L’operatività del divieto di aiuti di Stato in ipotesi di esenzioni fiscali a beneficio degli enti ecclesiastici: la sentenza della Corte di giustizia Congregación de Escuelas Pías Provincia Betania c. Ayuntamiento de Getafe

  1. 1.Premessa

L’obiettivo dell’instaurazione di un regime di libera concorrenza tra le imprese nel mercato comune trova, come è noto, realizzazione anche attraverso la previsione del generale divieto di aiuti di Stato. Nell’ambito delle “Regole di concorrenza”, disciplinate nel Titolo VII capo 1, del Trattato sul Funzionamento dell’Unione europea (TFUE), siffatto divieto è sancito dall’art. 107 che stabilisce che «Salvo deroghe contemplate dai trattati, sono incompatibili con il mercato interno, nella misura in cui incidano sugli scambi tra Stati membri, gli aiuti concessi dagli Stati, ovvero mediante risorse statali, sotto qualsiasi forma che, favorendo talune imprese o talune produzioni, falsino o minaccino di falsare la concorrenza». I profili sostanziali e procedurali risultano, poi, ulteriormente sviluppati dagli articoli 108 e 109 del TFUE, nonché dalla normativa di diritto derivato: ad essi è sottesa la ratio di evitare che sugli scambi tra Stati membri possano incidere eventuali vantaggi concessi dalle pubbliche autorità che alterino o rischino di alterare la concorrenza, determinando un favor verso determinate imprese o determinati prodotti. Infatti, salvo casi eccezionali, gli Stati membri devono astenersi dal falsare il gioco competitivo della concorrenza e ciò attraverso l’erogazione di risorse, in maniera diretta o indiretta, alle imprese. In tal senso si è anche espressa la costante giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea dalla quale emerge che un “aiuto di Stato” può concretizzarsi in differenti forme e, dunque, il divieto opera in presenza non solo di finanziamenti diretti ad una o più impresa ma anche di esenzioni fiscali in loro favore.

All’uopo, nel tempo ha assunto crescente rilievo per il diritto dell’Unione europea il rapporto tra le esenzioni fiscali praticate dagli Stati membri in favore degli enti che svolgono attività “sociali” in senso lato, tra cui gli enti ecclesiastici, e la disciplina degli aiuti di Stato. Ne è riprova la sottoposizione alla Corte di giustizia di una questione pregiudiziale riguardante la compatibilità delle esenzioni a beneficio degli immobili della Chiesa cattolica in Spagna, sfociata in una recente pronuncia (Corte di giustizia, Grande Sezione, sentenza del 27 giugno 2017, Congregación de Escuelas Pías Provincia Betania c. Ayuntamiento de Getafe, causa C‑74/16) che sarà oggetto di analisi in queste pagine.

  1. 2. Le esenzioni a beneficio degli immobili della Chiesa cattolica in Spagna: fatto e questione pregiudiziale sottoposta alla Corte di giustizia dell’Unione europea

L’ammissibilità delle esenzioni a beneficio degli immobili della Chiesa cattolica, con riferimento allo Stato spagnolo, trova la sua principale fonte nell’Accordo sottoscritto tra quest’ultimo e la Santa Sede nel 1979. Nella specie, si tratta di un Accordo risalente ad un’epoca precedente all’adesione della Spagna all’Unione europea e che prevede, nel suo articolo IV, paragrafo 1, lettera B), primo comma, per i beni immobili della Chiesa cattolica, un’«esenzione totale e permanente dalle imposte reali o sulle rendite, sul reddito e sul patrimonio».

