Per la prima volta il limite italiano al subappalto al vaglio della Corte di giustizia

1. Per la prima volta, con l’ordinanza n. 148 dello scorso 19 gennaio 2018 del TAR Lombardia, sez. I, è stata rimessa alla Corte di giustizia la validità della normativa italiana ex art. 105, comma 2, terzo periodo del d.lgs. n. 50/2016 che fissa il limite del 30% al subappalto.

La questione, però, non è nuova né a livello interno, né a livello europeo.

Prima, dunque, di soffermarci sul rinvio in Corte di giustizia, pare utile un breve excursus su come è stata affrontata negli anni la questione.

2. Il nuovo art. 105, comma 2, terzo periodo del d.lgs. n. 50/2016.

Com’è noto, infatti, la nuova riforma del Codice dei contratti pubblici del 2016 ha previsto la quota massima del contratto di subappalto al 30% dell’importo complessivo del contratto di lavoro. Un principio non nuovo nel nostro ordinamento, ma che era applicato solo ai contratti di forniture o servizi.

Tuttavia, che vi potessero essere dei dubbi sulla validità di questa norma, lo si evince anche dalla prima bozza di decreto correttivo approvata dal Consiglio dei Ministri, inviata poi agli organi istituzionali per acquisirne il parere, e che aveva ripristinato la regola dell’art. 118 del vecchio Codice appalti del 2006, secondo la quale per i soli lavori, il subappalto non era consentito oltre il 30% della categoria prevalente, anziché sull’importo complessivo del contratto.

3. La domanda che si si pone è per quale ragione vi sia stato un ripensamento nella prima bozza di decreto correttivo.

Le ragioni derivavano da due angoli di prospettiva diversi, l’uno interno, l’altro di origine europea.

Infatti, il 1° aprile del 2016, con parere n. 855 si era espressa la Commissione Speciale del Consiglio di Stato, che aveva evidenziato come l’introduzione di un limite generalizzato al subappalto pareva risultare non in linea con il divieto di gold plating. Infatti, non solo le nuove direttive in materia d’appalti, e più precisamente la n. 2014/24, non prevedevano alcuna limitazione in tal senso, ma nemmeno la legge delega prendeva posizione sulla questione di eventuali limiti quantitativi.

L’ulteriore ragione derivava proprio da una sentenza della Corte di giustizia che, richiamata anche nell’ordinanza in esame, ha stabilito con una pronuncia del 14 luglio 2016, nella causa C-406/14, nota come caso Wroclaw, che “la direttiva 2004/18/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 31 marzo 2004, relativa al coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizi, come modificata dal regolamento (CE) n. 2083/2005 della Commissione, del 19 dicembre 2005, deve essere interpretata nel senso che un’amministrazione aggiudicatrice non è autorizzata ad imporre, mediante una clausola del capitolato d’oneri di un appalto pubblico di lavori, che il futuro aggiudicatario esegua una determinata percentuale dei lavori oggetto di detto appalto avvalendosi di risorse proprie”.

4. Nonostante la pronuncia della Corte e il parere del Consiglio di Stato, il nuovo art. 105 non venne modificato.

Del resto è stato sottolineato come la sentenza della Corte di giustizia sul caso Wroclaw che aveva bocciato le norme polacche che obbligavano le imprese vincitrici di appalti ad eseguire in proprio almeno il 25% delle opere, fosse un caso totalmente diverso da quello italiano. Ed infatti, la Corte si è pronunciata su una limitazione che derivava da una amministrazione aggiudicatrice, mentre nel caso italiano tale limitazione è prevista per legge dello Stato.

Anche nella più recente sentenza dello scorso 5 aprile 2017, causa C-298/15, Borta UAB, richiamata anch’essa dall’ordinanza in esame, la Corte si era tuttavia espressa sempre su una norma che dava libertà all’amministrazione aggiudicatrice. Ed, infatti, la Corte ha statuito che gli “articoli 49 e 56 TFUE devono essere interpretati nel senso che ostano a una disposizione di una normativa nazionale, come l’articolo 24, paragrafo 5, della Lietuvos Respublikos viešųjų pirkimų įstatymas (legge lituana relativa agli appalti pubblici), che prevede che, in caso di ricorso a subappaltatori per l’esecuzione di un appalto di lavori, l’aggiudicatario è tenuto a realizzare esso stesso l’opera principale, definita come tale dall’ente aggiudicatore”.

Non solo, ma entrambe avevano come parametro di riferimento le precedenti direttive.

