L’EUROPA DEI DIRITTI SOCIALI NON TOLLERA LA PRECARIZZAZIONE NEL SETTORE SCOLASTICO ITALIANO: ALCUNE RIFLESSIONI SULLA SENTENZA MASCOLO E SUI SUOI RIFLESSI SUL PIANO NAZIONALE
Con la sentenza Mascolo e altri (cause riunite C-22/13, C-418/13, C-61/13, C-62/13, C-63/13) del 26 novembre 2014, la Corte di giustizia è tornata ad affrontare il tema quanto mai attuale della precarizzazione del lavoro dipendente, pronunciandosi sul ricorso abusivo di contratti a tempo determinato da parte del datore pubblico italiano, questa volta nel settore della scuola (v. infra).
La sentenza trae origine dai rinvii pregiudiziali del Tribunale di Napoli e della Corte costituzionale italiana vertenti sulla compatibilità con la clausola 5 dell’accordo quadro allegato alla direttiva 1999/70/CE del Consiglio relativa all’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato, della legislazione nazionale applicabile al personale (docente e ATA) della scuola.
La normativa rilevante
Per comprendere appieno la pronuncia in commento e le sue implicazioni nell’ordinamento interno, è opportuno un breve excursus sulla normativa (dell’Unione e nazionale) rilevante.
Come è noto, la clausola 5 del suddetto accordo quadro richiede agli Stati membri l’adozione di misure atte a prevenire e sanzionare gli abusi derivanti dall’utilizzo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato. Viene peraltro lasciata agli Stati la possibilità di tener conto delle esigenze di settori e/o categorie specifici di lavoratori e la facoltà di scelta tra l’indicare delle ragioni obiettive che giustifichino il rinnovo dei contratti ovvero determinare la durata massima totale dei contratti o, ancora, il numero dei loro rinnovi. La direttiva 1999/70, e con essa la clausola oggetto di attenzione, è stata attuata in Italia dal d.lgs. n. 368/2001, che ha fissato all’art. 5, comma 4 bis, nel periodo massimo di trentasei mesi, indipendentemente dai periodi di interruzione che intercorrono tra un contratto e l’altro, il tempo nel quale un lavoratore può essere impiegato con successivi contratti a termine per lo svolgimento di mansioni equivalenti. Superata la soglia dei 36 mesi, il rapporto di lavoro sarà considerato a tempo indeterminato. Tale disciplina, in linea generale, si applica anche alla pubblica amministrazione, sebbene quest’ultima possa solo essere chiamata solo al risarcimento del danno e non anche alla conversione del contratto a tempo determinato in contratto a tempo indeterminato, così come prescritto dall’art. 36, comma 5, del d.lgs. n. 165/2001, modificato dalla legge n. 102/2009. È il d.lgs. stesso, tuttavia, all’art. 10, comma 4 bis, introdotto con il d.l. n. 70/2011, ad escludere la propria applicazione con riguardo al reclutamento del personale scolastico per il conferimento delle supplenze, data la necessità di garantire la costante erogazione del servizio scolastico anche in caso di assenza temporanea del personale docente ed ATA con rapporto di lavoro a tempo indeterminato ed anche determinato.
Questi rapporti restano pertanto regolati dalla legge n. 124/1999, secondo cui l’assunzione di personale nelle scuole statali può essere a tempo indeterminato, tramite l’immissione in ruolo, o a tempo determinato, finalizzato allo svolgimento di supplenze. L’immissione in ruolo, ai sensi del d.lgs. n. 297/1994, avviene secondo il cosiddetto doppio canale, ossia, per la metà dei posti vacanti per anno scolastico, mediante concorsi per titoli ed esami e, per l’altra metà, attingendo alle graduatorie permanenti, nelle quali figurano i docenti che hanno vinto un concorso in passato, senza tuttavia ottenere un posto di ruolo, e quelli che hanno seguito corsi di abilitazione tenuti dalle scuole di specializzazione per l’insegnamento. Il ricorso alle supplenze avviene attingendo alle medesime graduatorie; ogni docente, effettuando supplenze, ottiene un avanzamento in graduatoria. Il decreto n. 131/2007 distingue tre tipi di supplenze: annuali, su posti vacanti e disponibili in quanto privi di titolare; temporanee fino al termine delle attività didattiche, su posti non vacanti ma disponibili; temporanee per ogni altra necessità, ossia supplenze brevi. La normativa di settore non indica né una durata massima dei contratti di lavoro a tempo determinato, né il numero massimo di rinnovi possibili.