È proprio in virtù di siffatto Accordo che, con decreto del 5 giugno 2001 del Ministero delle finanze spagnolo, è stato riconosciuto, in favore della Chiesa cattolica, un’esenzione totale dall’imposta sulle costruzioni, sugli impianti e sulle opere (ICIO) in relazione agli immobili da essa detenuti e ciò indipendentemente dalla natura delle attività alle quali questi sono destinati. Più nello specifico l’ICIO rappresenta una imposta comunale che è stata istituita dalla Ley 39/1988 concernente la disciplina della finanza degli enti locali, del 28 dicembre 1988. Siffatta imposta ha trovato ulteriore disciplina nel regio decreto legislativo 2/2004, che approva il testo consolidato della legge recante disciplina della finanza degli enti locali, del 5 marzo 2004.  In particolare, ai sensi dell’art. 100, par. 1, del decreto del 2004, l’ICIO è qualificata come una «imposta indiretta il cui fatto generatore è costituito dalla realizzazione, nel territorio comunale, di qualsiasi costruzione, impianto od opera per la quale sia necessario ottenere un corrispondente permesso edilizio o urbanistico – indipendentemente dall’ottenimento del medesimo – oppure sia necessario presentare una dichiarazione di responsabilità o una previa comunicazione, sempre che il rilascio del permesso o l’attività di controllo rientrino nella competenza del comune di imposizione». Ad essa sono assoggettate tanto le persone fisiche quanto le persone giuridiche o le entità «che siano committenti della costruzione, dell’impianto o dell’opera, senza riguardo al fatto che essi siano o no proprietari dell’immobile sul quale i lavori vengono realizzati. Ai fini previsti al comma precedente, si considera come committente della costruzione, dell’impianto o dell’opera colui che sopporta le spese o i costi di realizzazione».

Come si è detto, il decreto del 2001 ha previsto una esenzione totale in favore della Chiesa cattolica; esenzione che è stata oggetto di ridimensionamento in un successivo decreto del 15 ottobre 2009 che ne ha circoscritto l’operatività soltanto in relazione agli edifici destinati esclusivamente a scopi religiosi. Ebbene, tale ultimo decreto è stato però annullato con sentenza dell’Audiencia Nacional del 9 dicembre 2013 in quanto considerato contrario proprio all’Accordo esistente tra lo Stato spagnolo e la Santa Sede.

Sulla base del quadro normativo interno brevemente ricostruito, è sorta una controversia che ha visto contrapporre la Congregazione delle Scuole Pie della Provincia Betania al Comune di Getafe in Spagna e scaturita dal rigetto opposto da quest’ultimo alla domanda della Congregazione volta ad ottenere il rimborso di una somma precedentemente corrisposta a titolo dell’imposta sulle costruzioni, sugli impianti e sulle opere (per un importo di € 23.730,41). Va precisato, infatti, che nel marzo 2011, la Congregazione aveva richiesto un permesso per la trasformazione e l’ampliamento dell’edificio che ospita la sala per conferenze della scuola «La Inmaculada» da essa gestita, destinata in particolare allo svolgimento di riunioni, corsi e conferenze. Successivamente, dunque, la Congregazione ha proposto una domanda di rimborso dell’importo versato fondata sul regime di esenzione introdotto dal decreto del 2001, a sua volta attuativo del citato Accordo del 1979.

Giunta innanzi al giudice amministrativo spagnolo, la controversia ha palesato il suo rilievo per il diritto dell’Unione europea, in particolare, per quanto concerne l’incidenza del divieto di aiuti di Stato sancito, come specificato già in premessa, dall’art. 107 del TFUE: l’esenzione fiscale di cui invoca il beneficio, in Spagna, la Congregazione della Chiesa cattolica per opere realizzate in un immobile destinato all’esercizio di attività prive di finalità strettamente religiose, può essere legittimamente accordata sulla base del diritto interno oppure ricade nel divieto enunciato dal citato art. 107 del TFUE?

3. La decisione della Corte di giustizia: l’approccio “funzionale” circa il rilievo della nozione di “impresa” e di “attività economica”

Nel dare risposta alla questione pregiudiziale interpretativa sollevata dal Juzgado de lo Contencioso-Administrativo n° 4 de Madrid, una volta fugati i dubbi circa la ricevibilità della questione stessa, la Corte di giustizia, riunita nella Grande Sezione, incentra il suo decisum sulla nozione di “aiuto di stato”, così come emerge dal testo del TFUE e dagli sviluppi ermeneutici formatisi in relazione ad esso.

