentenza, corsivi aggiunti).

La soluzione di questa seconda questione pregiudiziale, perfettamente in linea con le argomentazioni espresse dell’avvocato generale nelle sue conclusioni, potrebbe tuttavia determinare non pochi problemi concreti in sede di “recepimento” dei principi ermeneutici elaborati dalla Corte, all’interno del procedimento penale per l’emissione di un decreto di condanna. È di immediata percezione il rischio di paralizzare sine die la decorrenza del termine per proporre opposizione che, nella prospettazione dei giudici dell’Unione dovrebbe essere ancorata ad un evento la cui prova è del tutto incerta, consistendo nella ricezione per posta ordinaria, da parte del destinatario, del decreto penale di condanna.

L’interpretazione della Corte, peraltro, potrebbe cagionare violazioni del principio di eguaglianza, di segno opposto rispetto a quelle che i giudici hanno inteso scongiurare. Il sistema della notifica, infatti, si fonda sulla nozione di conoscenza legale dell’atto e non di conoscenza effettiva da parte del destinatario. Ritenere che solo l’indagato/imputato non residente o privo di domicilio nel territorio nazionale abbia il diritto di godere di un termine per proporre opposizione decorrente dal momento dell’effettiva conoscenza del contenuto dell’atto notificato al suo domiciliatario, determinerebbe una situazione assimilabile ad una “discriminazione alla rovescia” (generalmente concernente differenze di trattamento normativo tra cittadini di uno Stato membro e cittadini di altri Stati dell’Unione), poiché tutti i residenti o domiciliati nel territorio dello Stato (in numero più elevato cittadini di quello Stato, ma certo potrebbero essere anche cittadini di altri Stati membri o di Stati terzi), solo per tale ragione, beneficerebbero di un trattamento deteriore, in quanto nei loro confronti la decorrenza del termine per proporre opposizione al decreto penale di condanna coinciderebbe con la notifica dell’atto e dunque non con il momento della conoscenza effettiva del contenuto dell’atto, bensì dal momento di conoscenza legale.

La ragione che ha mosso la Corte di giustizia a prospettare tale soluzione è, come detto, quella di garantire che l’indagato/imputato non residente o privo di domicilio nello Stato procedente, possa beneficiare dell’intero termine di quindici giorni, al fine di predisporre al meglio la sua difesa, conformemente alla finalità dell’informazione sull’accusa. Orbene, tale esigenza non è certamente sconosciuta al legislatore nazionale che, nel prevedere l’istituto della restituzione nel termine per la presentazione di un ricorso, a causa di un’incolpevole inosservanza, fornisce già un rimedio giuridico adeguato alle situazioni in cui il destinatario di un decreto penale di condanna ne sia rimasto all’oscuro per ragioni ad esso non imputabili. Così facendo, ovvero applicando lo stesso rimedio anche per gli indagati/imputati privi di domicilio o residenza nel territorio dello Stato procedente, si garantirebbe un trattamento uniforme rispetto ai residenti o domiciliati in quello Stato, costituendo in entrambi i casi la notifica momento certo e provabile dal quale far dipendere la decorrenza del termine per opporre un decreto penale di condanna, con salvezza, nei casi patologici, attraverso l’istituto della restituzione nel termine, del diritto dell’interessato a predisporre al meglio la propria difesa.

 5. Qualche riflessione conclusiva

Le soluzioni prospettate dalla Corte di giustizia in relazione alle due questioni pregiudiziali poste alla sua attenzione appaiono improntate ad un criterio ermeneutico volto alla massimizzazione delle garanzie processuali di indagati e imputati. Seppur in maniera implicita, i giudici hanno fatto proprie le premesse del ragionamento dell’avvocato generale espresse nelle citate conclusioni del 7 maggio 2015, secondo cui l’interpretazione dei diritti sanciti nelle direttive analizzate, sebbene queste contengano solo “norme minime”, non può certo comportare una riduzione della loro portata.

Al fine di perseguire tale scopo, la Corte, pur non arrivando a pronunciare un giudizio di sostanziale incompatibilità della normativa nazionale con quella dell’Unione, ha temperato la sua valutazione fornendo un’interpretazione dei diritti all’assistenza linguistica e all’informazione in senso ampio, ricomprendendo nell’ambito di operatività delle due rilevanti direttive garanzie che, come si è avuto modo di sottolineare, sembrano esulare dalla sfera di applicabilità delle medesime (come nel caso della traduzione di atti che l’indagato/imputato indirizza all’autorità giudiziaria), ovvero possono paralizzare lo svolgimento del procedimento penale (qualora il termine per proporre opposizione ad un decreto penale di condanna decorresse dal momento di conoscenza effettiva dell’atto e non dalla notifica).

Nella sua impostazione ermeneutica, la Corte avrebbe forse dovuto tenere in considerazione, oltre ai diritti che spettano alla persona indagata/imputata, anche tutte le altre esigenze processuali (tutelate dalle stesse direttive e/o da previsioni della Carta – quali i suoi artt. 47 e 48 che nelle direttive trovano specificazione – o in principi generali di diritto), quali ad esempio la ragionevole durata del processo, la celerità del giudizio, la certezza del diritto e l’impossibilità di gravare gli Stati membri di costi di giustizia spropositatamente elevati.

La tutela del diritto di difesa, come criterio ermeneutico, deve, pertanto, ricoprire una duplice funzione: da un lato, essa deve garantire l’estensione delle garanzie processuali anche ai casi non espressamente previsti qualora ciò risulti necessario per evitare che il processo possa essere considerato iniquo; dall’altro lato, essa deve essere impiegata al fine di impedire che la portata di una garanzia sia estesa fino a ricomprendere quanto non sia strettamente necessario a consentire all’imputato di difendersi. Un chiaro esempio di questo doppio impiego è fornito proprio dalla pronuncia della Corte EDU (19 dicembre 1989, Kamasinski c. Austria), richiamata nella sentenza in commento, allorquando la garanzia del diritto all’interprete di cui all’art. 6 della CEDU è stata estesa fino a ricomprendere anche la traduzione scritta degli atti, ma l’individuazione dei documenti traducibili è stata comunque limitata allo scopo ultimo di consentire all’indagato/imputato di conoscere le accuse a suo carico.


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