Le conclusioni dell’Avvocato Generale Ćapeta nella causa C-147/24 Safi: il diritto a “non circolare” come corollario della cittadinanza dell’Unione

Le conclusioni presentate dall’Avvocato Generale Ćapeta il 4 settembre 2025 nella causa C-147/24 Safi offrono un contributo particolarmente rilevante al dibattito sulla natura e sull’evoluzione della cittadinanza dell’Unione.

Il caso, sottoposto alla Corte di giustizia in via pregiudiziale, riguarda la situazione di un minore cittadino dei Paesi Bassi che rischia di dover lasciare il territorio nazionale per trasferirsi in Spagna. Le autorità olandesi hanno infatti negato alla madre, cittadina di un Paese terzo, il riconoscimento di un diritto di soggiorno derivato ai sensi dell’art. 20 TFUE, ritenendo sufficiente il fatto che la stessa fosse già titolare di un permesso di soggiorno rilasciato dalla Spagna. Secondo tale impostazione, l’art. 20 TFUE non troverebbe applicazione poiché il mancato riconoscimento del diritto di soggiorno non costringerebbe il minore a lasciare l’Unione europea nel suo complesso, ma soltanto il territorio dei Paesi Bassi.

Il giudice del rinvio ha sottoposto alla Corte di giustizia due questioni: in primo luogo, se l’art. 20 TFUE debba essere interpretato nel senso che il genitore di un minore cittadino dell’Unione, residente nello Stato membro di cui possiede la cittadinanza, possa vedersi riconosciuto un diritto di soggiorno derivato anche quando disponga già di un titolo di soggiorno in un altro Stato membro; in secondo luogo, se dall’art. 20 TFUE derivi l’obbligo di tenere conto dell’interesse superiore del minore e del suo diritto alla vita familiare prima di imporre al genitore, cittadino di un Paese terzo, di trasferirsi nello Stato membro in cui è titolare di un permesso di soggiorno.

La fattispecie richiama da vicino quella che, ormai più di quindici anni fa, aveva condotto alla storica sentenza Ruiz Zambrano (C-34/09), in cui la Corte aveva affermato che la cittadinanza dell’Unione sarebbe svuotata di contenuto se i cittadini europei, in particolare minori, fossero costretti a lasciare il territorio dell’Unione per effetto del diniego di un diritto di soggiorno derivato ai loro genitori, cittadini di Paesi terzi. Diversamente dal caso Zambrano, tuttavia, nel procedimento Safi il genitore dispone già di un diritto di soggiorno in un altro Stato membro, sicché la questione riguarda non la perdita assoluta dei diritti di cittadinanza, bensì il rischio di separazione familiare o di un trasferimento forzato all’interno dell’Unione.

L’innovazione proposta dall’Avvocato Generale Ćapeta consiste nell’aver tradotto il principio Zambrano, finora espresso in termini di tutela eccezionale, in una vera e propria affermazione di diritto: accanto alla libertà di circolazione, che consente di muoversi e soggiornare in un altro Stato membro, la cittadinanza dell’Unione comprenderebbe anche un “diritto di non circolare” (§29), vale a dire il diritto del cittadino europeo a rimanere nello Stato membro di cui possiede la cittadinanza, senza essere costretto a trasferirsi altrove, anche all’interno dell’Unione, per motivi legati allo status giuridico dei suoi familiari.

Si tratta di una proposta concettualmente semplice ma dalle potenziali conseguenze rilevanti. La giurisprudenza della Corte, a partire da Zambrano, ha infatti sempre circoscritto la portata dell’art. 20 TFUE a situazioni eccezionali in cui la mancata concessione del diritto di soggiorno al familiare cittadino di un Paese terzo avrebbe comportato l’allontanamento effettivo del minore cittadino dal territorio dell’Unione considerato nel suo insieme. Tale approccio ha generato non pochi dubbi interpretativi, lasciando ai giudici nazionali l’onere di valutare caso per caso se il rischio di allontanamento fosse reale e inevitabile, con conseguenti applicazioni disomogenee.

L’Avvocato Generale Ćapeta propone di abbandonare questa logica casistica per affermare un principio più lineare: la cittadinanza europea tutela non solo il diritto di circolare e soggiornare, ma anche il diritto di scegliere di non circolare (§56). Se un minore cittadino dell’Unione dipende effettivamente da un genitore di cittadinanza di Paese terzo, negare a quest’ultimo un titolo di soggiorno equivale a privare il cittadino UE del nucleo essenziale della cittadinanza, perché lo obbligherebbe di fatto a lasciare il proprio Stato. A tal proposito, poco rileva – a parere dell’AG – se il trasferimento sia verso un Paese terzo od un altro Stato membro: in entrambi i casi il cittadino rischierebbe di essere privato della libertà di scegliere di non circolare, pregiudicandone così lo status di cittadino dell’Unione (§72).