Infatti, in assenza di una definizione esaustiva di “aiuti di Stato” all’interno dei Trattati, occorre riferirsi – oltre ai criteri individuati dalla normativa di diritto derivato e alla prassi della Commissione europea – alla giurisprudenza della Corte di giustizia dalla quale emerge, in primo luogo, che la configurazione di un “aiuto di Stato” necessiti della sussistenza – in maniera cumulativa e non alternativa –  di tutte le condizioni enunciate dall’art. 107, par. 1, del TFUE. In particolare, rievocando la sua più recente giurisprudenza sul punto (sentenza del 21 dicembre 2016, Commissione c. Hansestadt Lübeck, C‑524/14 P, EU:C:2016:971, punto 40 e sentenza del 21 dicembre 2016, Commissione c. World Duty Free Group SA e a., C‑20/15 P e C‑21/15 P, EU:C:2016:981, punto 53) la Grande Sezione ricorda che quattro sono gli elementi che necessitano di essere provati affinché una misura possa qualificarsi come “aiuto di Stato”: si deve trattare di un intervento dello Stato o effettuato mediante risorse statali; che sia idoneo a incidere sugli scambi tra gli Stati membri; esso deve concedere un vantaggio selettivo al suo beneficiario e, infine, deve falsare o minacciare di falsare la concorrenza.

Inoltre, atteso che il diritto dell’Unione europea in materia di concorrenza trova applicazione esclusivamente con riferimento alle attività delle imprese, le argomentazioni della Grande Sezione non possono fare a meno di focalizzarsi in via preliminare sulla possibilità di qualificare la Congregazione quale “impresa” (punti 42-64 della sentenza).

All’uopo, va evidenziato che nella giurisprudenza sviluppata dalla Corte di giustizia dell’Unione europea, la nozione di “impresa” è stata oggetto di un’operazione di progressiva estensione, connessa all’elemento sostanziale dell’effettivo esercizio di una “attività economica” e slegata, invece, dalla natura giuridica del soggetto preso a riferimento: infatti, la nozione di impresa «abbraccia qualsiasi entità che esercita un’attività economica, a prescindere dallo status-giuridico di detta entità e dalle sue modalità di finanziamento» (ex multis, sentenza del 23 aprile 1991, causa C‑41/90, Höfner e Elser, in Racc. pag. I‑1979, punto 21).

Se questa è l’impostazione consolidatasi nella giurisprudenza europea, diviene centrale verificare se l’entità presa a riferimento svolga una attività che consiste nell’offrire beni e servizi su un determinato mercato, ossia un’attività qualificabile come “economica”, tenendo presente che anche l’assenza dello scopo di lucro non vale di per sé ad escluderne la sussistenza, atteso che l’offerta di beni o di servizi si pone comunque in concorrenza con quella di altri operatori che perseguono uno scopo di lucro (in questo senso, si veda ad esempio la sentenza della Corte di giustizia dell’1 luglio 2008, Motosykletistiki Omospondia Ellados NPID (MOTOE) c. Elliniko Dimosio, C-49/07, ECLI:EU:C:2008:376, punti 27 e 28 e precedentemente sentenza del 10 gennaio 2006, causa C‑222/04, Ministero delle Economie e delle Finanze c. Cassa di Risparmio di Firenze e a., ECLI:EU:C:2006:8, punti 122 e 123. Inoltre, vanno tenuti presente anche i precedenti della stessa Corte dai quali emerge che i corsi impartiti da istituti di insegnamento finanziati, essenzialmente, mediante fondi privati non provenienti dal prestatore dei servizi stessi costituiscono servizi, posto che, infatti, lo scopo perseguito da tali istituti consiste nell’offrire un servizio in cambio di una remunerazione (v., per analogia, sentenza dell’11 settembre 2007, Schwarz e Gootjes‑Schwarz, C‑76/05, EU:C:2007:492, punto 40, nonché sentenza dell’11 settembre 2007, Commissione c. Germania, C‑318/05, EU:C:2007:495, punto 69).

