La responsabilità delle corti supreme per violazione del diritto UE: il caso portoghese

1. Il sistema di tutela giurisdizionale offerto al singolo dal diritto dell’Unione Europea si intreccia profondamente con le norme sostanziali e procedurali degli Stati membri. L’argomento è di grande rilevanza laddove si configurino ipotesi di responsabilità extracontrattuale da parte di questi ultimi per violazioni del diritto dell’UE. Se in un primo momento esse riguardavano per lo più la mancata o errata trasposizione delle direttive nonché, più in generale, l’inadempimento delle norme derivanti dai Trattati (v. sentenza del 19 novembre 1991, cause riunite C-6/90 e C-9/90, Francovich e sentenza del 5 marzo 1996, cause riunite C-46/93 e C-48/93, Brasserie du pecheur e Factortame), con la sentenza del 30 settembre 2003, causa C-224/01, Köbler, la Corte di Giustizia ha aperto la strada anche all’azione risarcitoria per condotte illecite commesse dagli organi giurisdizionali. Tale tematica si innesta sull’obbligo di rinvio pregiudiziale cui sono soggetti i giudici avverso le cui decisioni non sia più possibile proporre un ricorso di diritto interno (art. 267, comma 3, TFUE) (v. sentenza del 13 giugno 2006, causa C-173/03, Traghetti del Mediterraneo SpA e sentenza del 24 novembre 2011, causa C-379/10, Commissione europea c. Repubblica italiana), argomento già oggetto di dibattito in dottrina (cfr. in questa rivista i contributi di Ilaria Anrò e Sofia Monici). In questo contesto si inseriscono i fatti della sentenza del 9 settembre 2015, causa C-160/14, Joao Felipe Ferreira Da Silva e Brito.

2. La compagnia aerea Air Atlantis SA (in prosieguo: «AIA»), operativa nel settore dei voli charter e controllata dalla TAP, era stata liquidata e aveva disposto il licenziamento collettivo di tutti i suoi dipendenti. La TAP, a sua volta, utilizzava le strutture e i beni della AIA per proseguirne le attività, in particolare su alcune rotte che non aveva mai sfruttato in precedenza. Gli interessati impugnavano quindi il licenziamento collettivo sulla base dell’art. 3, par. 1, primo comma, della direttiva 2001/23 sul mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimenti di imprese, di stabilimenti o di parti di imprese o di stabilimenti. All’esito di una complessa vicenda giudiziaria, che li ha visti vittoriosi in primo grado e soccombenti in appello, la Corte suprema portoghese dichiarava la legittimità del provvedimento della AIA. I lavoratori chiedevano successivamente – di fronte ad un altro giudice – il risarcimento del danno ad essi provocato da tale decisione definitiva, sostenendo un errore di diritto causato dal rifiuto di sollevare la questione pregiudiziale di interpretazione.

Il caso Ferreira Da Silva presenta dunque un duplice profilo: da un lato, il giudice del rinvio chiede alla Corte di giustizia la corretta interpretazione della direttiva 2001/23; dall’altro lato, e per quel che qui più interessa, se i principi posti alla base della responsabilità extracontrattuale degli Stati membri, così come sanciti dalla sentenza Köbler, «osti[no] all’applicazione di una normativa nazionale che richiede come fondamento della pretesa di risarcimento esercitata contro lo Stato la previa revoca della decisione lesiva» (sentenza, punto 22). Seguendo l’iter argomentativo offerto dall’avvocato generale Bot nelle sue conclusioni dell’11 giugno 2015 e dalla Corte, si esaminerà dapprima la direttiva 2001/23 per poi giungere all’analisi della pretesa risarcitoria dei singoli.