I fatti di causa e il quesito pregiudiziale
La sig.ra Mascolo ed altre colleghe, ritenendo illegittimi i contratti di lavoro a tempo determinato stipulati in successione per periodi compresi, a seconda dei casi, tra cinque e nove anni scolastici, mediante cui erano state temporaneamente assunte come personale scolastico, adivano il Tribunale di Napoli, chiedendo, in via principale, la riqualificazione di tali contratti in rapporti di lavoro a tempo indeterminato e, pertanto, la loro immissione in ruolo, nonché il pagamento degli stipendi corrispondenti ai periodi di interruzione tra la scadenza di un contratto e l’entrata in vigore di quello successivo e, in subordine, il risarcimento del danno subito.
Domande sostanzialmente identiche venivano proposte da diversi ricorrenti (Napolitano e altri) dinnanzi ai Tribunali di Roma e di Lamezia Terme.
Il Tribunale di Napoli, constatando che la normativa nazionale non contemplava alcuna misura di prevenzione tra quelle previste dalla clausola 5, né alcuna misura sanzionatoria in caso di abuso, sollevava un quesito pregiudiziale dinanzi alla Corte di giustizia.
Gli altri due giudici, rilevando anch’essi un’incompatibilità tra la legge n. 124/1999 e la clausola 5 dell’accordo quadro, ma ritenendo di non poter risolvere tale questione né attraverso un’interpretazione conforme, essendo la clausola 5 formulata in maniera non equivoca, né tramite la disapplicazione delle disposizioni nazionali, essendo tale clausola priva di effetto diretto, sottoponevano alla Consulta una questione di legittimità costituzionale relativa all’art. 4, commi 1 e 11, della legge n. 124/1999 per incompatibilità con l’articolo 117 Cost.. Il giudice delle leggi rilevava che la normativa italiana applicabile al settore scolastico non prevede, con riferimento al personale assunto a tempo determinato, né la durata massima dei contratti, né il numero massimo dei loro rinnovi, ma, al tempo stesso, si domandava se tale normativa non potesse essere giustificata dalla ragione obiettiva di pronto adeguamento del servizio scolastico al variare dei fattori (demografici e organizzativi) che ne determinano di anno in anno l’offerta, adeguamento imposto dagli artt. 33 e 34 Cost., che richiedono l’adempimento dell’obbligo educativo in termini di effettiva erogazione del servizio scolastico. Tale giudice decideva pertanto di sottoporre alla Corte di giustizia, con ordinanza n. 207/2013, un rinvio pregiudiziale, per la prima volta in un giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale. Risale al 2008, invece, la prima ordinanza di rinvio (n. 103/2008) effettuata in un giudizio di legittimità costituzionale in via principale.
La Corte di giustizia è stata così chiamata a giudicare, come efficacemente sintetizzato dall’avvocato generale Szpunar nelle sue conclusioni, se una normativa nazionale che consenta la stipulazione di contratti di lavoro a tempo determinato con docenti e personale ATA che svolgono supplenze nel settore della scuola pubblica per diversi anni, senza che sia stato fissato un termine preciso per l’espletamento di concorsi di assunzione, preveda misure sufficienti a prevenire e sanzionare il ricorso abusivo a tali contratti ai sensi della clausola 5 dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato.