Prima facie, risulta certamente stridere l’associazione della nozione di “impresa” rispetto ad una comunità di tipo religioso quale è la Congregazione spagnola protagonista della controversia dalla quale è originata la questione pregiudiziale. Nell’ambito delle attività della Chiesta cattolica, essa, infatti, è deputata allo svolgimento di compiti religiosi, pastorali e latu senso sociali. Tuttavia, va posta attenzione su un altro aspetto che si è consolidato nella giurisprudenza della Corte e che rende applicabile, anche in ipotesi di enti religiosi, le norme del Trattato che disciplinano il diritto della concorrenza: esso risiede nella valutazione in maniera distinta di ogni singola attività esercitata da un’entità. Come precisato anche dalla Commissione europea nella sua Comunicazione del 2016 sulla nozione di aiuti di Stato (Comunicazione della Commissione sulla nozione di aiuto di Stato di cui all’articolo 107, paragrafo 1, del trattato sul funzionamento dell’Unione europea, 2016/C 262/01, in GUUE C 262 del 19.7.2016), la qualificazione di un ente quale “impresa” è connessa anche solo ad un’attività specifica e, laddove un ente svolga contemporaneamente sia attività economiche sia attività non economiche, sarà considerato quale impresa solo in relazione al primo tipo di attività (cfr. anche sentenza del 24 ottobre 2002, Aéroports de Paris c. Commissione, C‑82/01 P, EU:C:2002:617, punto 75).

È proprio applicando siffatti principi che la Grande Sezione, nella sentenza del 27 giugno 2017, non ha escluso che la Congregazione spagnola possa essere qualificata come “impresa”, specie in relazione alle attività che esulano da quelle strettamente religiose e che presentano connotati “economici”. Si tratta di un accertamento che la Corte di giustizia demanda al giudice a quo, pur nell’alveo delle precise indicazioni contenute nella sentenza pregiudiziale. Infatti, i giudici di Lussemburgo, ritenendo “pacifico” che la Congregazione svolga differenti tipi di attività, sottolineano che l’esenzione fiscale in discussione nel procedimento principale concerne la trasformazione e l’ampliamento della sala per conferenze della scuola «La Inmaculada» che è destinata soltanto alle attività di insegnamento che la Congregazione propone, di tal che «l’esenzione in parola non sembra presentare alcun collegamento né con le attività a carattere strettamente religioso dell’entità suddetta, né con i servizi complementari» ad essa. Inoltre, «le attività di insegnamento della Congregazione non sovvenzionate dallo Stato spagnolo, rientranti nell’insegnamento prescolare, extrascolare e post‑obbligatorio sembrano soddisfare tutti i criteri enunciati ai punti da 44 a 49 della presente sentenza per poter essere qualificate come “attività economiche”». E ciò in ragione del fatto che tali attività non sarebbero sovvenzionate dallo Stato spagnolo, essendo organizzate dalla stessa Congregazione e finanziate essenzialmente mediante contribuzioni private alle spese scolastiche, versate segnatamente dagli studenti e dai loro genitori.

Ed è proprio in virtù della possibile qualificazione – sottoposta in definitiva all’apprezzamento del giudicedel rinvio– delle attività della Congregazione quali “economiche” che la Corte di giustizia passa a verificare l’ulteriore soddisfacimento delle quattro condizioni enunciate dall’art. 107, par. 1, del TFUE.

