Lo Stato di diritto e la violazione grave degli obblighi posti dal Trattato UE

1. I valori comuni e il c.d. caso Haider

Le varie forme o manifestazioni di dissenso degli Stati membri rispetto agli obblighi posti dal diritto dell’Unione europea, in un clima favorito, per così dire, dalla volontà di recesso dall’Unione espressa dal Regno Unito (c.d. Brexit), hanno portato l’attenzione sulle possibili sanzioni o misure applicabili agli Stati quando il dissenso sia così grave e rilevante da pregiudicare gli obiettivi dell’Unione, le sue fondamenta e valori (il recesso è stato formalmente espresso a mezzo della lettera del Primo ministro del Regno Unito al Presidente del Consiglio europeo, ex art. 50 TUE. Sul recesso, in generale, v. R. Adam, A. Tizzano, p. 45 ss.).

L’attenzione non riguarda il ben noto procedimento di infrazione disciplinato dagli artt. 258 ss. TFUE, certamente azionabile da parte della Commissione quando ne ricorrano i presupposti giuridici, quanto il procedimento, il cui carattere è essenzialmente politico, previsto dall’art. 7 TUE in caso di violazione grave dei valori consacrati nell’art. 2 TUE: precisamente «del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze». Si tratta di valori «comuni agli Stati membri», propri di una società caratterizzata «dal pluralismo, dalla non discriminazione, dalla tolleranza, dalla giustizia, dalla solidarietà e dalla parità fra uomini e donne».

Tali valori possono venire meno o affievolirsi al punto tale da mettere in dubbio l’esistenza degli elementi fondanti dell’Unione, che assumono rilevanza sia all’esterno dell’Unione, quando si tratti di valutare la domanda di adesione di uno Stato terzo (che, ai sensi dell’art. 49 TUE deve non solo rispettare tali valori, ma impegnarsi a promuoverli); sia all’interno, quando si tratti di valutare, per l’appunto, la conformità, il rispetto, la fedeltà degli Stati agli ideali e ai principi posti a base dell’Unione (sui valori dell’Unione v. L. Fumagalli, p. 11 ss; M. Pedrazzi, p. 6 ss; U. Villani; B. Nascimbene p.631; per alcuni rilievi sulla diversa procedura, e ratio, dell’art. 7 TUE e dell’art. 258 ss. TFUE v. E. Falletti, V. Piccone p. 569 ss.; D. Kochenov, p. 153 ss.).

L’art. 7 prevede un sistema di accertamento e sanzionatorio che, quando fu introdotto dal Trattato di Amsterdam nel 1997 (art. F.1, rinumerato come art. 7 nella versione consolidata) non prevedeva il meccanismo di allarme preventivo rispetto a quello di accertamento, constatazione e sanzione nei confronti dello Stato che viola i valori dell’art. 2. Mancava la previsione di una fase preventiva finalizzata alla constatazione dell’esistenza di un “rischio” evidente di violazione. La prassi, e precisamente il c.d. caso Haider, leader austriaco del partito di estrema destra, ultranazionalista e xenofobo FPÖ (Partito austriaco delle libertà), suggerì, in occasione del Trattato di Nizza, nel 2001, l’adozione di una procedura preventiva (art. 7, par. 1). Le preoccupazioni dell’epoca erano, essenzialmente, di carattere politico, non diversamente da quelle odierne. Temendo che tale Partito potesse partecipare alla formazione del nuovo governo di un Paese membro, il presidente (portoghese) di turno del Consiglio adottava, il 31.1.2000, una dichiarazione a nome di quattordici Stati membri dell’Unione in cui indicava, fra l’altro, le misure che sarebbero state prese qualora si fosse formato un governo di coalizione con quel Partito. Alle forti preoccupazioni del Consiglio si aggiungevano quelle, ancor più decise, del PE che temeva un contagio del nazionalismo dell’estrema destra in altri Paesi membri e auspicava, quindi, il ricorso al procedimento sanzionatorio dell’art. 7, fino ad adottare, in particolare, la sospensione dell’Austria dall’esercizio di diritti derivanti dal Trattato.

