Nuove sanzioni all’Italia per mancato recupero degli aiuti di Stato: Corte di giustizia 17 settembre 2015 (Commissione c. Italia, C-367/14)

1. Con sentenza del 17 settembre 2015 (Commissione c. Italia, C-367/14), la Corte di giustizia ha condannato l’Italia al pagamento di penalità semestrale di 12 milioni di euro e ad una somma forfettaria di 30 milioni di euro quale sanzione per non aver adottato le misure necessarie a dare esecuzione della sentenza del 6 ottobre 2011(Commissione c. Italia, C-302/09), concernente il mancato recupero degli aiuti concessi alle imprese nei territori di Venezia e Chioggia recanti sgravi dagli oneri sociali.

La vicenda, particolarmente complessa, risale alla fine degli anni ’90, quando la Commissione, ritenendo che le riduzioni e/o sgravi dagli oneri sociali concessi tra il 1995 e il 1997 a una serie di imprese del territorio di Venezia e Chioggia costituivano aiuti di Stato incompatibili con il mercato comune, impose all’Italia il recupero presso i beneficiari degli aiuti fruiti (decisione 2000/394/CE, del 25 novembre 1999, relativa a misure di aiuto in favore delle imprese nei territori di Venezia e Chioggia, previste dalle leggi n. 30/1997 e n. 206/1995, recanti sgravi degli oneri sociali). La decisione della Commissione ha formato oggetto di numerosi ricorsi proposti davanti al Tribunale. In particolare si segnala la sentenza del 28 novembre 2008, Hotel Cipriani e a. c. Commissione (T‑254/00, T‑270/00 e T‑277/00) con cui il Tribunale ha respinto i ricorsi d’annullamento della decisione. Le impugnazioni proposte contro tale sentenza sono poi state respinte dalla Corte di giustizia (9 giugno 2011, Comitato «Venezia vuole vivere» e a. c. Commissione, C‑71/09 P, C‑73/09 P e C‑76/09 P).

La questione ha inoltre dato luogo a un cospicuo contenzioso davanti ai giudici italiani. In particolare, il Tribunale civile di Venezia, competente per materia trattandosi di sgravi contributivi e previdenziali, aveva adottato, senza attenersi alle condizioni poste dalla giurisprudenza Zuckerfabrik e Atalanta (Corte giust. 21 febbraio 1991, C-143/88, e 9 novembre 1995, C-465/93), numerose misure cautelari di sospensione dell’esecuzione dei provvedimenti diretti al recupero degli aiuti illegittimi, a cui aveva fatto seguito la decisione di sospensione del procedimento in numerose cause aventi ad oggetto ricorsi proposti avverso detti provvedimenti.

Nel 2009 la Commissione ha pertanto proposto un ricorso per inadempimento contro l’Italia per non avere adottato, entro i termini prescritti, tutte le misure necessarie al recupero degli aiuti.

Con la sentenza del 6 ottobre 2011 (Commissione c. Italia, cit.), la Corte ha accertato che l’Italia non aveva soddisfatto l’obbligo di recupero ad essa incombente in forza della decisione della Commissione, ribadendo, come affermato nella sentenza Comitato «Venezia vuole vivere» (punti 63, 64 e 121), che le autorità nazionali avevano l’obbligo di esaminare in ciascun caso individuale se i benefici concessi fossero in grado di falsare la concorrenza e incidere sugli scambi intracomunitari.

La necessità di condurre un esame caso per caso nei confronti di un numero elevato di beneficiari ha reso ulteriormente complesse le procedure di recupero, costringendo l’Italia anche ad interventi in via legislativa. In estrema sintesi si può ricordare che, allo scopo di sanare tale situazione, sono state adottate alcune disposizioni nell’art. 1, commi 351-354, della legge 29 dicembre 2012, n. 228/2012 (c.d. legge di stabilità) mediante le quali si è affidato all’INPS il compito di richiedere alle imprese beneficiarie degli aiuti in questione, gli elementi e la documentazione necessari per l’identificazione dell’aiuto di Stato illegale. Ai fini della realizzazione delle nuove istruttorie necessarie alla verifica “caso per caso” imposta dalla pronuncia della Corte di giustizia, il comma 356 ha inoltre stabilito l’estinzione ope legis dei processi pendenti alla data di entrata in vigore della stessa legge. Infine, con l’art. 49 della legge 234/2012, si è provveduto a riformare il procedimento contenzioso in materia di aiuti di Stato attribuendo la competenza in via esclusiva al giudice amministrativo sulle controversie in esecuzione di una decisione di recupero (v. Consiglio di Stato, sentenza 13 maggio 2015, INPS c. Hotel Cipriani, in cui è stata, tra l’altro, respinta la questione di legittimità costituzionale degli art. 1 comma 355 e 356, l. 228/2012 e dell’art. 49, l. 234/2012).