All’uopo, i giudici di Lussemburgo ritengono fuor di dubbio che, nel caso di specie, sussista un “vantaggio economico selettivo” e che esso sia imputabile allo Stato. In relazione, invece, alle ulteriori due condizioni previste dal diritto primario (segnatamente, l’incidenza del vantaggio sugli scambi tra gli Stati membri e l’esistenza di una distorsione della concorrenza) l’accertamento viene demandato al giudice a quo, al quale spetta anche di verificare il raggiungimento o meno della soglia de minimis, così come prevista dall’art. 2 del Regolamento (CE) n. 1998/2006 della Commissione del 15 dicembre 2006, relativo all’applicazione degli articoli 87 e 88 del trattato agli aiuti d’importanza minore («de minimis») (al quale è poi sopraggiunto il Regolamento (UE) n. 1407/2013 della Commissione, del 18 dicembre 2013 , relativo all’applicazione degli articoli 107 e 108 del trattato sul funzionamento dell’Unione europea agli aiuti «de minimis»). Tra i vari elementi di valutazione rimessi al giudice a quo, al quale spetta dunque la decisione finale, rilievo preminente potrebbe avere proprio il mancato raggiungimento della soglia “de minimis”. Sebbene spetti al giudice nazionale una più puntuale e attenta verifica in ordine ai “vantaggi dei quali la Congregazione abbia beneficiato a titolo delle sue eventuali attività economiche, dovendosi invece escludere da tale calcolo le attività non economiche” (punto 83 della sentenza), dalla pronuncia della Corte di giustizia emerge che l’importo versato a titolo di ICIO del quale si discute in ordine alla richiesta di rimborso da parte della Congregazione ammonta ad € 23.730,4, laddove il Regolamento da ultimo citato consente l’erogazione di aiuti “de minimis” entro un tetto di € 200.000 nell’arco temporale di tre anni. Di tal che, l’esenzione di cui si discute potrebbe essere considerata del tutto ininfluente sul regime della concorrenza e non rientrante nel divieto sancito dall’art. 107 del TFUE.

4. Alcune riflessioni anche in relazione al caso italiano

Pur demandando l’accertamento di varie questioni all’apprezzamento del giudice del rinvio, la Grande Sezione, attraverso la pronuncia del 27 giugno 2017, risulta significativa nella misura in cui afferma il principio della operabilità del divieto di aiuti di Stato in ipotesi di esenzioni fiscali agli enti religiosi, attraverso il tradizionale approccio “funzionale” che impone di prendere in considerazione la sostanziale natura “economica” di alcune delle attività svolte da siffatti enti. Le questioni di diritto affrontate nella sentenza, come evidenziato dall’Avvocato Generale Kokott nelle sue conclusioni (presentate il 16 febbraio 2017),possono risultare di grande interesse anche per numerosi altri Stati membri, al di fuori della Spagna, le cui legislazioni nazionali – in virtù di accordi con la Santa Sede – prevedono analoghi tipi di esenzioni fiscali in favore di enti religiosi.

In proposito, va sottolineato che, in termini generali, il particolare status che il diritto nazionale intende attribuire alle chiese o alle comunità religiose rappresenta un elemento che l’Unione europea si impegna non solo a rispettare ma anche a “non pregiudicare”. Ciò trova, infatti, esplicitazione nell’articolo 17, par. 1, del TFUE contenuto nella parte prima, titolo II («Disposizioni di applicazione generale») del suddetto Trattato, che afferma che «L’Unione rispetta e non pregiudica lo status di cui le chiese e le associazioni o comunità religiose godono negli Stati membri in virtù del diritto nazionale». Si tratta, come è noto, di una disposizione introdotta dal Trattato di Lisbona e recettiva dell’articolo I‑52 del Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa – mai entrato in vigore –  la cui scrittura trae origine dalla dichiarazione sullo status delle chiese e delle organizzazioni non confessionali adottata nel 1997 (Dichiarazione n. 11 allegata all’atto finale della conferenza intergovernativa che ha adottato il Trattato di Amsterdam sottoscritto il 2 ottobre 1997 (GU 1997, C 340, pag. 133)).

L’art. 17, par. 1, del TFUE mira, in buona sostanza, a salvaguardare la sovranità degli Stati membri in tale materia nell’ottica della preservazione delle tradizioni giuridiche e culturali proprie di ciascun Paese e delle specificità nazionali in merito alla qualificazione giuridica delle chiese e delle associazioni o comunità religiose. In tal senso può, pertanto, evidenziarsi la stretta correlazione – in termini di specificazione – tra l’art. 17 del TFUE e l’art. 4, par. 2, del TUE che, su di un piano generale, sancisce il rispetto dell’identità nazionale degli Stati membri insita nelle loro strutture fondamentali, politiche e costituzionali. E tuttavia, risulta chiaro dalla sentenza in commento che il rispetto di tale porzione della identità nazionale degli Stati membri non vale a esentare questi ultimi dal rispetto delle norme sulla concorrenza sulle quali si basa il funzionamento del mercato comune laddove il più generale declino (o almeno il ridimensionamento) del principio della cd. fiscalità di vantaggio a favore delle confessioni religiose dotate di concordato o intese risulta confermato.