Un comitato di saggi venne incaricato dal Consiglio di redigere un rapporto sulla situazione austriaca. Le conclusioni del rapporto, pur non condannando il governo austriaco, raccomandavano l’istituzionalizzazione di una procedura d’allarme preventiva, poi recepita nel Trattato di Nizza, ma modificata nel Trattato di Lisbona, nel 2007, che eliminava il rapporto dei saggi o personalità indipendenti sulla situazione dello Stato membro (per alcuni rilievi sul c.d. caso Haider v. G. M. Ruotolo, p. 1031 ss.;  W. Sadurski).

 2. La procedura prevista dall’art. 7 TUE

 2.1. La fase preventiva e la prassi

a) Il Trattato di Lisbona conferma la necessità, di natura strettamente politica, di una fase preventiva, che caratterizza, d’altra parte, la norma nel suo complesso e ratio, eliminando la consultazione di esperti che, in mancanza di precise indicazioni (il Trattato prevedeva, genericamente, la consultazione di “personalità indipendenti” e la presentazione di un rapporto “entro un termine ragionevole”) poteva dare adito a incertezze.

L’avvio della procedura è su iniziativa degli Stati membri (un terzo) o della Commissione o del Parlamento, che formulano una proposta che deve essere motivata. Il Consiglio (a maggioranza dei quattro quinti dei membri) può accogliere la proposta e adottare la constatazione, dopo aver ascoltato lo Stato membro imputato di violazione grave e dopo avergli rivolto (se del caso) delle raccomandazioni, a condizione che il PE approvi la constatazione (ai sensi dell’art. 354 TFUE, delibera a maggioranza dei voti espressi, che rappresenta la maggioranza dei membri che lo compongono). Il procedimento, in questa fase preventiva (ma anche in quella successiva di cui si dirà), denota prudenza e cautela, garantendo il rispetto del principio del contraddittorio nonché del controllo democratico da parte del PE. Il rischio di violazione deve essere “evidente”, e quindi qualificato; parimenti qualificata è la violazione, che deve essere “grave”.

Non necessariamente si perviene alla constatazione, poiché lo Stato potrebbe adeguarsi alle raccomandazioni che il Consiglio, sempre deliberando con la maggioranza dei quattro quinti, gli rivolge (“può rivolgergli”) dopo aver ricevuto, come si è detto, una proposta.

Le iniziative a favore di una modifica della legislazione nazionale, a maggior ragione se costituzionale, possono integrare il rischio in questione, che si trasforma in violazione grave e persistente, ai sensi del par. 2 dell’art. 7, qualora la legge nazionale venga approvata ed applicata (il controllo sulle violazioni “interne”, come si dirà oltre, non sempre è agevole). Nella prassi, la Commissione, prima di formulare una proposta di constatazione, può inviare richieste di chiarimento, anche al fine di meglio motivare la proposta. Lo Stato viene, insomma, avvertito e si comporterà di conseguenza. Il PE, nella prassi, manifesta una particolare severità nell’esigere il rispetto dei valori comuni, richiedendo un elevato standard di tutela di tali valori (per una esemplificazione di “rischi”, si vedano questa comunicazione della Commissione del 2003 e questa relazionedel Parlamento europeo dell’anno successivo).

b) La prassi è stata, per così dire, codificata in una successiva comunicazione della Commissione che prevede «[u]n nuovo quadro dell’UE per rafforzare lo Stato di diritto», ove vengono distinte ben tre fasi di dialogo con lo Stato, preventive al possibile avvio della procedura dell’art. 7. La prima consiste in una valutazione che può concludersi con l’adozione di un «parere sullo Stato di diritto», ove la Commissione manifesta le proprie preoccupazioni; la seconda in una «raccomandazione sullo Stato di diritto» qualora esistano prove oggettive di una minaccia sistemica e le autorità nazionali non abbiano preso provvedimenti; la terza in un’attività di controllo o follow-up circa il seguito dato alla raccomandazione (v. L. S. Rossi; R. Palladino; C. Curti Gialdino; M. Parodi;  D. Kochenov, L. Pech, p. 512 ss.; P. Mori p. 204 ss.; C. Closa, D. Kuchenov; A. von Bogdandy, M. Ioannidis p. 59 ss.; G. Di Federico, p.1 ss.; European Papers; G. Caggiano, p. 513 ss; R. Mastroianni, p. 605 ss.).

