La direttiva (UE) 2017/1371 del 5 luglio 2017: la protezione degli interessi finanziari UE mediante il diritto penale

1. Introduzione

La direttiva (UE) 2017/1371 del 5 luglio 2017 si inserisce in un settore – quello della tutela degli interessi finanziari UE – che ha sempre goduto di una particolare attenzione da parte dell’Unione (e, prima, delle Comunità) europea: presidiare il proprio budget risulta essenziale affinché gli obiettivi delineati dai Trattati possano essere validamente realizzati. A questo fine, è necessario che l’Unione possa proteggere il proprio bilancio da ogni forma di aggressione fraudolenta che comporti indebiti benefici per gli autori di tali reati e un grave vulnus agli interessi finanziari.

Già nel 1995 sono stati adottati, pur sulle diverse basi giuridiche allora esistenti (art. 235 TCE per il regolamento e art. K.3 TUE per la convenzione, ovviamente secondo le versioni dei trattati all’epoca vigenti), due atti di portata assai rilevante: nel luglio di quell’anno è stato assunto, dal Consiglio, un atto contenente la proposta di convenzione relativa alla protezione degli interessi finanziari delle Comunità europee, poi sottoscritta e divenuta nota sotto l’etichetta di convenzione PIF; nel mese di dicembre, invece, il Consiglio ha adottato il regolamento (CE, EURATOM) n. 2988/95, con cui si stabiliva un sistema di sanzioni amministrative a presidio delle finanze comunitarie.

In particolare, la Convenzione PIF rispondeva allo scopo di lottare, a mezzo di sanzioni penali, contro le azioni criminose e fraudolente consumate a livello transnazionale, ormai notevolmente accresciute per volume. Sebbene tale nuovo strumento dettagliasse le condotte e le omissioni che costituiscono frode nei confronti del bilancio comunitario (art. 1) e esigesse (art. 2) almeno nei casi di frode grave – quelle il cui ammontare superi i cinquantamila euro – l’irrogazione di pene privative della libertà personale, per una pluralità di motivi – legati, in particolare, alla natura convenzionale dello strumento adottato – ben evidenziati, nel 2004, dalla Commissione nella sua relazione sull’applicazione di tale atto, ancora non era stato «soddisfatto efficacemente il fabbisogno specifico di tutela penale degli interessi finanziari delle Comunità»(cfr. par. 3 della relazione stessa).

Sin dai primissimi tempi successivi all’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, la Commissione ha palesato, mediante apposita comunicazione, la COM (2011) 293, il proprio intento verso una «politica integrata volta a tutelare gli interessi finanziari dell’Unione europea attraverso il diritto penale […] coerente, credibile ed efficace», a fronte del fatto che «l’ampia gamma [di] sistemi giuridici rende particolarmente difficile» la protezione di tale bene giuridico. Un intervento più penetrante è stato reso possibile dal riconoscimento di più incisive competenze all’UE, non soltanto nel settore del ravvicinamento delle disposizioni di diritto penale sostanziale (art. 83 TFUE), ma, soprattutto, nella specifica materia della protezione degli interessi finanziari dell’Unione (art. 325 TFUE), rispetto alla quale non opera più il divieto di introdurre disposizioni che riguardino l’applicazione del diritto penale nazionale, come in precedenza disponeva l’art. 280, par. 4, TCE.

2. La (lunga) genesi della direttiva.

Nel luglio 2012, la Commissione europea ha presentato una proposta di direttiva per una migliore tutela degli interessi finanziari europei attraverso la legge penale.

L’intervento si proponeva lo scopo di sostituire la convenzione PIF del 1995, in modo tale da superare le lacune in merito alle modalità di attuazione della stessa riscontrate da parte della Commissione, di inserire la disciplina all’interno del nuovo quadro giuridico definito dal Trattato di Lisbona e di porre rimedio alle sostanziali disomogeneità che, su queste materie, si erano registrate nei singoli Stati membri.

La proposta della Commissione, già ab origine valutata troppo timida (cfr. L. Picotti), è stata resa ancor meno incisiva nel corso dell’iter normativo, in cui forti si sono fatte sentire le resistenze politiche degli Stati membri a fronte della possibilità di un intervento troppo marcato da parte dell’Unione.

