L’Unione europea davanti alle giurisdizioni internazionali: le competenze di Commissione e Consiglio in una recente sentenza della Corte di giustizia
1. Il procedimento n. 21 del Tribunale internazionale per il diritto del mare e la dichiarazione scritta presentata dalla Commissione per conto dell’Unione europea
Con la sentenza pronunciata il 6 ottobre 2015 nella causa C-73/14, Consiglio dell’Unione europea c. Commissione europea, la Corte di giustizia ha recentemente affrontato, a quanto consta per la prima volta, il tema della ripartizione delle competenze tra Commissione e Consiglio allorché si tratti di definire la posizione da assumere da parte dell’Unione europea nell’ambito di un procedimento pendente davanti a un giudice internazionale [in tema, tra gli altri, Peter Van Elsuwege, The Potential for Inter-Institutional Conflicts before the Court of Justice: Impact of the Lisbon Treaty, in Marise Cremona, Anne Thies (edited by), The European Court of Justice and External Relations Law. Constitutional Challenges, Oxford – Portland, OR, 2014, p. 115].
Si era in presenza, nella specie, di una richiesta di parere formulata al Tribunale Internazionale per il Diritto del Mare (International Tribunal for the Law of the Sea o ITLOS) dalla Commissione Subregionale della Pesca (Commission Sous-Régionale des Pêches o CSRP), un’organizzazione intergovernativa per la cooperazione nel settore della pesca, istituita con Convenzione del 29 marzo 1985, che conta attualmente sette Stati membri (Capo Verde, Gambia, Guinea, Guinea-Bissau, Mauritania, Senegal e Sierra Leone). Con tale iniziativa, in particolare, erano stati posti all’ITLOS alcuni quesiti relativi, da un lato, agli obblighi e alle responsabilità (di Stati di bandiera, Stati costieri e organizzazioni internazionali titolari di licenze di pesca) e, dall’altro lato, ai diritti (degli Stati costieri) connessi ad attività di pesca “illegale, non dichiarata e non regolamentata” (“illegal, unreported and unregulated”, IUU, o “illicite, non déclarée, non réglementée”, INN) nella prospettiva di una gestione sostenibile degli stock ittici condivisi e di quelli di interesse comune (per una ricostruzione, anche critica, di questa espressione si può fare riferimento al lavoro di Jens T. Theilen, What’s in a Name? The Illegality of Illegal, Unreported and Unregulated Fishing, in International Journal of Marine and Coastal Law, 2013, p. 533).
Dopo essere stato investito della questione, con ordinanza del 24 maggio 2013 l’ITLOS aveva invitato le parti contraenti della Convenzione delle Nazioni Unite sul Diritto del Mare (United Nations Convention on the Law of the Sea o UNCLOS), inclusa l’Unione europea, così come la stessa CSRP e una serie di altre organizzazioni ritenute in grado di fornire informazioni utili sull’argomento, a presentare dichiarazioni scritte, fissando all’uopo un termine al 29 novembre 2013, poi posticipato al 19 dicembre 2013.
Come riferito ai punti 23-25 della sentenza in commento, la Commissione adottava in proposito la decisione C(2013)4989 def. del 5 agosto 2013, non pubblicata, «riguardante il deposito di osservazioni scritte in nome dell’Unione relative alla domanda di parere consultivo presentata dalla Commissione subregionale della pesca al Tribunale internazionale per il diritto del mare nel procedimento n. 21». Essa, dopo avere premesso che «[a]i sensi dell’articolo 335 TFUE, l’Unione è rappresentata dalla Commissione nei procedimenti giurisdizionali», che «[l]a Commissione presenta osservazioni scritte in nome dell’Unione sulle questioni sottoposte all’ITLOS e partecipa alla fase orale» e che «[i]n forza del principio di leale cooperazione la Commissione informa il Consiglio tramite il suo competente gruppo di lavoro», stabiliva all’art. 1 che «[l]a Commissione [avrebbe depositato] osservazioni scritte in nome dell’Unione europea riguardanti le questioni sottoposte il 27 marzo 2013 dalla [CSRP] all’[ITLOS], nell’ambito del procedimento n. 21, al fine di ottenere un parere consultivo [e] (…) [avrebbe partecipato] alla fase orale».