Nel nostro ordinamento, invece, la limitazione prevista dall’art. 105 del nuovo Codice dei contratti pubblici troverebbe origine in una legislazione speciale di “ordine pubblico”, introdotta per la prima volta dall’art. 18 della legge 10 marzo 1990, n. 55 “Nuove disposizioni per la prevenzione della delinquenza di tipo mafioso e di altre gravi forme di manifestazione di pericolosità sociale”. Infatti, la citata previsione dell’art. 18 è stata dapprima riportata nell’art. 34 della legge quadro sui lavori pubblici n. 109/1994, poi nell’art. 118 del vecchio codice dei contratti pubblici, fino all’art. 105 oggetto dell’odierno rinvio.

Tale normativa, dunque, trova le proprie origine anche in questioni storiche che hanno reso necessario introdurre nell’ordinamento italiano un limite alla possibilità che il fenomeno mafioso potesse trovare terreno fertile nell’ambito della procedura dei contratti di subappalto.

Ragioni dunque distinte dal caso polacco e dal caso lituano, ove la possibilità di porre dei limiti al subappalto era rimessa alla valutazione discrezionale delle stazioni appaltanti.

5. Il parere del Consiglio di Stato n. 782 del 30 marzo 2017.

Con il secondo parere il Consiglio di Stato, pur dopo aver dato atto della giurisprudenza della Corte di giustizia  secondo cui il diritto europeo non consentirebbe in via generale agli Stati membri di porre limiti quantitativi al subappalto, ha osservato che dette limitazioni, previste nell’ordinamento italiano dal legislatore nazionale, considerate le ragioni storiche a base della disciplina, vanno vagliate e possono essere giustificate alla luce “di quei valori superiori, declinati dall’art. 36 TFUE, che possono fondare restrizioni della libera concorrenza e del mercato, tra cui, espressamente, l’ordine pubblico e la sicurezza pubblica”. Essendo, dunque, la norma in esame posta per limitare la possibilità che nei contratti di subappalto vi possano essere infiltrazioni di tipo mafioso, a parere del supremo organo di giustizia amministrativa, “il Governo ben potrebbe scegliere «l’opzione zero» ossia di non intervenire sulla scelta di fondo già operata dal codice”.

6. Ma quali caratteristiche deve avere una normativa nazionale per poter derogare alle libertà fondamentali?

Le caratteristiche che deve presentare la misura nazionale, per poter impedire o anche solo rendere meno attraente l’esercizio del diritto di stabilimento, così come la libera prestazione di servizi, sono quattro: la prima è che essa debba applicarsi in maniera non discriminatoria (misura c.d. indistintamente applicabile); la seconda è che essa debba essere giustificata da ragioni imperiose di interesse generale; la terza è che sia oggettivamente idonea a garantire la realizzazione dell’obiettivo prefissato, sempre che, come quarta caratteristica, non vada oltre quanto necessario per il raggiungimento di tale scopo (cfr. Corte di giustizia, 17 novembre 2009, causa C-169/08, Presidente del Consiglio dei Ministri c. Regione Sardegna; Corte di giustizia, 10 marzo 2009, causa C-169/07, Hartlauer; Corte di giustizia, 21 aprile 2005, causa C-140/03, Commissione v. Grecia). Queste condizioni devono coesistere affinché si possa derogare al principio fondamentale della libera prestazione dei servizi (cfr. Corte di giustizia,10 maggio 1995, causa C- 384/93, V. Alpine Investments, punti 40-56; Corte di giustizia, 12 dicembre 1996, C-3/95, Reisebüro Broede, punto 28 e seguenti; Corte di giustizia, 8 marzo 2001, causa C-405/98, Gourmet Int. Products, punto 40 e seguenti). Dunque, ai fini dell’ammissibilità della deroga, non basta che le misure perseguano un interesse generale, ma, come sottolineato dai giudici del rinvio, al punto 4.3 dell’ordinanza in esame, vi si deve riscontrare anche una coerenza tra gli effetti restrittivi e lo scopo perseguito (cfr.conclusioni dell’Avvocato generale Capotorti, presentate per la causa Donckerwolcke, causa C-41/76; Corte di giustizia, 11 settembre 2008, causa C-141/07, Commissione c. Germania; Corte di giustizia, 13 marzo 2008, causa C-227/06, Commissione c. Belgio; Corte di giustizia, 7 giugno 2007, causa C-254/05, Commissione c. Belgio, 8 maggio 2003, causa C- 14/02, ATRAL; Corte di giustizia, 3 settembre 2000, causa C- 58/98, Corsten). Tale coerenza altro non è che il rispetto del c.d. principio di proporzionalità, che stabilisce che la norma non deve andare oltre quanto è necessario a tal fine (cfr. sentenza Corte di giustizia, 3 dicembre 1974, causa C-33/74, Van Binsbergen; Corte di giustizia, 30 marzo 2006, causa C-451/03, Servizi Ausiliari Dottori Commercialisti; Corte di giustizia, 10 febbraio 2009, causa C-110/05, Commissione c. Italia richiamata da Corte di giustizia, 2 settembre 2010, causa C-108/09, Ker-Optika bt.).