Nonostante ciò, dato che l’Italia non aveva adottato le misure necessarie per ottemperare alla sentenza di inadempimento, in quanto la maggior parte degli aiuti concessi, dichiarati incompatibili con il mercato interno, non erano stati recuperati, la Commissione, il 25 luglio 2014, ha introdotto un ricorso ai sensi dell’art. 260 TFUE, chiedendo la condanna dell’Italia al pagamento di una penalità e di una somma forfettaria (al momento della presentazione del ricorso secondo la Commissione doveva essere recuperato ancora circa l’81% degli aiuti, secondo il Governo italiano circa il 70%).

In considerazione delle difficoltà che lo Stato italiano avrebbe incontrato nel recupero degli aiuti presso un gran numero di beneficiari e rifacendosi alla precedente giurisprudenza della Corte (in particolare v. 17 novembre 2011, C‑496/09, Commissione c. Italia, relativa alla questione del mancato recupero degli aiuti per interventi a favore dell’occupazione, contratti di formazione e lavoro), la Commissione aveva proposto alla Corte che la penalità venisse calcolata in forma decrescente tenendo conto dei progressi realizzati dallo Stato italiano nel corso dell’esecuzione, ovvero dell’entità degli aiuti il cui recupero sia provato. Più in particolare, l’importo della penalità si sarebbe dovuto stabilire ogni sei mesi, a decorrere dalla data della pronuncia della sentenza nella causa in discussione, moltiplicando l’importo giornaliero della penalità di 187.264 euro [importo questo individuato dalla Commissione sulla base dei criteri di calcolo definiti nella sua comunicazione SEC(2005)1658, relativa all’applicazione dell’art. 260 TFUE, poi aggiornata dalla comunicazione C(2012)6106 final] per 182,5 (giorni) per riflettere la periodicità semestrale, e per la percentuale degli aiuti ancora da recuperare alla scadenza del semestre rispetto all’importo degli aiuti ancora da recuperare il giorno della pronuncia della sentenza nella presente causa. L’importo dovuto alla scadenza di ciascun semestre sarebbe stato di volta in volta determinato dalla stessa Commissione in base alle prove che il Governo italiano avrà fornito nel corso del semestre di riferimento.

La Corte, Terza Sezione, non ha dato seguito alla proposta formulata dalla Commissione nel suo ricorso ed ha condannato lo Stato italiano al pagamento, oltre che di una somma forfettaria di 30 milioni di euro, di una penalità semestrale costante di 12 milioni di euro per semestre di ritardo dal giorno di pronunzia della sentenza fino all’esecuzione della sentenza del 2011.

2. Desta un certo stupore che la Corte, giudicando in una sezione da cinque giudici e senza le conclusioni dell’Avvocato generale Kokott, si sia discostata sia dalla proposta della Commissione modificandola in peius, sia dalla sua stessa giurisprudenza.

Sotto il primo profilo va detto che non è certamente la prima volta che la Corte determina la sanzione in maniera difforme dalla proposta della Commissione. Secondo la giurisprudenza ormai consolidata spetta infatti alla Corte, «in ciascuna causa e in relazione alle circostanze del caso di specie di cui è investita nonché al grado di persuasione e di dissuasione che le sembra necessario, determinare le sanzioni pecuniarie adeguate per garantire l’esecuzione più rapida possibile della sentenza che ha precedentemente constatato un inadempimento e impedire la ripetizione di infrazioni analoghe al diritto dell’Unione» (Corte giust. Commissione c. Grecia, 7 luglio 2009, C‑369/07, punto 142 e giurisprudenza ivi citata). Di conseguenza, «le proposte della Commissione non possono vincolare la Corte e costituiscono soltanto un utile punto di riferimento» [ivi, punto 112 e giurisprudenza ivi citata; inoltre, v., P. Mori, Articolo 260 TFUE, in (a cura di) A. Tizzano, Trattati dell’Unione europea, Milano, 2014, p. 2029-2042].