A questa iniziativa, contrastata dal Consiglio, in particolare dal suo Servizio giuridico che non riteneva sussistenti le competenze della Commissione al riguardo, mancando la base giuridica, sono seguite delle conclusioni del Consiglio e degli Stati membri riuniti in sede di Consiglio, del 16 dicembre 2014, sulla necessità di garantire il rispetto dello Stato di diritto (v. C. Curti Gialdino;O. Porchia), e, in epoca più recente, una risoluzione del PE che raccomanda alla Commissione l’istituzione di un meccanismo in materia di democrazia, Stato di diritto e diritti fondamentali. Viene raccomandata, precisamente, la conclusione di un accordo interistituzionale che comporta una valutazione e una relazione annuale sulla democrazia, lo Stato di diritto e i diritti fondamentali (DSD), con la collaborazione di un gruppo di esperti indipendenti. La Commissione, dopo che la relazione, con proposte di raccomandazione sul singolo Paese membro, viene discussa da PE e Consiglio, può avviare una procedura di “infrazione sistemica” ex art. 2 TUE e art. 258 TFUE, raggruppando diversi casi di infrazione. Se uno Stato non ottempera alla raccomandazione viene avviato un dialogo con lo Stato membro che può concludersi, alla luce della raccomandazione specifica per Paese, con una decisione motivata del PE, della Commissione e del Consiglio che constata o l’evidente rischio di violazione grave o l’esistenza di una violazione grave e persistente dei valori di cui all’art. 2, sussistendo motivi sufficienti per invocare l’art. 7, par. 1 o par. 2. La decisione è adottata in base al contenuto della relazione specifica per Paese che include la valutazione del gruppo di esperti, secondo cui esiste il rischio evidente o la violazione grave e persistente.

L’accordo interistituzionale incorpora e integra gli strumenti esistenti, prevedendo un “patto” fra istituzioni che (afferma la risoluzione, punto AL) lascia “impregiudicata” l’applicazione dell’art. 7, par. 1 e 2.

Le iniziative ricordate, come si dirà anche nel prosieguo, dimostrano non solo la cautela nel ricorso all’art. 7, ma la difficoltà che il ricorso a tale procedura incontra. E, infatti, non vi si è mai fatto ricorso.

A conferma della gravità, soprattutto in termini politici, dell’avvio della procedura, si osserva che, comunque, la decisione del Consiglio che «constata» l’esistenza del rischio può essere revocata poiché è adottata rebus sic stantibus. Il Consiglio, invero (par. 1, 2° comma), verifica «regolarmente», e quindi con continuità, «se i motivi che hanno condotto a tale constatazione» (con ciò sottolineando l’importanza delle motivazioni della proposta, poi accolta) «permangono validi». I requisiti posti a base del procedimento preventivo possono dunque venire meno, con la conseguenza che la decisione deve essere revocata.

