La risoluzione del Parlamento europeo sul riconoscimento della Palestina
1. Con una votazione a larga maggioranza (498 voti favorevoli, 88 contrari, 111 astensioni e vari parlamentari volontariamente assenti al momento del voto) il 16 dicembre 2014 il Parlamento europeo ha approvato una risoluzione sul riconoscimento dello Stato di Palestina (“Palestine statehood”). In essa il Parlamento europeo, ricordando che il riconoscimento dello Stato di Palestina rientra nella competenza degli Stati membri, sostiene in principio il riconoscimento di tale Stato e la soluzione di due Stati (par. 1). Tale soluzione è fondata sui confini del 1967, con Gerusalemme capitale di entrambi gli Stati e con lo Stato di Israele in condizioni di sicurezza e uno Stato palestinese indipendente, democratico, contiguo e vitale, che vivano uno accanto all’altro in pace e sicurezza sulla base del diritto di autodeterminazione e del pieno rispetto del diritto internazionale (par. 5).
La risoluzione fa seguito a numerose prese di posizione a favore della statualità della Palestina, espresse da organizzazioni internazionali e da singoli Stati. Per le prime basti ricordare la risoluzione del 31 ottobre 2011 con la quale la Conferenza generale dell’UNESCO ha deciso l’ammissione della Palestina come Stato membro dell’Organizzazione e la risoluzione n. 67/19 del 29 novembre 2012 dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, che ha conferito alla Palestina lo status di “Stato non membro” osservatore presso le stesse Nazioni Unite. Quanto agli Stati, sono ormai oltre 130 quelli che riconoscono la Palestina e tra questi vi sono vari Stati membri dell’Unione europea (alcuni dei quali, peraltro, hanno accordato il riconoscimento prima del loro ingresso nell’Unione). Il caso più recente è quello della Svezia, il 30 ottobre 2014, ma anche la Camera dei Comuni del Regno Unito, il 14 ottobre scorso, ha votato una mozione con la quale ha impegnato il proprio governo a riconoscere la Palestina e analoga posizione ha assunto il 2 dicembre 2014 il Parlamento francese.
Il quadro degli Stati che riconoscono lo Stato palestinese, peraltro, dovrebbe essere completato (e ampliato) con quelli che, con il loro voto, hanno sostenuto l’attribuzione alla Palestina dello status di Stato non membro osservatore nelle Nazioni Unite con la ricordata risoluzione dell’Assemblea generale del 29 novembre 2012 (e altrettanto dicasi per l’ammissione all’UNESCO o ad altre organizzazioni internazionali). È vero, infatti, che tale risoluzione, quale atto “organico”, va imputata giuridicamente alle Nazioni Unite, non ai singoli Stati membri; tuttavia il voto favorevole di questi ultimi esprime, in forma implicita, la loro volontà di riconoscere come Stato la Palestina. Anche l’Italia, che ha espresso voto favorevole alla risoluzione, ha quindi manifestato il suo riconoscimento, anche se – come risulta dal comunicato della Presidenza del Consiglio di Ministri – essa ha chiesto al Presidente palestinese Mahmoud Abbas di non utilizzare il voto all’Assemblea generale per ottenere l’ammissione ad altri Istituti specializzati delle Nazioni Unite o adire la Corte penale internazionale.
Il panorama delle relazioni internazionali intessute dalla Palestina si è ulteriormente arricchito con l’adesione, dallo scorso 2 aprile 2014, ai principali trattati di diritto internazionale umanitario e a quelli, promossi dalle Nazioni Unite, sui diritti umani. Particolarmente significativa è stata la sottoscrizione, il 31 dicembre 2014, dell’adesione allo Statuto della Corte penale internazionale (oltre che ad altri sedici trattati), accompagnata dalla dichiarazione di accettazione della giurisdizione della Corte ex art. 12, par. 3, dello Statuto, a partire dal 13 giugno 2014, così da ricomprendere gli eventuali crimini commessi nel corso dell’operazione “Margine protettivo” condotta da Israele nella striscia di Gaza in seguito al rapimento e all’uccisione di tre giovani israeliani in Cisgiordania. Un precedente tentativo di investire la Corte penale internazionale della giurisdizione sugli atti commessi nel territorio palestinese dal 1° luglio 2002, tentativo effettuato mediante una dichiarazione del 22 gennaio 2009 di accettazione della sua giurisdizione, non aveva avuto successo: in un comunicato del 3 aprile 2012 l’Ufficio del Procuratore aveva dichiarato che, malgrado i numerosi riconoscimenti dello Stato di Palestina, quest’ultima aveva presso le Nazioni Unite lo status di osservatore, non di “Stato non membro”, per cui non era legittimata ad attribuire la giurisdizione alla Corte. Data tale motivazione, non sorprende che, mutato lo status della Palestina presso le Nazioni Unite, lo stesso Segretario generale dell’Organizzazione, nella veste di depositario della Convenzione di Roma del 17 luglio 1998 istitutiva della Corte penale internazionale, abbia comunicato, il 6 gennaio 2015, l’avvenuta adesione della Palestina, in data 2 gennaio 2015, con conseguente entrata in vigore dello Statuto nei suoi confronti il 1° aprile 2015.