Lo scopo della direttiva 2001/23 è la tutela dei lavoratori in caso di trasferimento di impresa. Nella sentenza in commento ciò si traduce nel verificare se la AIA sia, o meno, un’impresa trasferita ai sensi della direttiva, nel qual caso i lavoratori dovrebbero, di conseguenza, essere protetti dal rischio di licenziamento collettivo. Solo rispondendo a questa domanda si potrà poi valutare il ruolo della Corte Suprema portoghese nell’aver evitato di sollevare il rinvio pregiudiziale. La Corte di giustizia segue pedissequamente le conclusioni dell’avvocato generale e concorda sull’applicabilità della direttiva. Infatti, la TAP aveva continuato in maniera sostanziale le attività poste in essere precedentemente dalla AIA avvalendosi anche delle strutture, dei macchinari e di parte del personale di quest’ultima. In particolare, se è vero che la mera continuazione non è di per sé elemento sufficiente per attivare le tutele previste dalla direttiva, è altrettanto vero che la TAP ha usato «elementi patrimoniali indispensabili»(conclusioni, punto 46) per la prosecuzione delle attività. Pertanto, è possibile affermare che il trasferimento di impresa abbia avuto esito positivo e che i diritti dei lavoratori debbano trovare salvaguardia secondo la lettera della direttiva 2001/23.

Secondo l’avvocato generale Bot, tale conclusione sarebbe un passaggio obbligato in quanto chiaramente ricavabile dalla giurisprudenza della Corte di giustizia e, da ultimo, dalla sentenza del 12 febbraio 2009, causa C-466/07, Klarenberg, decisa pochi giorni prima della pronuncia della Corte suprema nazionale. Alla luce di tale precedente, l’avvocato generale contesta l’intero impianto della sentenza portoghese sconfessandone tutte le argomentazioni. Egli, infatti, utilizza le norme della direttiva, come già interpretate dalla Corte di giustizia, per dimostrare che la Corte suprema avrebbe dovuto necessariamente effettuare il rinvio. Tale operazione ermeneutica lo conduce a cassare l’iter logico-giuridico che ha indotto la Corte suprema a considerare legittimo il licenziamento collettivo dei lavoratori della AIA. Tuttavia, così facendo, l’avvocato generale sembra assumere le vesti di una parte della controversia, finendo quindi per aggirare sia i limiti delle proprie prerogative sia quelli imposti dal meccanismo di cooperazione istituito dall’art. 267 TFUE. Ad ogni modo, bisogna anche riconoscere che la durezza delle sue conclusioni sembra non derivare dall’ignoranza (scusabile?) della giurisprudenza in materia di trasferimento di impresa e tutela dei diritti dei lavoratori –seppur dirimente ai fini della controversia principale- quanto piuttosto dalla negligenza dimostrata dalla Corte suprema portoghese nel non aver attivato la procedura di rinvio pregiudiziale.

3. L’analisi prosegue con le circostanze che avrebbero dovuto indurre la Corte suprema ad effettuare il rinvio e tra di esse spicca l’asserita contraddittorietà delle decisioni dei giudici di livello inferiore. L’ipotesi viene rapidamente esclusa dalla Corte di giustizia (sentenza, punto 41) la quale afferma che tale elemento non può di per sé fondare l’obbligo della questione pregiudiziale.

L’avvocato generale prima e la Corte di giustizia poi richiamano i consolidati principi della sentenza del 6 ottobre 1982, causa 283/81, Cilfit, in presenza dei quali il giudice, quand’anche di ultima istanza, può evitare di esperire un rinvio interpretativo alla Corte. È noto che – ferma restando, la pertinenza della questione, intesa come la sua capacità di influire sulla controversia; aspetto del tutto pacifico nel caso Ferreira Da Silva,-  il giudice di ultima istanza – debitamente motivando la propria scelta – potrebbe decidere di non esperire il rinvio qualora la questione sia materialmente identica ad altre che siano già state sollevate e decise, oppure se la giurisprudenza pertinente in materia è costante, o, infine, secondo la c.d. teoria dell’atto chiaro, se l’interpretazione di una norma «può imporsi con una tale evidenza da non lasciar adito ad alcun ragionevole dubbio» (sentenza Cilfit, punto 16).

