Oltre Inuit: il Tribunale afferma l’esistenza di atti non legislativi a portata generale che non rientrano nella nozione di «atti regolamentari» ai sensi dell’art. 263, comma 4, TFUE

In data 8 giugno 2021, il Tribunale ha pronunciato un’ordinanza che merita di essere quantomeno segnalata per la portata innovativa del principio di diritto ivi statuito.

La decima sezione allargata ha  per la prima volta affermato, infatti, l’esistenza di atti non legislativi a portata generale che non rientrano nella nozione di «atti regolamentari» ai sensi dell’art. 263, comma 4, TFUE. In tal modo il Tribunale ha assunto una posizione opposta da quella della Corte nella nota sentenza Montessori (punto 24) che – vale la pena ricordarlo – aveva ritenuto che la tesi secondo cui esisterebbero degli atti non legislativi a portata generale che non costituiscono atti regolamentari «non trova alcun fondamento nel tenore letterale, nella genesi o, ancora, nello scopo di tale disposizione» (conformandosi a quanto espresso dall’avvocato generale Melchior Wathelet nelle sue conclusioni, punti 26-33).

Il caso di specie trae origine dal ricorso di una serie di cittadini britannici residenti in Irlanda, in Spagna, in Francia e in Italia avverso l’accordo di recesso del Regno Unito dall’Unione europea e dall’EURATOM, nonché contro la decisione (UE) 2020/135 del Consiglio relativa alla conclusione del predetto accordo.

I ricorrenti facevano valere che tali atti, da un lato, avrebbero distinto «in modo automatico e generale, […] i cittadini dell’Unione e i cittadini del Regno Unito» e, dall’altro lato e conseguentemente, avrebbero privato i cittadini britannici, e in particolare quelli che non erano autorizzati a votare in occasione del referendum del 23 giugno 2016 in quanto residenti da oltre quindici anni all’estero, del loro status di cittadini dell’Unione e dei diritti ad esso connessi.

In via preliminare, il Tribunale, in ossequio alla giurisprudenza Kadi e Al Barakaat International Foundation (punto 286), ha ristretto l’oggetto del ricorso alla sola decisione del Consiglio, in quanto «le contrôle de légalité devant être assuré par le juge de l’Union porte sur l’acte pris par les institutions de l’Union visant à mettre en œuvre l’accord international en cause, et non sur ce dernier en tant que tel» (punto 26).

Sollevava un’eccezione di irricevibilità il Consiglio, sostenuto dalla Commissione che, in effetti, nell’ambito del caso Montessori, aveva avanzato la tesi fatta propria dal Tribunale nell’ordinanza de qua. Rilevava, in particolare, che (i) la decisione non era indirizzata ai ricorrenti privati; (ii) che comunque quest’ultimi non erano né direttamente né individualmente interessati dall’atto; (iii) che la decisione non costituiva un atto regolamentare e, in ogni caso, comportava misure di esecuzione.

Dal canto loro, i ricorrenti deducevano, da un lato, di essere direttamente e individualmente interessati dalla decisione impugnata e, dall’altro lato, che tale decisione fosse un atto regolamentare che li riguardava direttamente e che non comportava alcuna misura di esecuzione.

Con riguardo alle condizioni di cui all’art. 263, comma 4, seconda parte di frase, TFUE i ricorrenti sostenevano, in sostanza, di essere direttamente e individualmente interessati dalla decisione controversa nella misura in cui questa li privava del loro status di cittadini dell’Unione e dei diritti ad esso connessi, tra cui il diritto di circolare e soggiornare liberamente nei territori degli Stati membri, nonché il diritto di voto e di eleggibilità alle elezioni del Parlamento europeo e alle elezioni comunali del loro Stato membro di residenza.

Il Tribunale riconosceva che i cittadini di uno Stato recedente che si trovano in un altro Paese sono inevitabilmente suscettibili di essere interessati dal recesso a causa degli evidenti legami sia di natura personale che di natura professionale ed economica costruiti nello Stato membro di residenza (con ciò ribadendo quanto affermato nell’ordinanza Walker, punto 41). E tuttavia ammetteva anche che i ricorrenti non avevano in alcun modo provato come la decisione impugnata, privandoli del loro status di cittadini europei e dei diritti ad esso connessi, li toccasse «a causa di determinate qualità personali, ovvero di particolari circostanze atte a distinguerl[i] dalla generalità, e quindi [li] identifichi alla stessa stregua dei destinatari» (come recita la nota formula Plaumann, pagina 220).

Il Tribunale, in linea con la prassi che vuole che sia la condizione dell’interesse individuale a essere esaminata per prima (nel caso de quo evidentemente non soddisfatta), non procedeva con l’analisi della sussistenza dell’interesse diretto e proseguiva verificando se le condizioni di ricevibilità del ricorso di cui all’art. 263, comma 4, ultima parte di frase, TFUE fossero soddisfatte.

È in tale frangente (come si è detto) che i giudici hanno stabilito che la nozione di «atto regolamentare» non comprende necessariamente tutti gli atti non legislativi a portata generale, con ciò “specificando” di molto la giurisprudenza inaugurata con Inuit Tapiriit Kanatami e a.