2. Qual è, nel contesto sinteticamente delineato, la portata della risoluzione del 16 dicembre del Parlamento europeo?
Prescindendo dalla sua indubbia rilevanza politica, essa appare chiaramente come una raccomandazione rivolta, sia pure implicitamente, anzitutto agli Stati membri. A questi, infatti, appartiene la competenza a riconoscere lo Stato di Palestina, come la stessa risoluzione ha cura di precisare. A nostro parere, peraltro, nei termini in cui è formulata (“Supports in principle recognition of Palestinian statehood”), la risoluzione può leggersi come una sollecitazione rivolta anche alle istituzioni europee, in particolare al Consiglio europeo. Premesso che, malgrado i modesti poteri del Parlamento europeo in materia di politica estera e di sicurezza comune, rientra certamente nelle sue competenze la facoltà di adottare risoluzioni non vincolanti, ci sembra che il Consiglio europeo ben potrebbe adottare una decisione di riconoscere la Palestina, inquadrabile tra le decisioni, previste dall’art. 22, par. 1, TUE e riguardanti le relazioni dell’Unione con uno Stato o una regione. Un siffatto riconoscimento (a parte, beninteso, la difficoltà di raggiungere un consenso unanime tra i 28 Stati membri) sarebbe ammissibile particolarmente oggi, tenuto conto, da un lato, della sicura soggettività internazionale dell’Unione europea (distinta da quella degli Stati membri), dall’altro, della presenza di un apparato di diplomazia, il Servizio europeo per l’azione esterna, facente capo all’Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza e disciplinato dalla decisione 2010/427/UE del Consiglio del 26 luglio 2010.
Qualora alla risoluzione del Parlamento europeo facessero seguito i formali riconoscimenti della Palestina da parte degli Stati membri (ed eventualmente della stessa Unione) essi, di per sé, non sarebbero idonei a conferire soggettività internazionale quale Stato alla Palestina. È opinione pressoché pacifica, infatti, che il riconoscimento è privo di effetti costitutivi della personalità dello Stato che ne è oggetto, il quale possiede tale personalità solo se è dotato di un’organizzazione di governo che abbia il controllo di una data comunità territoriale in maniera effettiva e indipendente. Nel caso della Palestina è arduo ammettere che tali requisiti sussistano. In realtà ci si trova di fronte a una situazione apparentemente singolare e contraddittoria: sul piano delle relazioni esterne, come si è visto, la Palestina, considerata come Stato, è parte di vari accordi, è membro di talune organizzazioni, intrattiene relazioni diplomatiche con i numerosi Stati che la riconoscono e, principalmente, è considerata Stato dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite, la quale, al di là della sua qualificazione formale come organo di queste ultime, “rappresenta” l’intera comunità internazionale degli Stati (e la citata risoluzione del 29 novembre 2012 è stata adottata con ben 138 voti favorevoli, 41 astenuti e solo 9 contrari). A questa proiezione esterna della Palestina, ricca di una pluralità di sintomi di statualità, a cominciare dalla capacità di concludere accordi internazionali e dal c.d. diritto di legazione, fa però riscontro una situazione interna, nella quale non può rinvenirsi quella effettiva (e indipendente) capacità di governo, richiesta per configurare uno Stato sovrano.
È proprio la sovranità territoriale che non è possibile riconoscere, né in Cisgiordania, solo in misura ridotta soggetta al controllo e all’amministrazione dell’Autorità nazionale palestinese, né nella striscia di Gaza, lasciata sì da Israele, ma sottoposta da quest’ultima a un blocco terrestre, navale ed aereo (né, tanto meno, a Gerusalemme est). Del resto, la stessa palpitante aspirazione del popolo palestinese ad avere un proprio Stato indipendente conferma che tale Stato, al momento, non c’è.