Il ragionamento della Corte
La Corte si sofferma innanzitutto sulla possibilità di applicare l’accordo quadro al personale assunto nel settore dell’insegnamento e, riaffermando quanto già statuito da ultimo nella sentenza Fiamingo e a. (cause riunite C-362/13, C-363/13 e C-407/13), rileva come, dall’esegesi delle clausole 2, punto 1, e 3, punto 1, discenda che l’accordo quadro si riferisce in generale «all’insieme dei lavoratori che forniscono prestazioni retribuite nell’ambito di un rapporto di lavoro a tempo determinato che li lega al loro datore di lavoro, purché questi siano vincolati da un contratto di lavoro ai sensi del diritto nazionale» (punto 67), senza operare distinzioni basate sulla natura pubblica o privata del datore di lavoro e a prescindere dalla qualificazione del contratto in diritto interno. A tal proposito prive di pregio si dimostrano le osservazioni del governo ellenico intervenuto in giudizio circa l’opportunità di ricondurre alle “esigenze specifiche” menzionate dalla clausola 5 il settore dell’insegnamento, in quanto volto a garantire il diritto allo studio ed indispensabile al buon funzionamento del sistema scolastico. Al contrario, infatti, proprio l’attribuzione di un certo margine di discrezionalità all’autorità nazionale, che potrà tenere conto di esigenze particolari relative ai settori di attività e/o alle categorie specifiche di lavoratori nel quadro dell’applicazione dell’accordo, dimostrerebbe l’applicabilità di quest’ultimo a siffatte situazioni.
Il giudice di Lussemburgo non manca poi di ricordare, sulla scia dei precedenti Adeneler (causa C-212/04) e sempre Fiamingo,come il beneficio della stabilità dell’impiego giochi un ruolo fondamentale nella tutela del lavoratore e costituisca la ratio giustificatrice della clausola anti-abusiva contenuta nell’accordo. Vista l’importanza della questione, la Corte, pur ribadendo che la scelta dei mezzi per conseguire l’obiettivo che si prefigge la clausola spetta all’ordinamento interno degli Stati membri e che, pertanto, solo il giudice nazionale potrà valutare se i presupposti per l’applicazione nonché l’effettiva attuazione delle disposizioni rilevanti del diritto interno costituiscano una misura adeguata per prevenire e, se del caso, punire l’uso abusivo di una successione di contratti a tempo determinato, non rinuncia al suo ruolo di guida nel fornire al giudice a quo una serie di precisazioni utili alla valutazione cui è chiamato.
A tal fine, la Corte in primo luogo analizza l’esistenza nel settore dell’insegnamento delle misure di prevenzione richieste dalla disciplina comunitaria, prendendo in considerazione l’ipotesi che il rinnovo dei contratti sia giustificato da “ragioni obiettive”. In linea con il precedente Kücük (causa C-586/10), la Corte ribadisce come le stesse debbano essere riferite a circostanze precise e concrete che contraddistinguono una determinata attività e, pertanto, tali da giustificare, in simile peculiare contesto, l’utilizzo di una successione di contratti di lavoro a tempo determinato. In altre parole, la normativa nazionale, per essere giustificata da ragioni obiettive, deve fissare criteri oggettivi e trasparenti al fine di verificare se il rinnovo dei contratti risponda effettivamente ad un’esigenza reale, sia idoneo a conseguire l’obiettivo perseguito e sia necessario a tal fine, e non limitarsi ad autorizzare, in modo generale e astratto, il ricorso ad una successione di contratti a tempo determinato.