In questa prospettiva, l’AG invita la Corte ad interpretare l’art. 20 TFUE nel senso che esso non esclude che ad un genitore cittadino di un Paese terzo debba essere concesso un diritto di soggiorno derivato nello Stato membro di cui il figlio minore è cittadino, anche se quel genitore dispone già di un diritto di soggiorno in un altro Stato membro. Il diritto di «circolare e soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri» include, dunque, il diritto di scegliere di non circolare, rendendo irrilevante il fatto che il cittadino dell’Unione sia costretto a trasferirsi in un Pese terzo o in uno Stato membro.

Quanto alla seconda questione proposta dal giudice del rinvio, volta a stabilire quando, nell’ambito di un procedimento per il riconoscimento di un diritto di soggiorno derivato a un genitore cittadino di un Paese terzo, il giudice nazionale debba considerare l’interesse superiore del bambino e il diritto alla vita familiare, l’AG propone un test a due fasi: in primo luogo, il giudice nazionale deve accertare, caso per caso, l’esistenza di un rapporto di dipendenza effettiva tra il minore e il genitore, tenendo conto non solo del diritto al rispetto della vita familiare di tale minore, sancito dall’art. 7 CDFUE, ma anche del suo interesse superiore, tutelato dall’art. 24 par. 2 CDFUE (§97); in secondo luogo, se tale dipendenza è riscontrata, e per effetto di essa, il cittadino minore sarebbe costretto a lasciare lo Stato membro in caso di diniego, il giudice deve riconoscere la sussistenza di un grado di dipendenza sufficiente a concedere un diritto di soggiorno derivato (§100).

Ne consegue che, a parere dell’AG, l’interesse superiore del minore e il diritto alla vita familiare debbono essere valutati prima di adottare una decisione che, ai sensi dell’art. 6, par. 2 della direttiva 2008/115, imponga ad un cittadino di un Paese terzo di lasciare il territorio per trasferirsi in un altro Stato membro nel quale già gode di un diritto di soggiorno (§113)

L’idea del “diritto a rimanere” non è del tutto inedita. Alcuni autori, commentando Zambrano, avevano già sottolineato come la protezione accordata dalla Corte potesse essere letta in questi termini (si veda, Kochenov, A real european citizenship: A new jurisdiction test: A novel chapter in the development of the Union in europe, in Columbia Journal of Europea Law, 18/2011, 55-109). Tuttavia, la Corte non aveva mai consacrato questa formula, preferendo mantenere un approccio prudente e legato alle circostanze concrete. In Dereci (C-256/11), ad esempio, la Corte aveva escluso l’applicazione dell’art. 20 TFUE in assenza di un rischio effettivo di dover abbandonare l’Unione, mentre in Chavez-Vilchez (C-133/15) aveva attribuito al giudice nazionale un ampio margine per valutare il grado di dipendenza del minore. Queste decisioni, pur riconoscendo la centralità della cittadinanza, avevano mantenuto un’impostazione restrittiva, con la conseguenza che la protezione risultava frammentata e incerta.

Le conclusioni Ćapeta cercano invece di offrire una cornice più coerente e sistematica. Affermare che la cittadinanza dell’Unione comprende un diritto a restare significa, infatti, attribuire all’art. 20 TFUE un contenuto autonomo e facilmente applicabile. Questo rafforza l’idea, già affermata dalla Corte, che la cittadinanza costituisca lo «status fondamentale dei cittadini degli Stati membri» (Grzelczyk, C-184/99, punto 31), capace di incidere anche su situazioni puramente interne, ossia prive di elementi transfrontalieri.

Dal punto di vista pratico, le implicazioni di questa impostazione sono considerevoli. In primo luogo, essa riduce l’incertezza per i giudici nazionali, che non sarebbero più chiamati a valutare ipotetici rischi di allontanamento, ma dovrebbero piuttosto accertare l’effettività del rapporto di dipendenza. In secondo luogo, essa rafforza la tutela dei minori cittadini UE in contesti familiari “misti”, valorizzando l’interesse superiore del minore e l’unità familiare. In terzo luogo, pone un limite significativo alla discrezionalità degli Stati membri in materia di immigrazione: se la cittadinanza europea comporta un diritto a non circolare, il diniego del titolo di soggiorno al genitore cittadino di Paese terzo non può essere giustificato da mere considerazioni di politica migratoria, ma solo da motivi imperativi legati all’ordine pubblico o alla sicurezza, da interpretare in senso restrittivo.