 2.2. La fase accertativa e la fase sanzionatoria

Alla procedura preventiva può seguire quella accertativa (par. 2) e quella sanzionatoria (par. 3, quest’ultima modificabile o revocabile). L’accertativa è di competenza del Consiglio europeo, che si pronuncia all’unanimità, su proposta della Commissione o degli Stati membri (un terzo), previa approvazione del PE (con la maggioranza già indicata). Rispetto alla procedura preventiva, si accentua il carattere politico, essendo il Consiglio europeo a decidere (non già il Consiglio) all’unanimità (non già a maggioranza) e non riconoscendo al PE il potere di proposta, che tuttavia deve approvare la decisione. La gravità della procedura e l’innalzamento delle soglie previste per l’adozione rafforza, tuttavia, il principio del contraddittorio, poiché lo Stato non è semplicemente “ascoltato”, ma è legittimato a presentare «osservazioni». La violazione grave, in questa seconda fase di accertamento, viene qualificata «persistente» (da intendersi, secondo la risoluzione del PE prima ricordata, nel senso che aumenta o rimane invariata almeno nell’arco di due anni).

Le sanzioni successive all’accertamento non sono una conseguenza necessaria: il Consiglio (a maggioranza qualificata) «può» (art. 7, par. 3) adottarle. Le sanzioni consistono nella sospensione di «alcuni» dei diritti propri dello Stato, derivanti dall’applicazione dei Trattati, compresi i diritti di voto del rappresentante del governo dello Stato in questione, in seno al Consiglio. Le sanzioni, rectius (par. 4) le «misure» sono modificabili o revocabili, considerati i «cambiamenti nella situazione che ha portato alla loro imposizione». Anche in tal caso vale il principio rebus sic stantibus (sulle procedure di voto l’art. 7, par. 5, rinvia all’art. 354 TFUE; in particolare, lo Stato membro in questione non partecipa al voto e non se ne tiene conto nel calcolo del terzo o dei quattro quinti).

Quali siano i diritti sospendibili, la norma non lo precisa, lasciando qualche incertezza, salvo prevedere che può trattarsi anche dei diritti di voto, e che comunque il Consiglio deve tener conto dei diritti e degli obblighi dei terzi, persone fisiche e giuridiche: non se ne precisa la cittadinanza, potendo dunque appartenere anche a Paesi terzi.

Gli interessi dei soggetti diversi dagli Stati non debbono, dunque, essere pregiudicati dalla sanzione applicata allo Stato. Un limite, questo, che comporta un bilanciamento di interessi e una probabile attenuazione dell’efficacia delle sanzioni.

Sembra utile ricordare che la procedura preventiva, accertativa, sanzionatoria trova un precedente, a livello europeo, nel Consiglio d’Europa, ove tuttavia, quale sanzione finale, è prevista l’espulsione.

Nel Trattato UE non solo non vi è espulsione dello Stato responsabile delle ricordate violazioni, ma neppure è prevista la sospensione totale, poiché questa riguarda, come si è detto, solo alcuni diritti e lo Stato (precisa l’art. 7, par. 3) «continua in ogni caso ad essere vincolato dagli obblighi che gli derivano dai Trattati». Salva la facoltà, prevista dall’art. 50, di recedere dall’Unione (l’art. 8 dello Statuto del Consiglio d’Europa, che così dispone, dopo aver precisato all’art. 3 che ogni Stato membro «riconosce il principio della preminenza del Diritto e il principio secondo il quale ogni persona soggetta alla giurisdizione deve godere dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Esso si obbliga a collaborare sinceramente e operosamente al perseguimento dello scopo definito»: lo Stato che contravviene all’art. 3 «può essere sospeso dal diritto di rappresentanza e invitato dal Comitato dei ministri a recedere» dal Consiglio ex art. 7, e il Comitato può decidere che lo Stato «il quale non ottemperi a tale invito, cessi d’appartenere al Consiglio dal giorno stabilito dal Comitato stesso»).

 3. Le lacune del procedimento. I limiti. Il controllo giurisdizionale

Prima di esaminare quali sono, oggi, le situazioni che meritano maggiore attenzione sotto il profilo della conformità ai valori comuni e al possibile avvio delle procedure ex art. 7 (ci si riferisce ai casi dell’Ungheria e della Polonia, ma potrebbe trattarsi anche di quei Paesi, come la Grecia, che non garantiscono il diritto d’asilo e non sono classificabili come Paesi di origine sicuri), si svolgono alcuni rilievi sulle lacune che il procedimento presenta.