Tanto premesso, secondo i giudici di Lussemburgo, una normativa come quella italiana non risulta in linea di principio contraria all’accordo quadro, giacché, come già affermato nel caso Kücük, la sostituzione temporanea di un altro dipendente al fine di soddisfare esigenze provvisorie del datore di lavoro in termini di personale può costituire una ragione obiettiva, tenendo anche conto del fatto che, nell’ambito di un’amministrazione che dispone di un organico significativo, come il settore dell’insegnamento, si manifesta un’esigenza di particolare flessibilità. È inevitabile, infatti – sottolinea la Corte – che si rendano spesso necessarie sostituzioni temporanee a causa, segnatamente, dell’indisponibilità di dipendenti che beneficiano, ad esempio, di congedi per malattia, per maternità o parentali. La bontà di siffatta ricostruzione, ad avviso della Corte, è avvalorata, del resto, dal perseguimento di un fine di politica sociale (tutelare la gravidanza e la maternità nonché consentire ai lavoratori di conciliare i loro obblighi professionali e familiari) e dalla correlazione al diritto fondamentale allo studio, garantito dagli artt. 33 e 34 della Costituzione italiana, che impongono allo Stato l’obbligo di organizzare il servizio scolastico in modo da garantire un adeguamento costante tra il numero di docenti e quello degli scolari.
Il giudice dell’Unione aggiunge, però, che anche l’applicazione concreta della ragione obiettiva deve essere conforme ai requisiti dell’accordo quadro. A tal proposito, ancora una volta esso riprende quanto già esplicitato nella causa Kücük, evidenziando che non può ammettersi il rinnovo di contratti o di rapporti di lavoro a tempo determinato per soddisfare esigenze che, di fatto, hanno un carattere non già provvisorio e temporaneo, ma, al contrario, permanente e durevole. Altrimenti, risulterebbe scalfita la premessa cardine dell’accordo quadro, vale a dire che i contratti di lavoro a tempo indeterminato devono costituire «la forma comune dei rapporti di lavoro» (punto 100).
Invero, nel caso della normativa italiana, risulta lampante anche agli occhi del giudice europeo lo scollamento tra il dato normativo e quello della realtà: la normativa nazionale che consente il rinnovo di contratti di lavoro a tempo determinato per coprire, tramite supplenze annuali, posti vacanti e disponibili in attesa dell’espletamento delle procedure concorsuali per l’assunzione di personale docente di ruolo, sebbene giustificata astrattamente da ragioni obiettive, porta, infatti, nella pratica ad un ricorso abusivo di una successione di contratti di lavoro a tempo determinato, proprio perché il termine di immissione in ruolo dei docenti nell’ambito di tale sistema è tanto variabile quanto incerto. Da un lato, infatti, la normativa in questione non fissa alcun termine preciso riguardo all’organizzazione delle procedure concorsuali, dal momento che queste ultime dipendono dalle disponibilità finanziarie dello Stato e dalla valutazione discrezionale dell’amministrazione (così, la Corte ricorda che non è stata organizzata nessuna procedura concorsuale tra il 2000 e il 2011). Dall’altro lato, l’immissione in ruolo per effetto dell’avanzamento dei docenti in graduatoria, essendo determinata dalla durata complessiva dei contratti di lavoro a tempo determinato nonché dai posti nel frattempo divenuti vacanti, dipenderebbe da circostanze aleatorie e imprevedibili. Si consentirebbe così, in assenza di un termine preciso per l’organizzazione e l’espletamento delle procedure concorsuali che pongono fine alla supplenza, di soddisfare esigenze permanenti e durevoli nelle scuole statali derivanti dalla mancanza strutturale di personale di ruolo. Una siffatta constatazione si dimostra del resto suffragata dai dati empirici, ossia che risultano impiegati con contratti a tempo determinato allo stato attuale circa il 30%, o addirittura, secondo il Tribunale di Napoli, il 61%, del personale ATA e, tra il 2006 e il 2011, il 13% e il 18% del personale docente delle scuole statali.
La Corte d’altra parte è ferma nel convincimento, affermato in maniera lapidaria, che lo Stato non possa far valere considerazioni di bilancio al fine di giustificare scelte di politica sociale (punto 110).