Tuttavia, i suddetti criteri risultano inapplicabili al caso Ferreira Da Silva poiché la giurisprudenza in materia di trasferimento di impresa non è affatto consolidata. Anzi, la Corte e l’avvocato generale sottolineano come detta nozione sia ancora oggetto di forti dubbi interpretativi da parte dei giudici nazionali e della Corte stessa, la quale è stata più e più volte chiamata ad intervenire per cercare di chiarirli. Alla luce di queste circostanze, occorre verificare l’impatto della massima Cilfit, che, comunque, rimane caratterizzata da un’interpretazione restrittiva in quanto eccezione all’obbligo del rinvio. La sentenza Ferreira Da Silva non offre un’analisi accurata dei principi enunciati in precedenza ma si concentra sulle caratteristiche delle pronunce sul trasferimento di impresa. Qui si rinviene un altro passaggio non sufficientemente chiaro. E’ possibile sostenere che non ci sia una giurisprudenza costante e univoca in materia argomentando semplicemente che ci sono stati troppi rinvii e troppe sentenze? In altri termini, e a contrario, si può dimostrare empiricamente che una norma sia ormai così chiara da non richiedere più alcuna interpretazione?

La questione diventa ancora più vitale se si considerano gli altri due parametri accennati nel caso Ferreira Da Silva. In primo luogo, se solo i giudici di ultima istanza hanno l’obbligo del rinvio, bisogna considerare solo i rinvii da loro provenienti ovvero solo la loro interpretazione per verificare la chiarezza di una disposizione di diritto dell’Unione? Un tale approccio restringerebbe ulteriormente le condizioni previste dalla massima Cilfit al punto da renderla praticamente inapplicabile. In secondo luogo, e qui si registra un ulteriore punto di criticità sia nelle conclusioni dell’avvocato generale che nella sentenza, viene più volte evidenziato che nell’ambito del trasferimento di impresa le situazioni fattuali sono di maggior importanza rispetto a quelle giuridiche. Se ne deve dedurre, quindi, che, poiché i fatti alla base di una controversia sono sempre diversi per definizione, è de facto impossibile stabilire la coerenza o meno di un approccio giurisprudenziale.

L’avvocato generale Bot sembra mitigare le conseguenze di una simile impostazione riferendosi costantemente al citato caso Klarenberg, riguardante la medesima problematica ma nel settore del trasporto tramite pullman. A suo avviso, se la Corte suprema portoghese avesse utilizzato tale precedente sarebbe giunta alla corretta interpretazione della direttiva. Anche qui, però, la contro-argomentazione diventa circolare: e se si fosse trattato di un caso riguardante, ad esempio, beni immateriali quali brevetti o proprietà intellettuale? Delle due l’una: o la Corte di giustizia ammette l’assenza di intelligibilità delle disposizioni della direttiva – e sembra che sia questa la strada preferita dai giudici di Lussemburgo – oppure riconosce esplicitamente che, nell’ambito del trasferimento di impresa devono essere le argomentazioni fattuali a prevalere su quelle giuridiche. Ciò equivarrebbe ad escludere ogni possibile utilizzo della massima Cilfit in questo settore. Il che, tra l’altro, spinge a porsi un altro interrogativo: quale livello di conoscenza del diritto dell’Unione e, in particolare della giurisprudenza della Corte, deve avere un giudice nazionale? Riconoscendo l’onniscienza come utopia, pare non esserci (rectius, poterci essere) risposta soddisfacente al quesito. Resta comunque fermo che, in assenza di rinvio, il giudice nazionale ha l’obbligo di motivare l’iter logico-giuridico che lo ha condotto ad escludere l’intervento della Corte.

4. L’ultimo aspetto da affrontare concerne le specificità della legislazione nazionale nella misura in cui per esperire l’azione di risarcimento del danno si richiede il previo annullamento della decisione lesiva. A tal fine, occorre però dimostrare che essa sia manifestamente incostituzionale o illegittima o ingiustificata per errore manifesto nella valutazione dei fatti. Inoltre, si registra l’assenza di ulteriori indicazioni sull’identità del soggetto deputato ad annullare la decisione stessa. La tecnica normativa portoghese sembra indirettamente richiamare il ragionamento della Corte costituzionale italiana quando dichiarò la necessità di un intervento da parte del legislatore per abrogare le normative in contrasto con il diritto dell’Unione invece di lasciare ai giudici di merito la facoltà di disapplicarle in virtù del principio del primato (v. sentenza del 22 ottobre 1975, n. 232, ICIC) .