Ci sembra che, come la Corte internazionale di giustizia ha dichiarato nel parere consultivo del 9 luglio 2004 sulle conseguenze giuridiche della costruzione di un muro da parte di Israele nei territori occupati palestinesi, questi territori vadano qualificati, appunto, come soggetti a un regime di occupazione militare ad opera di Israele, protrattosi dalla guerra dei sei giorni del 1967. Tale regime comporta taluni poteri, ma altrettanti doveri a carico di Israele ed esclude ogni possibilità di annessione, essendo quest’ultima vietata da una consolidata norma di diritto internazionale generale, che proibisce qualsiasi acquisto territoriale mediante l’uso della forza, come il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha più volte ribadito, anche con riferimento ai territori occupati da Israele, compresa Gerusalemme est.
3. Malgrado le osservazioni che precedono, riteniamo che il riconoscimento della Palestina non abbia un significato meramente politico, ma anche un rilevante valore giuridico.
Anzitutto vale la pena di avvertire che è da escludere qualsiasi carattere illecito di tale riconoscimento. Una siffatta ipotesi potrebbe configurarsi nel riconoscimento come Stato di una entità territoriale appartenente a un altro Stato (si pensi agli immediati – e quanto meno prematuri – riconoscimenti del Kosovo all’indomani della sua proclamata indipendenza il 17 febbraio 2008), poiché costituirebbe una forma di ingerenza nella sovranità di tale Stato. Ma, come si è detto, un’appartenenza dei territori palestinesi ad Israele non è configurabile, trattandosi di territori soggetti a un regime di occupazione militare.
In secondo luogo, e principalmente, il riconoscimento della Palestina appare espressione della tendenza dell’odierno diritto internazionale ad affermare una esigenza di legalità nella formazione degli Stati (come negli acquisti territoriali e nella nascita di governi), la quale viene a temperare il principio di effettività di governo che in tale materia rappresenta tuttora la regola ai fini della nascita dello Stato quale soggetto di diritto internazionale. Tale tendenza si è manifestata, sinora, in termini “negativi”; essa, cioè, comporta il disconoscimento di Stati che, anche qualora siano dotati della capacità di esercitare effettivamente un’autorità di governo su una comunità territoriale, siano venuti in esistenza grazie alla violazione di una norma imperativa (ius cogens) del diritto internazionale generale, quali il divieto di aggressione, il divieto di apartheid, il diritto di autodeterminazione dei popoli. La prassi relativa agli Stati (alla quale fa riscontro quella, analoga, concernente gli acquisti territoriali e la formazione di governi) prende l’avvio dal disconoscimento, espresso dapprima dal Segretario di Stato USA Stimson il 7 gennaio 1932, poi dall’Assemblea della Società delle Nazioni il successivo 11 marzo, di ogni risultato dell’aggressione del Giappone alla Cina, disconoscimento riferibile anche al preteso Stato del Man-chu-kuo, creato dal Giappone nella Manciuria occupata. Con la nascita delle Nazioni Unite (nelle quali il principio del non riconoscimento degli acquisti territoriali ottenuti con l’uso della forza è stato solennemente affermato in celebri dichiarazioni dell’Assemblea generale, come quella del 24 ottobre 1970 sulle relazioni amichevoli e quella del 14 dicembre 1974 sulla definizione dell’aggressione) il disconoscimento di Stati formatisi in violazione di norme di ius cogens è stato decretato dal Consiglio di sicurezza nei confronti, anzitutto, della Rhodesia del Sud dal 1965 al 1980, a causa della sua proclamazione ad opera di un governo di minoranza bianca, in spregio del principio di autodeterminazione dei popoli e del divieto di apartheid; i medesimi principi sono alla base delle dichiarazioni di illegalità, con conseguente richiesta di non riconoscimento, degli Stati creati dal 1976 in poi ad opera del Sud Africa nei bantustan del Transkei, Bophuthatswana, Venda e Ciskei; infine, la violazione del divieto dell’uso della forza ha determinato la dichiarazione d’invalidità della proclamazione della Repubblica turca di Cipro settentrionale, nata a seguito dell’intervento militare della Turchia, e la richiesta del Consiglio di sicurezza (con risoluzione n. 541 del 18 novembre 1983), rivolta a tutti gli Stati, di non riconoscere tale Stato. Un ulteriore esempio, di drammatica attualità, è dato dall’ISIS, il preteso Stato islamico di Iraq e del Levante, considerato dal Consiglio di sicurezza alla stregua di un’organizzazione terroristica, non di uno Stato, a causa, in particolare, delle violazioni generalizzate e sistematiche dei diritti umani e del diritto internazionale umanitario (risoluzione n. 2170 del 15 agosto 2014), e non riconosciuto dall’intera comunità internazionale.