Si noti anche che la Corte, sulla scorta delle indicazioni della Commissione in udienza, chiede al giudice nazionale di verificare se, proprio per il fatto che il sistema preveda un doppio canale, tale per cui è possibile l’immissione in ruolo di docenti che abbiano unicamente frequentato corsi di abilitazione, resti realmente giustificabile il ricorso ad una successione di contratti a tempo determinato per la copertura di posti vacanti e disponibili motivato dall’attesa dell’espletamento delle procedure concorsuali.
Anche sul fronte della previsione di una sanzione ex post dell’utilizzo abusivo di una successione di contratti di lavoro a tempo determinato, a giudizio della Corte la normativa italiana nel settore dell’insegnamento, escludendo qualsivoglia diritto al risarcimento del danno subito, così come la trasformazione dei contratti di lavoro a tempo determinato successivi in contratto a tempo indeterminato, non si dimostra sufficientemente effettiva e dissuasiva al fine di garantire la piena efficacia delle norme adottate in applicazione dell’accordo quadro.
Alla luce di questo ragionamento, la Corte, pur lasciando, come di consueto, al giudice nazionale la verifica ultima, conclude per la sostanziale incompatibilità con il diritto dell’Unione della legislazione italiana, rilevando come “tale normativa, da un lato, non consente di definire criteri obiettivi e trasparenti al fine di verificare se il rinnovo di tali contratti risponda effettivamente ad un’esigenza reale, sia idoneo a conseguire l’obiettivo perseguito e sia necessario a tal fine, e, dall’altro, non prevede nessun’altra misura diretta a prevenire e a sanzionare il ricorso abusivo ad una successione di contratti di lavoro a tempo determinato”.
Alcuni spunti di riflessione
La sentenza in esame merita attenzione per svariate ragioni. Innanzitutto, essa costituisce un ulteriore tassello della ricca giurisprudenza comunitaria in materia di successione abusiva di contratti di lavoro a tempo determinato, che ha ad oggetto, tra l’altro, anche di recente, disposizioni italiane (cfr. le ordinanze Papalia e Affatato in materia di pubblico impiego,aventi ad oggetto, entrambe, la compatibilità con l’accordo quadro dell’art. 36 c. 5 del d.lgs. n. 165/2001 e le sue condizioni di applicazione). La pronuncia si inserisce nel solco di un percorso già tracciato, laddove riafferma l’incompatibilità con l’ordinamento dell’Unione di quelle disposizioni nazionali che permettono la successione di rapporti temporanei per soddisfare talune esigenze dichiarate provvisorie, ma che, in concreto, si dimostrano permanenti e durevoli nel tempo (v. la citata sentenza Adeneler; la sentenza Angelidaki, causa C-378/07; l’ordinanza Vassilakis, causa C-346/07). La Corte, per rispondere alla questione che le è stata sottoposta, in linea con le conclusioni dell’avvocato generale, si riferisce costantemente in tutto il ragionamento ad un precedente in particolare, la sentenza Kücük. La pronuncia in commento invero non manca di fare propria la distinzione ivi già esplicitata tra il piano dell’astratto e quello dell’applicazione concreta della disciplina controversa. Se, quindi, in via di principio, la sostituzione ricorrente di uno o più dipendenti che si trovino momentaneamente nell’impossibilità di svolgere le loro funzioni può costituire una ragione obiettiva ai sensi della clausola 5, punto 1, le autorità competenti devono garantire che l’applicazione concreta di tale ragione obiettiva sia conforme alle esigenze dell’accordo quadro ed essere in grado di stabilire criteri obiettivi e trasparenti al fine di verificare se i contratti rispondano effettivamente ad un’esigenza avente realmente carattere provvisorio. Ciò giustifica la distinzione tra le supplenze su cui si concentra il giudizio in esame, disposte su vacanze di organico e per posti di lavoro stabili a tutti gli effetti, in attesa dell’espletamento dei concorsi, e quelle temporanee, che possono essere giustificate da ragioni obiettive, ossia dall’esigenza di garantire la costante erogazione del servizio scolastico ed educativo.
Alla luce di queste notazioni, è evidente come i dubbi di una regressione nella tutela dei lavoratori c.d. atipici, adombrata dopo la sentenza Kücük, debbano essere dissipati.