7. La norma in questione deve dunque essere analizzata alla luce del principio di proporzionalità.

I Giudici del rinvio hanno così sottolineato al punto 4.3 della loro ordinanza  “come l’art. 71 della direttiva 2014/24 e l’art. 105 del d.lgs. n. 50/2016 prevedono una serie di obblighi informativi e di adempimenti procedurali, per effetto dei quali l’impresa subappaltatrice può oggi ritenersi assoggettata a controlli analoghi a quelli svolti nei confronti dell’impresa aggiudicataria; in particolare, la stazione appaltante è posta in condizione di conoscere, in anticipo, le parti dell’appalto che si intende subappaltare a terzi e l’identità dei subappaltatori proposti, nonché di verificare, in capo al subappaltatore, il possesso della qualificazione, l’assenza di motivi di esclusione, la posizione di regolarità contributiva e il rispetto degli obblighi di sicurezza.

Orbene, nel descritto contesto normativo, la misura drastica della limitazione quantitativa del subappalto al 30 % dell’importo complessivo del contratto non sembra rappresentare lo strumento più efficace ed utile (che “non vada oltre quanto è necessario a tal fine”) al soddisfacimento dell’obiettivo di assicurare l’integrità del mercato dei contratti pubblici; tale obiettivo, infatti, pare potersi ritenere già adeguatamente soddisfatto per mezzo delle nuove previsioni che consentono (purché correttamente applicate) di effettuare verifiche e controlli più pregnanti rispetto al passato, finalizzate a garantire che il subappalto venga affidato, in condizioni di trasparenza, ad operatori capaci e immuni da controindicazioni.

8. Il parere, dunque, del Consiglio di Stato non pare superare le criticità sollevate con l’ordinanza in commento. Non resterà che attendere la pronuncia della Corte di giustizia chiamata proprio a pronunciarsi sulla questione “Se i principi di libertà di stabilimento e di libera prestazione di servizi, di cui agli articoli 49 e 56 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE), l’articolo 71 della direttiva 2014/24del Parlamento europeo e del Consiglio del 26 febbraio 2014, il quale non contempla limitazioni quantitative al subappalto, e il principio eurounitario di proporzionalità, ostino all’applicazione di una normativa nazionale in materia di appalti pubblici, quale quella italiana contenuta nell’articolo 105, comma 2, terzo periodo, del decreto legislativo18 aprile 2016, n. 50, secondo la quale il subappalto non può superare la quota del 30 per cento dell’importo complessivo del contratto di lavori, servizi o forniture”.

La pronuncia non dovrebbe farsi attendere molto tempo, considerato che è richiesto il rito accelerato ai sensi dell’art. 105, par. 1 del Regolamento di procedura della Corte, tenuto conto che la questione pregiudiziale ha natura di questione di principio. Ma proprio in vista della decisione della Corte, non può non essere ricordato, come la analoga questione penda anche davanti ad un’altra istituzione europea.

 9. La lettera di richiesta informazioni della Commissione europea, a seguito della denuncia formalizzata da ANCE (Associazione nazionale delle imprese edili).

Lo scorso 23 marzo 2017 la Commissione si è espressa con lettera (DG GROW) n. 1572232, sottolineando come la Corte di giustizia abbia chiarito che le restrizioni al subappalto per l’esecuzione di parti essenziali del contratto sono consentite “quando l’amministrazione aggiudicatrice non è stata in grado di controllare le capacità tecniche e finanziarie dei subappaltatori in occasione della valutazione delle offerte e della selezione del miglior offerente” (cfr. Corte di giustizia, causa C-314/01, paragrafo 45). Ha sottolineato inoltre che “l’attuale quadro normativo europeo, recentemente aggiornato dalle Direttive adottate nel 2014, non pare giustificare un diverso orientamento in materia”.

La posizione della Commissione pare, dunque, confermare i dubbi sollevati dal giudice nazionale, poiché si deve anche tenere conto che la normativa dell’Unione europea sugli appalti ha come principale obiettivo proprio quello di rimuovere gli ostacoli alla libera circolazione delle merci, alla libertà di stabilimento e alla libera prestazione dei servizi. Non solo, ma le nuove direttive, come si evince anche dall’art. 2 della Direttiva 2014/24/UE, hanno anche l’esplicita finalità di facilitare la partecipazione delle piccole e medie imprese nelle procedure di appalto.


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