Sul punto, merita di essere brevemente segnalato il percorso logico-giuridico che ha condotto il Tribunale a tale soluzione (oggi confinata, è opportuno precisare, alla sole decisioni che approvano la conclusione di un accordo internazionale e, più in particolare, quelle che approvano la conclusione di un accordo che fissa le modalità di recesso di uno Stato membro).

In primo luogo, in virtù di un’interpretazione essenzialmente sistematica, il Tribunale ha chiarito che la decisione in questione introduce nell’ordinamento giuridico dell’Unione delle norme che, in quanto contenute in un accordo di recesso, sono gerarchicamente sovraordinate rispetto agli atti legislativi e agli atti regolamentari, e non possono quindi rivestire anch’esse la medesima natura. I giudici, a fondamento di tale argomentazione, hanno richiamato, inter alia, la giurisprudenza Stichting Natuur en Milieu e Pesticide (punto 44), specialmente l’affermazione secondo ogni accordo internazionale concluso dall’Unione vincola le istituzioni di quest’ultima e prevale, pertanto, sugli atti che esse emanano.

In secondo luogo, secondo i giudici, l’accordo di recesso può essere considerato, sul piano esterno, equivalente ad un atto legislativo sul piano interno. Infatti, da un punto di vista strettamente procedurale, l’accordo di recesso, concluso a nome dell’Unione dal Consiglio e previa approvazione del Parlamento, “si avvicina” alle procedure legislative ordinarie e speciali.

Ne consegue che la decisione impugnata avrebbe introdotto nell’ordinamento giuridico dell’Unione delle norme caratterizzate da una legittimità democratica particolarmente elevata, come quelle che possono figurare all’interno di un atto legislativo. Orbene, è proprio tale elevata legittimità democratica che giustificherebbe il fatto che al singolo non siano date possibilità “semplificate” per ricorrere direttamente avverso gli atti legislativi e, quindi, a fortiori, contro tipologie di decisioni come quella impugnata (sul punto può essere utile richiamare le conclusioni dell’avvocato generale Juliane Kokott nella causa Inuit Tapiriit Kanatami e a., punto 38).

È proprio per tale ragione, in effetti, che i giudici hanno ritenuto che il caso Montessori non fosse sovrapponibile alla vicenda sottoposta alla loro attenzione. Infatti, in quella sede, l’atto controverso era una decisione della Commissione in materia di aiuti di stato. Sebbene avesse portata generale, l’atto rivestiva natura amministrativa e non prevedeva, quindi, il coinvolgimento del Consiglio e del Parlamento.

In terzo luogo, il Tribunale ha ritenuto che qualificare la decisione come «atto regolamentare» sarebbe stato incoerente e financo paradossale. Infatti, un tale “allentamento” avrebbe come conseguenza fondamentale quella per cui i privati potrebbero più facilmente contestare una norma contenuta in un accordo internazionale (seppur per il tramite della decisione del Consiglio) rispetto a una norma di eguale tenore contenuta in un atto legislativo che, si è detto, è gerarchicamente subordinato.

 Infine, in virtù di un’interpretazione teleologica dell’art. 263, quarto comma, terza parte di frase, TFUE i giudici hanno chiarito che l’allargamento delle condizioni di ricevibilità dei ricorsi diretti presentati dai privati, voluto con il trattato che adotta una Costituzione per l’Europa e poi concretizzato con il trattato di Lisbona, non si spingeva sino ad ammettere l’impugnabilità di decisioni che approvano la conclusione di un accordo che fissa le modalità del recesso di uno Stato membro.

 Qualche rilievo critico.

a) Sebbene il ragionamento svolto con riferimento al caso Montessori sia comprensibile (atto amministrativo vs. atto financo sovraordinato rispetto a un atto legislativo), è anche vero che l’ordinanza de qua sembra contraddire quella stessa giurisprudenza da almeno un altro punto di vista. Com’è noto, in quella sede il giudice del Kirchberg aveva introdotto l’innovativo concetto di “contenzioso artificiale” (punto 66), che riassumeva in una sola formula la ratio sottesa alle modifiche intervenute con il trattato di Lisbona: impedire che il singolo fosse costretto a instaurare un procedimento di fronte al giudice nazione al solo scopo di coinvolgere la Corte di giustizia tramite un rinvio pregiudiziale di validità. Ebbene, è difficile comprendere il trattamento “differenziato” sulla base della tipologia di atto, per cui l’impugnazione di un atto amministrativo non giustifica un “contenzioso artificiale”, mentre il ricorso avverso una decisione che approva la conclusione di un accordo internazionale lo giustifica.

b) L’ordinanza pone un problema che al momento è solo astratto, ma è comunque rilevante in termini di tutela dei privati: se il catalogo di atti non legislativi a portata generale che non rientrano nella nozione di «atti regolamentari» dovesse essere ampliato, è evidente che l’impugnabilità di tali atti dovrebbe inevitabilmente rientrare nella regola generale prevista dall’art. 263, comma 4, TFUE, e cioè quella della sussistenza di un interesse individuale e diretto (verificandosi un vuoto di tutela inaccettabile se così non fosse). In tal modo, peraltro, verrebbe meno lo stesso obiettivo posto con il trattato di Lisbona: superare l’ingessata formula Plaumann e rafforzare la tutela giurisdizionale dei singoli.


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