Ancora, la giurisprudenza della Corte in questo contesto mostra di non ritenere rilevanti le argomentazioni degli Stati membri che invocano la situazione di generale crisi economica e di deficit di bilancio, elementi pure ritenuti degni di considerazione ed evidenziati dalla Corte costituzionale nell’ordinanza di rinvio, così come dalla Corte di Cassazione nella sentenza n. 10127/2012, dove, nell’escludere un abuso del diritto nella reiterazione di contratti a tempo determinato per l’esistenza di ragioni di natura obiettiva, quali quelle di assicurare la continuità nel servizio scolastico a fronte di eventi contingenti, variabili e imprevedibili, si è fatto presente che al sistema di reclutamento attuale «non sono estranee indifferibili esigenze di carattere economico che impongono -in una situazione di generale crisi economica e di deficit di bilancio facenti parte del notorio- risparmi doverosi per riscontrarsi nel sistema di reclutamento».
Sembra, allora, di poter concludere che la Corte di giustizia nell’ambito della tutela del lavoro non solo mantiene la propria linea tradizionale, ma dimostra ancora una volta come la lotta alla precarizzazione del lavoro resti un obiettivo chiave e quanto mai attuale a livello europeo, obiettivo rispetto al quale non sono ritenuti ammissibili compromessi.
La sentenza in esame riveste un’importanza notevole anche per altri aspetti, segnando un punto di arrivo del vasto contenzioso che ha interessato negli ultimi anni il nostro settore scolastico e che si conclude con una vittoria dei numerosi precari assunti con reiterati contratti a tempo determinato, dopo le sentenze della Cassazione n. 392 e 10127/2012, di contrario avviso.
Si tratta, tuttavia, di una vittoria ancora dai confini incerti, giacché i giudici nazionali, nell’assicurare una tutela effettiva ai precari pubblici, dovranno tenere in considerazione il carattere non self-executing della clausola 5, che, come affermato chiaramente dalla Corte nel caso Angelidaki, non appare così chiara e precisa, sotto il profilo del suo contenuto, da poter essere invocata da un singolo dinanzi ad un giudice nazionale, giacché prevede la possibilità di una scelta discrezionale in capo allo Stato membro quanto alle misure anti-abuso da adottare.
Ecco allora che la pronuncia in commento offre l’occasione per riflettere sul delicato tema dell’adeguamento a una pronuncia della Corte di giustizia che dichiari ostativa alla normativa nazionale una disposizione priva di effetti diretti. Nella prospettiva tradizionale, avallata anche dalla nostra Corte costituzionale (cfr. sentenze n. 284/2007, n. 28 e 227/2010) in presenza di una disposizione non avente efficacia diretta, anche una volta accertata attraverso un rinvio pregiudiziale l’incompatibilità con la disposizione non direttamente efficace della normativa nazionale, quest’ultima non potrà essere disapplicata ma sarà suscettibile solo di interpretazione conforme, che incontra un limite nell’interpretazione contra legem, altrimenti rischiandosi un’interpretazione creativa della norma, esorbitante dai poteri del giudice nazionale. Ove l’interpretazione conforme non sia possibile, fatta salva la responsabilità del legislatore nazionale per non aver correttamente trasposto la normativa comunitaria, il giudice comune dovrà operare un rinvio alla Corte costituzionale per violazione degli artt. 11 e 117, comma 1, Cost..
Questa la strada percorsa dai Tribunali di Latina e Lamezia Terme, che dovranno attendere la pronuncia della Corte costituzionale, ma non (finora) dal Tribunale di Napoli. La scelta dei primi giudici, del resto, è parsa esatta anche al giudice delle leggi laddove, nell’ordinanza di rinvio, fa presente che la clausola 5 dell’accordo quadro è priva di efficacia diretta e «che non è possibile risolvere il quesito in via interpretativa, secondo quanto correttamente prospettato dai giudici rimettenti, i quali non potevano infatti superare in tal modo l’ipotizzato contrasto tra le norme interne e quelle della direttiva».