Si noti che il disconoscimento di Stati nati in violazione dello ius cogens ormai non rappresenta una scelta politica, di singoli Stati o di organizzazioni internazionali, in specie delle Nazioni Unite tramite il Consiglio di sicurezza, ma un comportamento giuridicamente obbligatorio, sancito anche dall’art. 41 del Progetto di articoli della Commissione del diritto internazionale sulla responsabilità internazionale degli Stati del 3 agosto 2001, il quale dispone che nessuno Stato riconosca come legittima una situazione creata da una violazione grave di un obbligo derivante da una norma imperativa di diritto internazionale generale.
Il principio di legalità internazionale, che si esprime nel disconoscimento di Stati (e situazioni) formatisi in violazione di norme di ius cogens, può comportare anche, “in positivo” e in maniera quasi speculare rispetto al disconoscimento, il riconoscimento di Stati che, pur non avendo ancora raggiunto una pienezza di effettività di governo, rappresentino la realizzazione di quelle medesime norme di ius cogens, a cominciare – come nel caso della Palestina – dal diritto di autodeterminazione dei popoli, inteso come il diritto di popoli sottoposti a dominazione coloniale, razzista o straniera di costituirsi in Stati indipendenti. È tale principio di legalità, a nostro avviso, che spiega l’atteggiamento, altrimenti non comprensibile, dei numerosi Stati che riconoscono la Palestina, così come le decisioni di organizzazioni internazionali di considerarla uno Stato e la stessa risoluzione del 16 dicembre 2014 del Parlamento europeo. Sotto questo profilo il riconoscimento della Palestina potrebbe rientrare fra i mezzi che gli Stati terzi, nel rispetto del diritto internazionale, sono tenuti ad adottare affinché il popolo palestinese eserciti il proprio diritto all’autodeterminazione, in adempimento di un obbligo che la Corte internazionale di giustizia (sia pure con specifico riferimento al muro costruito da Israele) ha affermato nel ricordato parere consultivo del 9 luglio 2004. In esso la Corte, dopo avere sottolineato che l’obbligo di Israele di rispettare il diritto di autodeterminazione del popolo palestinese costituisce un obbligo erga omnes, riguardo al quale tutti gli Stati possono considerarsi come aventi un interesse giuridico al rispetto del corrispondente diritto, ha dichiarato che gli Stati terzi hanno l’obbligo non solo di non riconoscere la situazione illegale risultante dalla costruzione del muro nei territori occupati, ma anche di vegliare affinché sia posto termine a ogni ostacolo (derivante dalla costruzione del muro) all’esercizio da parte del popolo palestinese del proprio diritto all’autodeterminazione.
Quanto sostenuto, beninteso, appare giustificato nei riguardi di una entità che risulta provvista degli elementi di base (popolo, territorio – sebbene non precisamente definito nei suoi confini, specie riguardo a Gerusalemme – e organizzazione di governo) di uno Stato, sia pure non indipendente, e che già intrattiene una serie di rapporti internazionali. In assenza di tali elementi un riconoscimento di “statualità” sembrerebbe velleitario, se non futile. Nel caso della Palestina, invece, il riconoscimento, oltre che giuridicamente fondato in nome del diritto di autodeterminazione, appare idoneo a favorire un risultato concreto, sul piano pratico–giuridico; esso, infatti, può rafforzare e consolidare l’autorità di governo delle istituzioni palestinesi. A tale fine, peraltro, occorre che sia accompagnato da comportamenti coerenti, come l’instaurazione di relazioni diplomatiche, la conclusione di accordi internazionali, il riconoscimento di efficacia giuridica alle manifestazioni del potere delle suddette istituzioni (quale l’eventuale emanazione di leggi, sentenze, atti amministrativi), l’attribuzione, se del caso, alla stessa Palestina della responsabilità per illeciti internazionali. Un tale atteggiamento da parte degli Stati autori del riconoscimento può evidentemente contribuire, alla stregua dello stesso principio di effettività, all’affermazione dell’ente riconosciuto, la Palestina, quale Stato fornito di soggettività internazionale.