A tale decisione facevano seguito diversi contatti tra Commissione e Consiglio, in particolare tramite i due gruppi di lavoro di quest’ultimo “Diritto del mare” e “Politica interna e esterna della pesca”, nell’ambito dei quali emergeva, tra le due istituzioni, una disparità di vedute rispetto al ruolo del Consiglio, atteso che quest’ultimo e i rappresentanti degli Stati membri nell’ambito del COREPER affermavano a più riprese che proprio al Consiglio sarebbe spettato approvare preliminarmente il contenuto delle osservazioni che la Commissione si accingeva a presentare all’ITLOS. La Commissione, tuttavia, si limitava a sottoporre al Consiglio diverse, successive versioni di un documento di lavoro (elaborate anche alla luce delle osservazioni provenienti dalle delegazioni degli Stati membri) e infine, in data 29 novembre 2013, inviava all’ITLOS la propria dichiarazione in nome dell’Unione europea, informandone lo stesso giorno il Consiglio con un messaggio di posta elettronica.
La mossa della Commissione provocava la reazione del Consiglio, il quale adiva la Corte di giustizia impugnando la decisione di cui sopra e richiedendone l’annullamento, essendo stati violati, a suo avviso, i principi di attribuzione delle competenze, dell’equilibrio istituzionale e di leale cooperazione.
2. Applicazione dei principi di attribuzione, dell’equilibrio istituzionale e di leale cooperazione alla vicenda in oggetto
Procedendo in ordine logico, va innanzitutto condivisa la posizione espressa dalla Corte di giustizia secondo la quale l’articolo 335 TFUE «costituisce l’espressione di un principio generale in virtù del quale l’Unione possiede la capacità giuridica e a tal fine è rappresentata dalla Commissione» (punto 58). Rispetto alle considerazioni svolte dalla Corte vale forse solo la pena di aggiungere che la capacità di “stare in giudizio” che l’art. 335 TFUE riconosce alla Commissione «[i]n ciascuno degli Stati membri» è sì da intendersi equiparata alla «più ampia … riconosciuta alle persone giuridiche dalle legislazioni nazionali», ma non per questo risulta espressamente circoscritta dall’art. 335 TFUE alle sole giurisdizioni nazionali degli Stati membri. A supporto, la Corte cita del resto il precedente Reynolds Tobacco (sentenza della Corte di giustizia del 12 settembre 2006, causa C-131/03 P, R.J. Reynolds Tobacco Holdings, Inc. c. Commissione europea), nel quale era stata accertata la legittimità di una decisione della Commissione di avviare un procedimento davanti ai giudici di uno Stato terzo. Deve, anzi, ritenersi che una volta ammesso il diritto dell’Unione a partecipare a un procedimento davanti a un giudice internazionale non possa esservi alternativa a che la stessa sia rappresentata dalla Commissione proprio in forza di quanto disposto dall’art. 335 TFUE, soprattutto se letto in combinazione con l’art. 47 TUE, che riconosce la personalità giuridica (anche internazionale) dell’Unione, e dell’art. 17, par. 1, TUE, che attribuisce alla Commissione un generale potere di «rappresentanza esterna … fatta eccezione per la politica estera e di sicurezza comune e per gli altri casi previsti dai trattati».