Potrebbe essere quindi in errore il giudice nazionale comune (cfr. Tribunale di Sciacca, sentenze nn. 252 e 253 del 3 dicembre 2014) che ritenesse di applicare analogicamente il d.lgs. 368/2001 laddove prevede l’instaurazione di un rapporto a tempo indeterminato o comunque un risarcimento del danno trascorsi trentasei mesi, operando una parziale disapplicazione della disposizione normativa interna che espressamente esclude che al settore scolastico possano applicarsi i criteri in questione. Ragionando in questo modo, infatti, è evidente il rischio di alterare i confini tra potere legislativo e giudiziario, visto l’ampio spazio di discrezionalità lasciato al legislatore nel definire le misure anti-abuso più appropriate nei diversi settori, nonché il rischio di mettere in discussione il sistema di controllo accentrato. Anche sotto il profilo sanzionatorio del resto è alquanto accentuata la discrezionalità del legislatore nazionale. La Corte in più occasioni (cfr. Angelidaki, Affatato e Papalia) ha infatti precisato che l’accordo quadro non conferisce al lavoratore il diritto alla trasformazione del rapporto di lavoro da tempo determinato a tempo indeterminato, purché sia prevista un’altra misura effettiva per evitare, ed eventualmente sanzionare, l’utilizzo abusivo di una successione di contratti di lavoro a tempo determinato, nel rispetto dei principi di equivalenza e di effettività.
Tanto premesso, scartata la possibilità che il giudice comune, in primis il Tribunale di Napoli, possa non applicare la normativa nazionale contrastante, è indiscutibile il ruolo decisivo che assumerà la Corte costituzionale in questo frangente, quale giudice “dialogante” direttamente con la Corte di giustizia. Se non è certo nuova una dichiarazione di incostituzionalità della normativa nazionale in contrasto con il diritto dell’Unione, rappresenta invece per la Consulta un profondo cambiamento il superamento della c.d. doppia pregiudizialità nel giudizio incidentale ( v. qui).
Il giudice di Lussemburgo, invero, pare prestare particolare attenzione alla natura di uno dei suoi interlocutori, giudice delle leggi e non del fatto, fornendogli indicazioni che trascendono dalla mera valutazione dell’abuso in concreto, caso per caso, ma che fanno riferimento alle “falle” della normativa (anche) in astratto considerata. Chiede, infatti, ai giudici remittenti di accertare se la norma che si pone all’origine della prassi del ricorso a contratti a tempo determinato nel settore della scuola «non sia utilizzata, di fatto, per soddisfare esigenze permanenti e durevoli del datore di lavoro in materia di personale» (v. qui).
La Corte costituzionale, assunta la nuova veste di “giudice dialogante”, sarà pertanto facilitata nel compito di bilanciare il rispetto dei principi costituzionali del concorso pubblico e del diritto all’istruzione, da cui discende una necessità di flessibilità, elementi intesi come ragioni obiettive giustificative di una disciplina derogatoria, con la normativa dell’Unione.
Così, basandosi sulle indicazioni (vincolanti) della Corte di giustizia, la Corte costituzionale potrà pronunciarsi per l’incostituzionalità della legge n. 124/1999 nella parte in cui non prevede tempi certi per l’espletamento delle procedure concorsuali e, quindi, un limite effettivo con riguardo al numero di supplenze annuali effettuato da uno stesso lavoratore per coprire il medesimo posto vacante, nonché nella parte in cui esclude qualsiasi possibilità, per i docenti ed il personale, di ottenere il risarcimento del danno eventualmente subito a causa di un rinnovo.