Se in linea generale la Corte tende a diminuire gli importi proposti dalla Commissione, non è mancato il caso in cui la proposta della Commissione è stata modificata in senso peggiorativo. Si può ricordare in proposito la causa Commissione c. Francia (12 luglio 2005, C-304/02), là dove nel suo ricorso la Commissione aveva proposto la sola penalità, mentre l’Avvocato generale aveva concluso suggerendo alla Corte di condannare la Francia anche al pagamento di una somma forfettaria. Va però sottolineato che in quella circostanza la Corte, per garantire allo Stato convenuto l’esercizio dei propri diritti di difesa, aveva disposto la riapertura della fase orale (possibilità questa, che è regolata dall’art. 83 del regolamento di procedura della Corte). Nel caso ora in esame non c’è stata riapertura della fase orale.

Questo modo di procedere non sembra del tutto rispettoso del principio dell’equo processo e dei diritti della difesa che pure spettano in via generale anche agli Stati membri (v. Corte giust., Commissione c. Irlanda, 2 dicembre 2009, C-89/08 P, punti 50 ss., nonché conclusioni Avv. gen. Kokott, C- 196/13, punto 81; inoltre, v., C. Amalfitano, La procedura di “condanna” degli Stati membri dell’Unione europea, Milano, 2012, p. 115 e p. 210).

3. Ad aggravare tale valutazione, va aggiunto che la decisione della Corte di comminare una penalità semestrale costante fino a completa esecuzione della sentenza si discosta da una giurisprudenza che sembrava ormai in via di consolidamento.

La natura coercitiva della sanzione e la necessità di modularne l’entità alla luce del principio di proporzionalità, hanno infatti portato la Corte di giustizia a dare applicazione della penalità in maniera differenziata, computandola vuoi nella forma di una somma fissa da versare periodicamente, in lassi di tempo più o meno ampi, fino alla piena esecuzione della sentenza di accertamento, vuoi nella forma di una somma decrescente, che si riduce a misura dell’avanzamento nell’esecuzione della sentenza.

Tale ultima impostazione risulta particolarmente opportuna quando lo Stato membro sia responsabile di un fascio di addebiti che possono essere distinti tra loro oppure di un’unica infrazione articolata in diverse situazioni specifiche; in queste eventualità e qualora lo Stato membro esegua via via parti della sentenza si renderà necessario ridurre proporzionalmente l’ammontare della sanzione. Ricorrendo tali caratteristiche, per far sì che la penalità risulti adeguata alle particolari circostanze del caso di specie e, nel rispetto del fondamentale principio di proporzionalità, commisurata all’inadempimento accertato, la Corte di giustizia ha pertanto adottato un approccio flessibile e ha stabilito, in numerose cause, l’ammontare della penalità in maniera decrescente, su base semestrale o annuale, che si riduce a misura dell’avanzamento nell’esecuzione della sentenza di accertamento [Corte giust. 25 novembre 2003, C‑278/01, Commissione c. Spagna (qualità delle acque di balneazione); 17 novembre 2011, C‑496/09, Commissione c. Italia, (mancato recupero degli aiuti per interventi a favore dell’occupazione, contratti di formazione e lavoro); 17 ottobre 2013, C‑533/11, Commissione c. Belgio, (trattamento delle acque reflue urbane); 2 dicembre 2014, causa C-196/13, Commissione c. Italia e causa C-378/13, Commissione c. Grecia (gestione dei rifiuti)].

In particolare, in un caso molto simile a quello in esame, riguardante il mancato recupero degli aiuti per interventi a favore dell’occupazione, contratti di formazione e lavoro (17 novembre 2011, C‑496/09, Commissione c. Italia, cit., punti 47ss.), la Corte ha constatato che, riguardando le operazioni di recupero degli aiuti un numero considerevole di imprese, per lo Stato italiano sarà particolarmente difficile pervenire, a breve termine, a un’esecuzione completa della decisione della Commissione (2000/128) e della successiva sentenza della Corte.