Passando al merito, la risposta fornita dalla Corte di giustizia alle doglianze del Consiglio non pare invero criticabile. Rispetto all’asserita violazione del principio di attribuzione, l’argomento fondato sull’art. 218, par. 9, TFUE, ai sensi del quale è il Consiglio, «su proposta della Commissione», a stabilire «le posizioni da adottare a nome dell’Unione in un organo istituito da un accordo, se tale organo deve adottare atti che hanno effetti giuridici» è stato giustamente respinto in ragione non tanto dell’assenza di “effetti giuridici” in capo al parere emesso dall’ITLOS (effetti che, seppure di carattere indiretto, ben potrebbero ritenersi sussistenti) quanto dell’evidente non pertinenza della disposizione invocata dal Consiglio rispetto alla situazione portata all’attenzione della Corte. Sia che lo si legga in una prospettiva sistematica sia che ci si basi su un’interpretazione letterale, infatti, l’art. 218, par. 9, è chiaramente destinato ad applicarsi a situazioni nelle quali l’Unione interviene all’interno di un organo collegiale con funzioni deliberative o esecutive per concorrere alle sue decisioni e non certo davanti ad un organo giurisdizionale, tanto più quando l’intervento è volto ad esporre a tale organo la posizione dell’Unione in vista dell’emissione, in piena indipendenza, di un parere consultivo.
Quanto, infine, all’art. 16, par. 1, TUE e alla circostanza ivi riferita che Il Consiglio esercita «funzioni di definizione delle politiche […] alle condizioni stabilite nei trattati», fatto salvo quanto tra poco si dirà in argomento, anche in questo caso la Corte correttamente rifiuta di aderire all’impostazione del Consiglio, osservando come non possa ritenersi che nel partecipare al procedimento n. 21 dell’ITLOS la Commissione abbia inteso definire alcuna politica dell’Unione.
In assenza di una competenza del Consiglio sul punto, pertanto, neppure si può riscontrare una violazione del principio dell’equilibrio istituzionale né tanto meno di quello che impone alle istituzioni di impostare la propria condotta a una leale collaborazione se non nella limitata accezione di un dovere di consultazione non solo con le altre istituzioni ma anche, nel caso di specie, con i singoli Stati membri, in quanto parti contraenti della convenzione istitutiva dell’ITLOS (diffusamente, Marcus Klamert, The Principle of Loyalty in EU Law, Oxford, 2014, in particolare p. 183 e ss. dove si discute del principio di leale collaborazione in relazione agli accordi misti).
Si può, incidentalmente, ricordare un’altra ipotesi di violazione del principio di attribuzione venuta in rilievo in una recente pronuncia della Corte in materia di pesca (sentenza della Corte di giustizia del 26 novembre 2014 nelle cause riunite C-103 e C-165/12, Parlamento europeo c. Consiglio dell’Unione europea), in occasione della quale è tuttavia stato effettivamente accertato un errato utilizzo quale base giuridica dell’art. 43, par. 3, in combinato disposto con l’art. 218, par. 6, lett. b), TFUE. Si trattava di valutare la legittimità dell’adozione da parte del Consiglio, senza ricorrere alla procedura legislativa ordinaria richiamata dall’art. 43, par. 2, TFUE in relazione, tra l’altro, alle «disposizioni necessarie al perseguimento degli obiettivi della politica comune dell’agricoltura e della pesca», della decisione 2012/19/UE del Consiglio, del 16 dicembre 2011, approvativa di una dichiarazione sulla concessione di possibilità di pesca nelle acque dell’Unione europea ai pescherecci battenti bandiera della Repubblica bolivariana del Venezuela nella zona economica esclusiva al largo delle coste della Guyana francese. La Corte, dopo aver rilevato che quella in oggetto non era «una misura tecnica o di esecuzione, bensì, al contrario, una misura che presuppone l’adozione di una decisione autonoma che dev’essere presa alla luce degli interessi politici che l’Unione persegue nelle sue politiche comuni, in particolare quella della pesca» (punto 79), concludeva che si doveva conseguentemente concludere che la misura era riconducibile a «un settore di competenza che figura tra quelli rispetto ai quali le decisioni spettano al legislatore dell’Unione» (punto 80).