Si aprirebbe in questo modo la via, in attesa dell’auspicabile intervento del legislatore nazionale, chiamato a ridisegnare l’intero sistema di reclutamento, alla possibilità per il giudice comune di condannare al risarcimento del danno il datore pubblico nel settore scolastico, dopo aver accertato l’abuso caso per caso, guardando in particolare al numero dei contratti successivi stipulati con la stessa persona oppure per lo svolgimento di uno stesso lavoro.
Del resto anche la Corte di Cassazione indirettamente pare fornire argomenti a sostegno del risarcimento del personale scolastico nella recentissima sentenza n. 27481/2014, dove ha qualificato il danno derivante dalla reiterazione di rapporti di lavoro a tempo determinato in violazione delle norme imperative riguardanti l’impiego dei lavoratori ex art. 36 c. 5, d.lgs. 165/2001, come “danno c.d. comunitario”, inteso quale sanzione “ex lege” a carico del datore di lavoro. Il giudice di legittimità invero elabora questa nozione – che potrebbe destare perplessità se non meglio circoscritta – al fine di adeguare la propria giurisprudenza alle indicazioni della sopracitata ordinanza Papalia in cui, come si è detto,la Corte di giustizia ha ritenuto non conforme al principio di effettività l’unica forma di tutela esistente per i lavoratori del settore pubblico assunti con contratto a durata determinata in Italia, rappresentata dal risarcimento del danno sofferto, in quanto, secondo l’interpretazione elaborata dalla Cassazione, il diritto nazionale richiederebbe al lavoratore di fornire la prova estremamente difficile, se non impossibile, della perdita di opportunità di lavoro e quella del conseguente lucro cessante, così da rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio del suo diritto.
Intendendo il danno come sanzione ex lege per il datore, infatti, la Cassazione specifica che il lavoratore potrà limitarsi a provare l’illegittima stipulazione di più contratti a termine sulla base di esigenze “falsamente indicate come straordinarie e temporanee”, essendo esonerato dalla costituzione in mora del datore di lavoro e dalla prova di un danno effettivamente subito (senza riguardo, quindi, ad eventuale aliunde perceptum). Si pone così rimedio all’eccessiva difficoltà che il lavoratore incontrerebbe nel produrre le prove richieste in diritto nazionale per poter esercitare diritti attribuitigli dall’ordinamento dell’Unione.
Nel principio di diritto affermato la Suprema Corte esclude espressamente l’applicabilità al settore scolastico non dell’art. 36, comma 5, del d.lgs. 165/2001, ma della nozione di danno c.d. comunitario. Questa statuizione non sembra condivisibile. Al contrario ciò che qui preme evidenziare è proprio che le indicazioni di massima della sentenza, che riprendono del resto quanto già indicato dal giudice di Lussemburgo, ed in particolare la necessità di un risarcimento conforme ai canoni di adeguatezza, effettività, proporzionalità e dissuasività, costituiscono estrinsecazioni di principi generali, come tali trasponibili, mutatis mutandis, anche alla fattispecie in esame.
In sintesi, a parere di chi scrive, la tutela risarcitoria nei confronti del datore pubblico potrebbe essere riconosciuta al lavoratore solo dopo un’auspicabile intervento additivo della Corte costituzionale; a quel punto il giudice comune dovrebbe riferirsi alla nozione di danno c.d. comunitario elaborata dalla Suprema Corte.
Alla luce di queste considerazioni, un’ultima questione da affrontare riguarda la futura decisione del Tribunale di Napoli. Pur ribadendo l’opportunità che anche il giudice remittente attenda la sentenza della Consulta, nel caso in cui il Tribunale volesse pronunciarsi prima, non opererebbe correttamente, per le ragioni già esposte, se decidesse di non applicare la normativa contrastante. Occorre peraltro domandarsi se residui qualche spazio per un’interpretazione conforme della l. n. 124/99 alla pronuncia della Corte di giustizia. Un ostacolo di rilievo in questo senso parrebbe però l’assenza, nella legislazione di settore, di una norma alla quale possa ricondursi, anche in via d’interpretazione, la tutela risarcitoria in caso di reiterazione abusiva dei contratti a termine.