In considerazione di tale caratteristiche, continuava la Corte, «è ipotizzabile che detto Stato membro riesca ad aumentare sostanzialmente il grado di esecuzione della decisione senza giungere, entro tale termine, alla sua piena esecuzione. Se l’importo della penalità fosse costante, essa rimarrebbe interamente esigibile per tutto il tempo in cui lo Stato membro interessato non ha completamente attuato detta decisione. Pertanto, una sanzione che tenga conto dei progressi eventualmente realizzati dallo Stato membro nell’esecuzione dei suoi obblighi risulta adeguata alle circostanze specifiche del caso di specie e, di conseguenza, proporzionata all’inadempimento accertato» (punti 48 e 49) (su questo caso e sul contenzioso che ne è seguito v. P. Mori, Profili problematici dell’esecuzione delle sentenze della Corte di giustizia di condanna degli Stati membri ex art. 260 TFUE, in Diritto dell’Unione europea, 2015, p. 157-180).

Dal canto suo, nelle conclusioni nel caso riguardante la gestione dei rifiuti, l’Avvocato generale Kokott spiegava con ampie argomentazioni come tutti gli atti delle istituzioni dell’Unione – inclusi quelli della Corte – siano soggetti al principio di proporzionalità, che fa parte dei principi generali del diritto dell’Unione, e «pertanto non possono superare i limiti di ciò che è idoneo e necessario per il conseguimento degli scopi legittimi perseguiti dalla normativa di cui trattasi, fermo restando che, qualora sia possibile una scelta tra più misure appropriate, si deve ricorrere a quella meno restrittiva e che gli inconvenienti causati non devono essere sproporzionati rispetto agli scopi perseguiti». E in ragione di ciò concludeva che a fronte di un’infrazione articolata in diverse situazioni specifiche che richiedono, di volta in volta, provvedimenti ad hoc al fine di eseguire la sentenza solo l’irrogazione di una somma decrescente può assicurare che la penalità corrisponda alla non ancora piena esecuzione della sentenza ex art. 258 TFUE. «Infatti, una somma costante, corrispondente, al momento della fissazione del suo importo, allo stato dell’esecuzione, non sarebbe più adeguata, a seguito degli ulteriori progressi realizzati dall’Italia nell’esecuzione, alle particolari circostanze del caso e risulterebbe pertanto non commisurata all’inadempimento accertato» (C-378/13, cit., punto 139).

4. Indubbiamente l’infrazione contestata all’Italia nel caso in esame riveste particolare gravità, sia sotto il profilo delle norme violate, sia sotto il profilo della sua durata (più di tre anni e mezzo dalla pronuncia della sentenza di accertamento e più di quindici anni dalla decisione con cui la Commissione ha qualificato come incompatibile con il mercato interno il regime di aiuti in questione).

In particolare, nella valutazione del coefficiente di gravità dell’infrazione ai fini del calcolo della penalità la Corte ha rilevato il carattere fondamentale delle disposizioni del Trattato in materia di aiuti di Stato e «il fatto che gli aiuti in questione si rivelano particolarmente lesivi della concorrenza a causa della rilevanza del loro importo e del numero elevato dei beneficiari che operano su più diversi mercati» (punto 102). E la decisione di infliggere anche una misura dissuasiva come la somma forfettaria, rivolta a prevenire la futura reiterazione di analoghe infrazioni, è stata motivata sulla base della constatazione che l’Italia, oltre ad essere stata «oggetto di numerose sentenze che accertavano un inadempimento a causa del fatto che essa non aveva immediatamente ed effettivamente recuperato aiuti dichiarati illegittimi ed incompatibili con il mercato interno», è stata già destinataria di una sentenza ex art. 260 TFUE riguardante il recupero di aiuti concessi nel quadro di regimi d’aiuti recanti misure per l’occupazione (C-496/09, cit.).

Più in generale, sembra aver avuto giocato negativamente sull’esito sanzionatorio del giudizio il complessivo comportamento dello Stato convenuto. Se infatti la Corte dà atto del fatto che «indubbiamente, la Repubblica italiana ha dato prova di un comportamento serio» in seguito alla sentenza Commissione c. Italia del 2011, da un lato, adottando la legge 29 dicembre 2012, n. 228/2012 e la legge 24 dicembre 2012, n. 234/2012 e, dall’altro, conducendo la procedura di recupero degli aiuti su tale base, essa ha tuttavia stigmatizzato «la lentezza con la quale sono stati realizzati progressi per porre rimedio all’inadempimento addebitato. Infatti, è pacifico che, malgrado l’adozione di queste nuove misure regolamentari, una parte importante degli aiuti che non sono stati rimborsati alla data di valutazione dei fatti da parte della Corte in questa sentenza rimane ancora da recuperare».