Il riferimento che viene operato dalla sentenza in commento all’art. 16, par. 1, TUE, induce peraltro a qualche riflessione più ampia e ciò in ragione del fatto che, nell’affrontare il delicato interrogativo se l’intervento dell’Unione nell’ambito del procedimento n. 21 costituisse (o quantomeno implicasse) la definizione di una “politica”, la Corte ha seguito solo in parte il ragionamento sviluppato dall’Avvocato generale nelle proprie conclusioni.
La sentenza, infatti, tende ad escludere in termini assoluti la possibile applicazione di quanto previsto all’art. 16, par. 1, seconda frase, TUE in tema di attribuzione al Consiglio di «funzioni di definizione delle politiche e di coordinamento» nell’ipotesi di procedimenti giurisdizionali di cui l’Unione europea è parte. Così sembra doversi intendere il riferimento, tra l’altro, al fatto che la Commissione si fosse limitata a presentare all’ITLOS «un insieme di considerazioni giuridiche» (punto 71) e che «considerazioni sulla competenza [dell’ITLOS] a rispondere alla richiesta di parere consultivo e sulla ricevibilità delle questioni poste», ancorché «riconducibili a scelte strategiche o politiche» (punto 72), «caratterizzano la partecipazione al procedimento giurisdizionale», peraltro «allo stesso titolo delle osservazioni presentate in ordine al merito del procedimento di cui trattasi» (punto 73), a nulla rilevando «le considerevoli conseguenze politiche» – lamentate dal Consiglio e da alcuni Stati membri – «che possono derivare, in particolare, sul piano delle relazioni tra l’Unione e gli Stati membri della [CSRP]» (punti 74 e 75). Si profila, in altri termini, agli occhi della Corte, un’incompatibilità in linea di principio tra la natura politica delle decisioni cui si riferisce l’art. 16, par. 1, seconda frase, TUE e le caratteristiche intrinseche di un qualsiasi procedimento giurisdizionale.
Più articolata, e anche per questo sensibilmente diversa, risulta, sul punto, la ricostruzione dell’Avvocato generale Sharpston, la quale ammette la possibilità che venga sottoposta ad un giudice internazionale una questione «non […] già coperta da impegni dell’UE esistenti ai sensi del diritto internazionale, da interpretare (e applicare) in tali procedimenti» o «da qualsiasi altra norma di diritto internazionale su cui l’UE ha già adottato una posizione». Al verificarsi di tali circostanze, non ricorrenti a suo avviso nel caso di specie, dovrebbero essere salvaguardate le prerogative del Consiglio al quale andrebbe dunque riconosciuto il diritto di predeterminare – a maggioranza qualificata «salvo nel caso in cui i trattati dispongano diversamente» – la posizione da assumersi da parte della Commissione per conto dell’Unione europea. Quella tracciata dall’Avvocato generale è certamente una linea di demarcazione molto sottile, la cui individuazione caso per caso sarebbe destinata a far sorgere non poche difficoltà di carattere interpretativo. Tale impostazione appare tuttavia più rispettosa del principio di attribuzione oltreché realistica: non si può infatti escludere, in linea di principio, che nell’ambito di un procedimento giurisdizionale internazionale si possa rendere necessario prendere posizione in merito a profili di diritto, relativi ad esempio alla formazione o al contenuto di una consuetudine internazionale, sui quali l’Unione europea non si è ancora “politicamente” espressa (è in questo senso significativo il precedente costituito dalla sentenza resa dalla Corte di giustizia il 7 ottobre 2014 nella causa C-399/12, Germania c. Consiglio dell’Unione europea, citata dalla Corte nonché, più diffusamente, dall’Avvocato generale; su di essa si veda recentemente anche Chiara Cellerino, Soggettività internazionale e azione esterna dell’Unione europea, Roma, 2015, pp. 210-213.).