La Corte analizza quindi l’art. 13 della legge portoghese n. 67/2007 alla luce dei principi di effettività ed equivalenza. Secondo il Portogallo, le limitazioni imposte dalla disposizione in commento e, nello specifico, l’annullamento della decisione lesiva quale presupposto per l’esperimento dell’azione risarcitoria, sono necessarie per salvaguardare il principio della res judicata(v. sentenza del 18 luglio 2007, causa C-119/05, Lucchini e sentenza del 3 settembre 2009, causa C-2/08, Fallimento Olimpiclub) ma la Corte statuisce nettamente che «il riconoscimento del principio della responsabilità dello Stato […] non ha di per sé come conseguenza di rimettere in discussione l’autorità della cosa definitivamente giudicata di una tale decisione» (sentenza, punto 55). Ancora, anche il principio della certezza del diritto deve cedere di fronte alla responsabilità dello Stato nella misura in cui la salvaguardia del primo a scapito del secondo priverebbe i singoli, da un lato, dei diritti derivanti dall’ordinamento giuridico dell’Unione; dall’altro, negherebbe che il sistema della responsabilità extracontrattuale è insito nei Trattati e trova il proprio fondamento nell’obbligo di leale cooperazione (art. 4, par. 3, TUE).

La sentenza della Corte dichiara inequivocabilmente che il diritto dell’Unione osta alle disposizioni portoghesi in materia di risarcimento del danno derivante da fatto illecito degli organi giurisdizionali poiché la legislazione nazionale richiede, come previa condizione, l’annullamento della decisione lesiva emessa da tale organo, e un simile annullamento è, in pratica, escluso (punto 60). La conclusione è ulteriormente avvalorata dal richiamo da parte dell’avvocato Generale Bot al ruolo dei giudici nazionali (art. 19 TUE).

Sebbene il caso Köbler rappresenti la pietra miliare della responsabilità dello Stato per fatto dei giudici nazionali, ci si sarebbe aspettati che la Corte o l’avvocato generale fornissero al giudice del rinvio i criteri per verificare la responsabilità stessa. Ciò non avviene esplicitamente ma in maniera velata. Infatti, si è già evidenziato che le conclusioni dell’avvocato generale e la sentenza della Corte cassano, nel vero senso della parola, la pronuncia della Corte suprema portoghese. Di conseguenza, nelle loro pieghe, si possono rinvenire gli elementi forniti al giudice del rinvio a fondamento della responsabilità del Portogallo per fatto del suo giudice. La violazione, come ampiamente statuito, è chiara e manifesta (obbligo del rinvio, ex art. 267, par. 3, TFUE) e la direttiva conferisce diritti ai singoli (in particolare gli artt. 3 par. 1 e 4 par. 1); sembra quindi ragionevole supporre anche il nesso di causalità tra i due elementi.

5. Se è possibile avanzare un’ultima critica a una sentenza apparentemente ineccepibile è l’assenza del dovuto riferimento all’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione e al concetto di effettività del ricorso giurisdizionale. Infatti, come sostenuto dall’avvocato generale e dalla Corte, la legislazione portoghese rispetta il principio di equivalenza ma non quello di effettività. È sufficiente affermare che il principio di autonomia procedurale è connaturato al Trattato ma sarebbe stato auspicabile un ancoraggio dello stesso anche ai diritti fondamentali poiché essi stessi sono ormai parte integrante del diritto primario.

La sentenza Ferreira da Silva rappresenta dunque un autorevole precedente sotto due profili: da un lato, restringe ancora di più i criteri della giurisprudenza Cilfit relegandola definitivamente, se mai ce ne fosse ancora bisogno, al ruolo di caso limite di applicazione eccezionale; dall’altro lato, ponendosi nel solco di una giurisprudenza sempre più, essa sì, consolidata, censura le normative nazionali che frustrano le ragionevoli aspettative di risarcimento del danno, subordinandolo all’annullamento della decisione lesiva. Sarebbe interessante capire quanti altri Stati membri abbiano in vigore legislazioni simili ma al momento non si hanno notizie di un’azione di monitoraggio da parte della Commissione. Il che accresce ulteriormente il ruolo di garante dei diritti degli individui svolto dalla Corte di giustizia.


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