Peraltro, in linea con le conclusioni dell’Avv. Generale Kokott, i giudici di Lussemburgo procedono non soltanto a fornire indicazioni precise circa la qualificabilità delle esenzioni come aiuti di Stato, ma anche ad indicare le conseguenze di una siffatta qualificazione. Sotto questo aspetto, va sottolineato che, in virtù dell’art. 108 del TFUE, si pone una distinzione tra aiuti esistenti ed aiuti nuovi. Ai sensi del par. 3 della norma citata, agli aiuti nuovi non è possibile dare esecuzione prima della loro approvazione da parte della Commissione, laddove gli aiuti esistenti sono oggetto soltanto di un esame permanente da parte della Commissione, come previsto dal par. 1 del medesimo articolo. In altri termini, gli aiuti nuovi sono sottoposti ad un obbligo di comunicazione e un divieto di esecuzione, e in caso di violazione la concessione dell’aiuto deve essere considerata illegale, mentre i regimi di aiuto esistenti possono essere regolarmente erogati fintantoché la Commissione non abbia constatato la loro incompatibilità con il Trattato. In considerazione di siffatta distinzione, seppure l’accordo tra la Santa Sede e la Spagna risalga al 1979 – ossia ad un’epoca precedente alla stessa adesione della seconda alle Comunità europee – la Corte non esita a qualificare l’aiuto come “nuovo”, essendo l’ICIO stata introdotta nell’ordinamento giuridico spagnolo soltanto dopo tale adesione derivando l’esenzione fiscale in discussione nel procedimento principale da un decreto del 2001.

In conclusione, la recente sentenza della Corte di giustizia esplicita chiaramente, con riferimento agli enti ecclesiastici, un principio già evincibile dalla prassi della Commissione e dalla recente giurisprudenza europea. Si vuole fare, in particolare riferimento alle vicende che hanno interessato l’ordinamento italiano. In specie, è stato l’art. 7 comma 1, lett. i), del D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 504 nel testo in vigore dopo le modifiche apportate dall’art. 39 del D.L. n. 223/06 – che prevedeva l’esenzione dall’ICI (imposta comunale sugli immobili) per gli immobili utilizzati da alcune categorie di soggetti, tra cui gli enti ecclesiastici – a destare l’attenzione della Commissione europea che, nella decisione n. 2013/284/UE, ha ritenuto che l’esenzione dall’ICI concessa agli enti non commerciali che svolgevano, negli immobili interessati, attività economiche, costituiva un aiuto di Stato, come tale vietato dal diritto dell’Unione europea. Nelle more del procedimento, il legislatore italiano si è mostrato sensibilizzato rispetto alle istanze europee, attesa l’introduzione dell’art. 91-bis del D.L. 24 gennaio 2012, n. 1, in sede di conversione dalla L. 24 marzo 2012, n. 27, che ha inserito un ulteriore elemento tra i requisiti che devono sussistere affinché si possa ottenere il riconoscimento dell’esenzione, che consiste nello svolgimento delle attività “con modalità non commerciali”.

La Commissione europea ha aperto, dunque, la strada all’applicazione del divieto di aiuti di Stato anche nei confronti degli enti ecclesiastici, nella misura in cui svolgano una o più attività di tipo economico, seppure attraverso una decisione che, nel caso concreto, risulta notevolmente mitigata dalla rilevata impossibilità di dare esecuzione all’obbligo di recupero (atteso che le banche dati fiscali e catastali non consentivano di identificare né il tipo di attività svolta negli immobili di proprietà degli enti ecclesiastici, né di calcolare in modo oggettivo l’imposta da recuperare). Impossibilità “assoluta” di recupero sulla quale si sono pronunciate in maniera conforme due sentenze “gemelle” del Tribunale del 15 settembre 2016 (relative alle cause T-219/13 e T-220/13) e che attende di essere smentita o confermata dalla Corte di giustizia innanzi alla quale pende, specie in relazione alla seconda pronuncia, il giudizio a seguito di impugnazione.


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