Un’altra differenza tra le conclusioni e la sentenza (che esula dall’ambito d’interesse del presente, breve commento ma che è senz’altro opportuno rilevare) riguarda la posizione dell’Avvocato generale in merito all’irricevibilità del ricorso in ragione dell’asserito mancato rispetto, da parte del Consiglio, del termine perentorio stabilito dall’art. 263, par. 6, TFUE letto in combinazione con l’art. 51 del regolamento di procedura della Corte. La Corte, infatti, omette di pronunciarsi sul rilievo dell’Avvocato generale secondo cui l’unico atto impugnabile nell’ambito della vicenda in oggetto sarebbe stato costituito dalla decisione adottata dalla Commissione il 5 agosto 2013, non ravvisandosi alcuna decisione della Commissione del 29 novembre 2013. In tale seconda data, infatti, ad avviso dell’Avvocato generale e contrariamente a quanto sostenuto dal Consiglio, era semplicemente stata data attuazione a quanto già era stato stabilito in aprile. Poiché il Consiglio aveva avuto notizia della decisione del 5 agosto 2013 non più tardi del 24 ottobre 2013 (in occasione di un incontro inter-istituzionale per discutere dell’argomento), nella ricostruzione dell’Avvocato generale, il ricorso depositato il 10 febbraio 2014 non poteva che ritenersi tardivo.
3. La procedura di parere consultivo e la partecipazione “concorrente” dell’Unione europea e di alcuni Stati membri
Non è questa ovviamente la sede, anche per ragioni di spazio, per discutere del merito delle questioni sottoposte all’ITLOS. Particolarmente meritevole di attenzione è, però, la reciproca interazione (o, se si vuole, l’effetto combinato) delle dichiarazioni presentate dall’Unione europea e di quelle pervenute da sette Stati membri autonomamente intervenuti nel procedimento (Francia, Germania, Irlanda, Paesi Bassi, Portogallo, Regno Unito e Spagna).
È importante sottolineare, a questo riguardo, che i quesiti di cui si tratta erano stati formulati in modo assai vago dalla CSRP, senza richiami a disposizioni, norme o principi contenuti in specifici strumenti di diritto internazionale né a un chiaro contesto fattuale di riferimento, tanto da dare adito, anche per questo motivo, a seri dubbi circa la sussistenza della competenza dell’ITLOS a pronunciarsi su di essi. È dunque senz’altro opportuno riportarne il testo per comodità di consultazione (utilizzando il francese, lingua nella quale essi erano stati originariamente formulati):
1) «Quelles sont les obligations de l’Etat du pavillon en cas de pêche illicite, non déclarée, non réglementée (INN) exercée à l’intérieur de la Zone Economique Exclusive des Etats tiers?
2) Dans quelle mesure l’Etat du pavillon peut-il être tenu pour responsable de la pêche INN pratiquée par les navires battant son pavillon?
3) Une organisation internationale détentrice de licences de pêche peut-elle être tenue pour responsable des violations de la législation en matière de pêche de l’Etat côtier par les bateaux de pêche bénéficiant desdites licences?
4) Quels sont les droits et obligations de l’Etat côtier pour assurer la gestion durable des stocks partagés et des stocks d’intérêt commun, en particulier ceux des thonidés et des petits pélagiques?».