Il primo rilievo riguarda il controllo ovvero il monitoraggio del procedimento. Se le istituzioni dell’Unione possono facilmente compierlo quando le violazioni dei valori riguardano l’applicazione del diritto UE, più difficilmente possono svolgere questo compito quando le violazioni riguardano l’applicazione di norme interne ovvero l’ambito di competenza interna, in particolare costituzionale, dello Stato. La gravità delle violazioni “interne”, non diversamente da quelle del diritto UE, può essere tale da pregiudicare quella fiducia reciproca fra gli Stati che è valore fondante dell’Unione. La comunicazione della Commissione, già ricordata, ritiene che esistono «situazioni preoccupanti […] che comunque rappresentano una minaccia sistemica allo Stato di diritto».

Il contributo di organizzazioni non governative per la tutela dei diritti della persona o di organi propri di organizzazioni internazionali, come la Commissione di Venezia (Commissione europea per la democrazia attraverso il diritto), che è organo consultivo del Consiglio d’Europa sulle questioni costituzionali,  ma anche le denunce o segnalazioni dei cittadini (dell’Unione o non) alla Commissione UE o, attraverso petizioni, al PE (artt. 24, 227 TFUE; art. 44 Carta) contribuiscono al monitoraggio da parte della Commissione. Un ruolo importante, anche se non specifico rispetto all’applicazione dell’art. 7, è svolto dall’Agenzia per i diritti fondamentali, che ha, fra gli altri, il compito di raccogliere, registrare, analizzare e diffondere informazioni e dati rilevanti, attendibili e comparabili (sull’Agenzia per i diritti fondamentali v. il reg. 168/2007, spec. l’art. 4, par. 1, lett. a).

Quanto al controllo giurisdizionale, esso è espressamente limitato, a conferma del carattere politico del procedimento sotto due profili (art. 269 TFUE): a) il controllo ha ad oggetto le sole prescrizioni procedurali previste dall’art. 7 per quanto riguarda la legittimità degli atti adottati dal Consiglio (art. 7, par. 1) e dal Consiglio europeo (art. 7, par. 2); b) può essere svolto solo su domanda «dello Stato membro oggetto di una constatazione» del Consiglio o del Consiglio europeo.

Ragioni di opportunità politica hanno dettato questi limiti che escludono un esame del merito, ben diversamente da quanto era previsto dal progetto di Trattato UE del 14.2.1984 che riconosceva addirittura alla Corte di giustizia la competenza a constatare la violazione grave e persistente (art. 44). Più ampia era, d’altra parte, la competenza a giudicare prevista prima delle modifiche introdotte dal Trattato di Lisbona. L’art. 47 TUE prevedeva che le disposizioni del Trattato UE non potessero pregiudicare gli altri Trattati, e pertanto nel Trattato CE era stata introdotta una norma specifica, l’art. 309, sugli effetti delle delibere ex art. 7 Trattato UE nel Trattato CE. La sospensione dei diritti di voto anche per il Trattato CE era automatica (art. 309, par. 1), ma la comminazione di sanzioni per altri («alcuni dei») diritti previsti dal Trattato CE doveva essere espressamente deliberata. La Corte era dunque competente a conoscere della violazione delle questioni procedurali (così disponeva l’art. 46, lett. e Trattato UE), ma non era prevista una preclusione a giudicare sull’applicazione dell’art. 309, quindi sulla comminazione di sanzioni e sulla tutela dei diritti delle persone fisiche e giuridiche. La Corte, d’altra parte, avrebbe potuto controllare, ex art. 47, l’esistenza (o non) del pregiudizio degli atti adottati in virtù del Trattato UE rispetto al Trattato CE.