Tuttavia, le conclusioni non mancano di suscitare interrogativi critici. Una prima questione riguarda la definizione di “rapporto di dipendenza effettiva”. La giurisprudenza passata, come in Chavez-Vilchez, ha mostrato quanto complesso possa essere questo accertamento: non basta la mera relazione biologica, ma occorre valutare se il minore sia concretamente dipendente dal genitore per le sue cure e il suo sostentamento. Rimettere ai giudici nazionali questa valutazione comporta il rischio di applicazioni disomogenee e talvolta restrittive. Una seconda questione concerne l’ampiezza delle deroghe per motivi di ordine pubblico o sicurezza. Sebbene l’Avvocato Generale ne contempli l’uso in senso restrittivo (§60), la prassi dimostra come gli Stati tendano a invocare queste clausole in modo ampio, talvolta per ragioni che esulano dalle minacce gravi e concrete alla sicurezza pubblica. Sarà quindi essenziale che la Corte, qualora segua l’impostazione dell’AG, precisi i criteri per delimitare l’uso di queste deroghe, onde evitare che il diritto a non circolare venga svuotato di significato.

Un’ulteriore riflessione riguarda la stessa disponibilità della Corte ad accogliere la proposta dell’AG. Finora, l’approccio di Lussemburgo è stato improntato a una certa cautela, al fine di evitare di trasformare l’art. 20 TFUE in una fonte generalizzata di diritti di soggiorno per i familiari di cittadini UE. È dunque possibile che la Corte preferisca confermare la giurisprudenza consolidata, riaffermando l’esistenza di situazioni “eccezionali” in cui l’allontanamento dal territorio dell’Unione considerato nel suo insieme sarebbe inevitabile, senza tradurre tale situazione in un diritto generalizzato a non circolare, dentro e fuori l’Unione.

Se, tuttavia, la Corte dovesse accogliere la proposta dell’Avvocato Generale, l’impatto sulla costruzione della cittadinanza europea sarebbe notevole. Il riconoscimento di un diritto a restare costituirebbe un ulteriore passo verso la trasformazione della cittadinanza in un vero e proprio status fondamentale (Grzelczyk, C-184/99, §31), capace di incidere direttamente sulle competenze statali in materia di immigrazione e soggiorno. Non si tratterebbe più soltanto di proteggere la mobilità, ma anche di garantire la stabilità, intesa come diritto del cittadino a vivere nel proprio Stato senza doverlo abbandonare per ragioni di natura familiare.

In questa prospettiva, le conclusioni Ćapeta si inseriscono in un processo più ampio di evoluzione della cittadinanza dell’Unione. Dopo la fase iniziale, in cui la cittadinanza è stata vista come uno strumento per facilitare la libera circolazione, la giurisprudenza ha progressivamente riconosciuto che essa attribuisce diritti ulteriori, legati alla dignità e all’appartenenza alla comunità politica europea. L’affermazione del diritto a restare rappresenterebbe un passo ulteriore in questa direzione, che accentua la dimensione sociale e protettiva della cittadinanza, in linea con l’art. 24 della Carta dei diritti fondamentali, che sancisce l’interesse superiore del minore.

Resta, ovviamente, il nodo della compatibilità di questa evoluzione con le competenze degli Stati membri. La concessione di titoli di soggiorno ai cittadini di Paesi terzi rimane, in linea di principio, una prerogativa nazionale. Tuttavia, già con Zambrano la Corte aveva mostrato che, in presenza di diritti fondamentali dei cittadini UE, la discrezionalità statale incontra limiti. L’eventuale riconoscimento di un diritto a non circolare non farebbe che rafforzare questa tendenza, sottraendo ulteriormente terreno alla sovranità degli Stati in materia migratoria.

In ultima analisi, le conclusioni dell’Avvocato Generale Ćapeta nella causa Safi propongono un’interpretazione innovativa e ambiziosa dell’art. 20 TFUE. Affermare che la cittadinanza dell’Unione comprende un diritto a non circolare significa riconoscere che lo status fondamentale dei cittadini non si esprime solo nella possibilità di spostarsi, ma anche nella possibilità di restare. Si tratta di un’affermazione che, se accolta dalla Corte, potrebbe segnare un nuovo capitolo nella giurisprudenza sulla cittadinanza europea, rafforzando la tutela dei minori e dei loro familiari, ma anche ridisegnando l’equilibrio tra competenze statali e diritti dell’Unione.