Non solo, ma la Corte ha anche riprovato il comportamento processuale del Governo italiano, constatando, «sia la mancanza di qualsiasi prova riguardante determinati progressi vantati dalla Repubblica italiana, sia il modo disordinato e confuso in cui sono stati presentati gli elementi relativi a determinati altri argomenti dedotti da questo Stato membro nel quadro del presente procedimento» (punto 103).

Ciò nondimeno, quali che siano la gravità dell’infrazione e le responsabilità dello Stato italiano, la sentenza lascia fortemente perplessi.

La decisione di infliggere una penalità in forma costante, oltre a non apparire rispettosa del principio di proporzionalità, non motiva le ragioni di tale cambiamento giurisprudenziale. I giudici di Lussemburgo si sono infatti limitati ad affermare che «nelle circostanze del caso di specie e in considerazione, segnatamente, delle informazioni fornite alla Corte sia dalla Repubblica italiana sia dalla Commissione, la Corte giudica che occorre fissare una penalità costante, per cui quest’ultima non deve diminuire prima che detto Stato membro non abbia preso tutte le misure necessarie utili all’esecuzione della sentenza Commissione/Italia (C‑302/09, EU:C:2011:634)» (punto 107).

L’unico argomento giuridico addotto a sostegno di tale decisione si rinviene nel punto precedente, là dove la Corte considera «che, sebbene, per assicurare la completa esecuzione della sentenza della Corte, la penalità debba essere richiesta integralmente fino al momento in cui lo Stato membro abbia adottato le misure necessarie per far cessare l’inadempimento accertato, in taluni casi specifici, nondimeno, può essere presa in considerazione una sanzione che tenga conto dei progressi eventualmente realizzati dallo Stato membro nell’esecuzione dei suoi obblighi» (punto 106).

In tal modo, però, la Corte rovescia la prospettiva, considerando quella che abbiamo visto essere una giurisprudenza prevalente come l’eccezione applicabile a casi specifici. Ma come rilevato anche dall’Avvocato generale Kokott nella causa C-196/13, sulla gestione dei rifiuti, «la Corte ha già imposto penalità decrescenti in tre sentenze concernenti infrazioni strutturate in modo simile … Nel più recente procedimento di tal genere, però, nonostante la sussistenza di un’infrazione strutturata in modo simile, relativa alla costruzione di più impianti di depurazione, e una conforme richiesta della Commissione, la Corte ha imposto una penalità fissa (28 novembre 2013, C-576/11, Commissione c. Lussemburgo). Detto caso non denota, tuttavia, una svolta fondamentale dalla prassi di fissare una penalità decrescente in determinate circostanze, e ciò già in quanto la Corte non fornisce alcuna motivazione per lo scostamento dalla precedente giurisprudenza, motivazione che sarebbe stata doverosa non solo in ragione della proposta della Commissione, ma anche perché la stessa Corte, solo un mese prima, aveva imposto ancora una penalità decrescente» (punti 140 ss.).

E dunque, a fronte di un tale contesto giurisprudenziale (si noti che nel caso C-278/01 la Corte si era pronunciata in seduta plenaria e nel caso C-196/13 nella grande sezione), in presenza di una precedente sentenza della Corte in materia di aiuti di Stato che aveva irrogato una penalità decrescente, senza sentire le conclusioni dell’Avvocato generale, la quale oltretutto in altra causa analoga si era pronunziata in favore della penalità decrescente, appare sorprendente che una sezione abbia adottato una simile pronunzia. Eppure l’art. 60, par. 3, del regolamento di procedura della Corte prevede espressamente la possibilità che il collegio giudicante richieda in qualsiasi fase, la riattribuzione della causa ad un collegio più ampio proprio allo scopo di far decidere questioni che presentino profili di particolare difficoltà o che si discostino da una giurisprudenza esistente. Ma vale anche la pena di ricordare che l’art. 16, terzo comma, dello Statuto della Corte prevede la possibilità che uno Stato membro, parte in causa, possa chiedere l’attribuzione della causa alla grande sezione. E dunque potrebbe essere prudente, qualora lo Stato italiano si trovasse nuovamente, e malauguratamente, convenuto in un procedimento ex art. 260 TFUE, che la sua difesa ne chieda la trattazione nella grande sezione.


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