Si trattava di una competenza più estesa, riguardante il merito e gli effetti delle sanzioni, che probabilmente sussiste anche dopo le modifiche introdotte dal Trattato di Lisbona se si ritiene che la limitazione prevista dall’art. 269 TFUE riguardi la constatazione di cui al par.1 e al par. 2, non anche le sanzioni di cui al par. 3. La sospensione di alcuni diritti, peraltro decisa dal Consiglio con una maggioranza diversa da quella prevista per la constatazione, non è menzionata nell’art. 269 TFUE.

La sospensione dei diritti, come pure la modifica e la revoca, potrebbe dunque essere impugnabile, come qualunque altro atto ai sensi dell’art. 263 TFUE, e si potrebbe estendere la legittimazione attiva a uno Stato membro diverso da quello oggetto della constatazione (l’art. 269, infatti, riconosce la legittimazione «unicamente» a detto Stato membro). Anche lo Stato che non appartiene alla maggioranza qualificata che ha deciso la sospensione potrebbe dunque impugnare, secondo questa interpretazione, e parimenti sarebbero legittimati a impugnare persone fisiche e giuridiche dei cui interessi il Consiglio non abbia tenuto conto.

Mancando un qualunque precedente di applicazione dell’art. 269, è difficile dire quale sia l’interpretazione che potrebbe fornire la Corte sulla possibile competenza estesa a questioni che non siano strettamente procedurali. Se mai si presentasse un’occasione a decidere ai sensi di tale norma, che prevede, peraltro, termini assai brevi (un mese dalla formulazione della domanda da parte dello Stato, che deve proporla entro un mese dalla constatazione), la Corte sarà nelle condizioni di precisare che cosa si intende per “prescrizioni di carattere procedurale” che limitano la sua competenza (la Corte, ex art. 206 regolamento di procedura, si pronuncia dopo aver sentito l’avvocato generale e, di regola, senza udienza. Dispone l’art. 206 che la domanda alla Corte è corredata «se del caso delle osservazioni e raccomandazioni formulate in osservanza dell’art. 7 TUE»; essa è notificata al Consiglio europeo o al Consiglio, che ha dieci giorni (non prorogabili) per presentare osservazioni scritte, ed è comunicata «anche agli Stati membri diversi dallo Stato interessato, nonché al Parlamento europeo e alla Commissione europea». Ai predetti Stati ed istituzioni, oltre che allo Stato membro interessato, devono essere notificate le predette osservazioni. La Corte, su richiesta dello Stato membro interessato, del Consiglio europeo o del Consiglio, nonché d’ufficio, «può decidere che il procedimento dinanzi ad essa comporti anche un’udienza di discussione»).

 4. Gli effetti della procedura

 Anche in mancanza di una prassi applicativa dell’art. 7, è possibile formulare alcuni rilievi sui possibili effetti giuridici, non politici, del semplice avvio della procedura, ex art. 7, par. 1 nell’ambito della procedura di asilo, e della constatazione, ex art. 7, par. 2, nell’ambito della procedura del mandato d’arresto europeo.

a)   Per quanto riguarda il primo profilo, il Protocollo (n. 24) sull’asilo per i cittadini degli Stati membri dell’Unione europea prevede che lo Stato membro nei cui confronti sia stata anche soltanto avviata la procedura ex art. 7, par. 1, e a maggior ragione se sia stata adottata la constatazione del rischio evidente di violazione grave o della violazione grave e persistente (art. 7, par. 1 e par. 2) perde la qualifica di «paese d’origine sicuro» (se è stata avviata, la perde fino a quando il Consiglio, o il Consiglio europeo, non prende una decisione). Il cittadino che abbia presentato la domanda di asilo è dunque legittimato a presentarla e a farla esaminare in un altro Stato membro che diviene, conseguentemente, competente (il preambolo del Protocollo, ove si richiamano gli artt. 2, 6 e 49 TUE quanto alla rilevanza dei valori comuni e alla tutela dei diritti fondamentali).