Il principale punto di discussione in merito alla sussistenza o meno della competenza dell’ITLOS ruotava, in sintesi, intorno alla mancata previsione, all’interno dell’UNCLOS, di una qualsivoglia indicazione in merito alla possibilità di pronunciare pareri consultivi per il Tribunale in quanto tale (a differenza della sua Sezione per la risoluzione delle controversie sui fondi marini alla quale tale potere è espressamente attribuito, a determinate condizioni, dall’art. 191 della UNCLOS). L’obiezione risulta alla fine superata dal Tribunale sulla scorta di quanto disposto all’art. 21 dello Statuto dell’ITLOS, che riconosce la competenza del Tribunale ad occuparsi anche di «(iii) all “matters” [“toutes les fois que cela”] specifically provided for in any other agreement which confers jurisdiction on the Tribunal» e della considerazione che un «other agreement» di tal fatta esiste, nel caso di specie, essendo costituito dalla Convention relative à la détermination des conditions minimales d’accès et d’exploitation des ressources halieutiques à l’intérieur des zones maritimes sous juridiction des Etats membres de la CSRP, evocata dalla CSRP nella richiesta di parere rivolta al Tribunale.
Ciò posto, si deve rilevare che l’Unione europea, nella propria dichiarazione, ha omesso di prendere posizione sul rilevante aspetto della competenza dell’ITLOS. Essa ha, anzi, espressamente dichiarato che la propria dichiarazione era da intendersi «without prejudice to the question of the jurisdiction of the Tribunal to examine the request for an advisory opinion in respect of the questions raised before it» («sans préjudice de la question de la compétence du Tribunal pour examiner la demande d’avis consultatif sur les questions qui lui ont été posées»).
Un esame congiunto delle dichiarazioni depositate dall’Unione e dagli Stati membri intervenuti svela così un quadro del tutto peculiare, caratterizzato da una sostanziale divisione dei ruoli (o, se si vuole, da una ripartizione delle competenze de facto) tale per cui Unione e Stati membri hanno partecipato congiuntamente al procedimento limitandosi l’una ad intervenire sul merito (e, molto brevemente, sull’ammissibilità dei quesiti) e gli altri a prendere posizione in ordine alla competenza dell’ITLOS, con alcune minime “incursioni” (si pensi alla Francia) nelle questioni di merito. Nel pronunciarsi sulla competenza, peraltro, alcuni Stati membri si sono espressi in senso contrario (Regno Unito), mentre altri hanno assunto posizione favorevole (Germania) con una varietà di opinioni intermedie (ad esempio i Paesi Bassi e il Portogallo).
Resta da capire se si sia trattato di una scelta politica – di compromesso – con la quale, a fronte della volontà della Commissione di ribadire il proprio diritto ad intervenire nel procedimento a prescindere dall’accordo del Consiglio, si è voluta lasciare agli Stati membri la possibilità di partecipare anch’essi o se, al contrario, la Commissione abbia ritenuto di non potere, in effetti, esprimersi in tema di competenza temendo, in caso contrario, di incorrere davvero in una violazione del principio di leale collaborazione. La Corte di giustizia dà prova di apprezzare l’atteggiamento tenuto dalla Commissione, valorizzando l’affermazione secondo la quale la neutralità sulla questione della competenza dell’ITLOS a rendere il parere richiesto «era stata dettata dalla sua preoccupazione di tenere conto, con spirito di lealtà, delle opinioni divergenti espresse al riguardo dagli Stati membri in seno al Consiglio» (punto 88). Quello che la Corte (ovviamente) non dice espressamente è se un atteggiamento diverso e più “invasivo” da parte della Commissione avrebbe potuto portare a un accoglimento almeno parziale delle doglianze del Consiglio.
Una lettura attenta delle motivazioni della sentenza, soprattutto del passaggio in cui si osserva che le «considerazioni sulla competenza … caratterizzano la partecipazione al procedimento giurisdizionale» (punti 72 e 73), farebbe propendere per una risposta negativa. L’interrogativo, tuttavia, rimane aperto ed è, ad avviso di chi scrive, tutt’altro che marginale, se si considera che, proprio per la stretta connessione esistente tra argomenti di ordine procedurale e di merito enfatizzata dalla stessa Corte nel passaggio appena citato, la descritta ipotesi di “biforcazione” delle difese tra Unione e Stati membri costituisce una prospettiva niente affatto ideale e potenzialmente dannosa degli interessi dell’una e degli altri.