La Corte di giustizia si è pronunciata in proposito (v. cause riunite C-411 e 493/10, N.S. e a.; causa C-394/12, Abdullahi), richiamando la giurisprudenza della Corte EDU (v. causa M.S.S c. Belgio e Grecia), con particolare riguardo alla Grecia: il diritto UE osta all’applicazione di una presunzione assoluta circa il rispetto dei diritti fondamentali da parte di uno Stato membro. Il sistema comune di asilo è fondato sulla reciproca fiducia e sull’osservanza, almeno presunta, da parte di tutti gli Stati, dei diritti fondamentali, ma la fiducia viene meno se tali diritti non vengono rispettati.

b) Per quanto riguarda il secondo profilo si osserva che la procedura del mandato d’arresto europeo (MAE) può essere sospesa in caso di constatazione di grave e persistente violazione da parte dello Stato dei principi sanciti dal TUE (prima art.6, par. 1, poi art. 2). Il meccanismo del MAE è infatti basato “su un elevato livello di fiducia tra gli Stati membri” (considerando n. 10 della decisione quadro 2002/584/GAI) e se questa viene meno, come si è già detto per quanto riguarda la protezione internazionale e l’asilo, viene meno un presupposto del procedimento stesso (sul presupposto della reciproca fiducia v. cause riunite C-404/15 e C-659/15 PPU, Aranyosi e Căldăraru; causa C-554/14, Ognyanov; N. Lazzerini; M. Guiresse. Per alcuni rilievi sulla reciproca fiducia nel contesto della cooperazione giudiziaria in materia penale v. C. Amalfitano; B. Nascimbene p. 287 ss.; Convegno di Utrecht; European Papers, Vol. 1  – Vol. 2).

 5. Il caso dell’Ungheria e della Polonia

 a) La situazione ungherese desta preoccupazioni quanto alla tutela di principi e diritti fondamentali. Successivamente alle elezioni del 2010 è stata avviata una serie di riforme costituzionali (nell’aprile 2011 fu approvata la nuova Costituzione) e legislative che riguardano libertà fondamentali quali la libertà di stampa, la tutela delle minoranze religiose, l’indipendenza della magistratura e delle autorità di controllo (per rilievi, di carattere generale, sulla situazione in Ungheria e in Polonia v. G. Eckiert). La Commissione di Venezia, anche in collaborazione con le istituzioni europee, ha esercitato ed esercita un’intensa attività di controllo e monitoraggio; il PE ha approvato varie risoluzioni, esprimendo anche critiche circa l’effettività dello strumento previsto dall’art. 7, e prospettando la necessità di un meccanismo diverso (sulla risoluzione adottata in epoca recente, si è detto in precedenza).

La Commissione europea ha peraltro intrapreso varie procedure di infrazione ritenendo lese, tra l’altro, l’indipendenza della Banca centrale, della magistratura e del garante della protezione dei dati. Due sentenze della Corte di giustizia hanno accertato la violazione del diritto UE. In un caso la Corte ha ritenuto violata la direttiva 2000/78 che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, per quanto riguarda le norme nazionali che imponevano la cessazione dell’attività professionale di giudici, procuratori e notai ad un’età discriminatoria, perché diversa da quella dei dipendenti del pubblico impiego. In un altro caso la Corte ha ritenuto violata la direttiva 95/46 sulla tutela delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati: le norme nazionali avevano fatto cessare anticipatamente, senza giustificazione, il mandato dell’autorità di controllo per la protezione dei dati personali, compromettendone l’indipendenza (v. K.L. Scheppele, p. 105 ss. Su procedure in corso contro l’Ungheria v. comunicati stampa della Commissione IP/17/1982 e IP/17/1952).

L’atteggiamento in materia di immigrazione e asilo fa ritenere l’Ungheria un Paese non sicuro per i richiedenti la protezione internazionale, non essendo riconosciute le garanzie fondamentali che dovrebbero, invece, essere comuni ai Paesi membri. In questi termini si è pronunciato il Consiglio di Stato (sentenza del Consiglio di Stato, III, 27.9.2016, n. 4004), che ha evocato anche la costruzione di muri anti-immigrati, a conferma di una politica avversa all’immigrazione. L’Ungheria, d’altra parte, ha impugnato avanti alla Corte di giustizia (cause riunite C-643/15 e C-647/15, Repubblica slovacca e Ungheria c. Consiglio dell’Unione europea) la decisione del Consiglio sul ricollocamento obbligatorio di persone richiedenti la protezione internazionale, ed ha indetto un referendum popolare, tenutosi il 2 ottobre 2016, che riguardava il ricollocamento ma, in realtà e più in generale, la politica anti-immigratoria del Paese tesa a proteggere la popolazione e gli interessi nazionali (v. F. Fabbrini). Come noto, la Corte di giustizia ha rigettato tale ricorso (v. M. Di Filippo), ritenendo giustificato il meccanismo provvisorio di ricollocamento obbligatorio di richiedenti asilo, poiché contribuisce realmente e in modo proporzionato a far sì che la Grecia e l’Italia possano far fronte alle conseguenze della crisi migratoria del 2015. La Commissione europea, peraltro, ha avviato una procedura di infrazione contro Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca, per la violazione delle decisioni del Consiglio del 22 e del 14.9.2015 (v.  il comunicato IP/17/1607).

b) Il caso della Polonia ha suscitato, e suscita preoccupazioni circa il rispetto dei valori fondamentali dell’Unione, in particolare del principio dello Stato di diritto. Violerebbero tale principio, secondo la Commissione, le norme sulla composizione e nomina dei giudici costituzionali, la riforma del Tribunale costituzionale, le modalità di applicazione delle sue sentenze. Il contrasto fra Tribunale, da un lato, e Camera bassa del Parlamento e Presidente della Repubblica (dopo le elezioni del 2015), dall’altro lato, ha indotto la Commissione a utilizzare, per la prima volta, lo strumento (già ricordato) del «nuovo quadro dell’UE per rafforzare lo Stato di diritto», formulando un parere e una raccomandazione, cui sono seguite altre due raccomandazioni (del 21.12.2016 e del 26.7.2017) sullo Stato di diritto, che precedono l’eventuale ricorso all’art. 7. La Commissione ha chiesto, in particolare, di non adottare alcuna misura finalizzata a destituire o costringere alle dimissioni i giudici della Corte di cassazione (sulla procedura in atto, compreso l’avvio di una procedura di infrazione relativa alla legge di riforma dell’organizzazione dei tribunali, v.  comunicati IP/17/2161 e IP/17/2205). Le misure riguardanti il Tribunale costituzionale, in particolare la selezione e nomina dei giudici, sono state oggetto di esame e censura da parte della Commissione di Venezia; preoccupazione hanno pure destato le norme sui media pubblici, che perdono autonomia dato che la nomina e revoca degli amministratori della radiotelevisione dello Stato e dell’agenzia stampa pubblica (PAP) diviene di competenza del Ministro del Tesoro (sulle iniziative della Commissione di Venezia v. Avis sur les amendements à la loie Avis sur loi relative au Tribunal constitutionnel; Liste des critères de l’Etat de droit, Etude. Sulla situazione in Polonia v. raccomandazione;G. Di Federico; P.Mori; A. Angeli; E. Cimiotta; Labayle; C. Curti Gialdino)

Verrebbero, insomma, messe in pericolo libertà e principi fondamentali, quali l’autonomia e l’indipendenza dei giudici, la libertà di informazione.

Il ricorso all’art. 7 sembra proprio il mezzo estremo cui ricorrere, dopo aver utilizzato, senza successo, il nuovo quadro. Il dialogo, in senso ampio (e, per così dire, a tutti i costi) con lo Stato potrebbe fallire e, se non sussistono gli estremi per avviare una procedura di infrazione, altro non resta che ricorrere a quella che l’allora Presidente Barroso, con espressione suggestiva, ha chiamato l“opzione nucleare” dell’art. 7.

 


facebooktwittergoogle_plusmailfacebooktwittergoogle_plusmail