L’esito delle prime negoziazioni in Consiglio ha condotto ad una profonda revisione dell’articolato proposto dalla Commissione e ad una serie di modifiche volte a ridurre, pressoché totalmente, la portata innovativa della direttiva (eliminazione del reato di frode in procedure d’appalto, rimozione delle soglie minime delle sanzioni, modifica della norma in tema di prescrizione così da far contemplare un generico obbligo in capo agli Stati di perseguire i reati in tempi utili: questi sono i principali correttivi apposti, secondo la ricostruzione effettuata da A. Venegoni, Il difficile cammino della proposta di direttiva per la protezione degli interessi finanziari dell’Unione europea attraverso la legge penale (cd. direttiva PIF): il problema della base legale, in Cass. pen., 2015, p. 2442 ss.).

Nell’aprile 2014, tuttavia, il Parlamento europeo ha riproposto, nella propria prima lettura, un testo più vicino a quello che era stato redatto dalla Commissione, con ciò introducendo nuovamente buona parte degli elementi espunti dal Consiglio.

Merita particolare attenzione, poi, la diversa identificazione della base giuridica della direttiva, poiché il Consiglio (cfr. parere giuridico del proprio apposito servizio del 22 ottobre 2012) si è fin da subito orientato ad assumere a fondamento dell’atto l’art. 83, par. 2, TFUE, anziché l’originario art. 325 TFUE individuato/scelto dalla Commissione. Il Parlamento, nel proprio parere, non ha ripristinato l’impostazione della Commissione, allineandosi quindi al Consiglio.

Quest’ultimo ha ritenuto opportuna tale modifica sull’assunto che l’art. 83 TFUE costituisce la nuova base legale generale per ogni intervento in tema di diritto penale dell’Unione, quale che sia il tipo di competenza impiegata (autonoma, ex par. 1 o accessoria, ex par. 2). Il fatto che l’art. 325 TFUE non contenga più il discusso inciso finale si deve al carattere pleonastico che esso ormai avrebbe, poiché il Trattato di Lisbona ha introdotto una generale competenza penale dell’Unione, di cui all’art. 83 TFUE, a cui si dovrebbero ricondurre anche gli interventi, incidenti sulle norme penali nazionali, orientati alla protezione degli interessi finanziari europei.

Nonostante ulteriori negoziati, la base giuridica è rimasta ferma nell’art. 83, par. 2, TFUE (come si apprende dalla lettura del considerando n. 4 della direttiva stessa), con tutte le conseguenze legate a tale scelta, in quanto l’art. 325 TFUE costituisce, sicuramente, una base giuridica capace di consentire un intervento più significativo sulle legislazioni degli Stati membri (non v’è l’obbligo di ricorrere alle sole direttive, viene meno il richiamo all’introduzione delle «norme minime», l’art. 325 TFUE utilizza forme verbali non servili, non esistono freni di emergenza né il regime di opt out che, come noto, caratterizza la posizione di Regno Unito, Irlanda e Danimarca rispetto al titolo V della parte III del TFUE (sullo Spazio di libertà, sicurezza e giustizia), cui anche l’art. 83 appartiene: queste le principali divergenze).

3. I caratteri salienti della direttiva in esame.

Il considerando n. 4 della direttiva – che, come anticipato, contiene l’indicazione della base giuridica – evidenzia, in particolare, come la materia della tutela degli interessi finanziari sia già stata oggetto di armonizzazione da parte delle istituzioni mediante il regolamento n. 2988/95 e come, allo scopo di garantirne l’attuazione, sia ora essenziale procedere al ravvicinamento dei precetti penali degli Stati membri per le condotte più gravi all’interno di tale settore.

Il considerando n. 16, invece, ricorda che la direttiva detta soltanto norme minime, di talché agli Stati membri è data facoltà di mantenere in vigore o adottare norme più rigorose per i reati che, ai sensi della nuova disciplina UE, debbono essere puniti.

Ai sensi, invece, del considerando n. 17, questa direttiva non osta all’adeguata ed efficace applicazione di misure disciplinari o di sanzioni diverse da quelle di natura penale, ma – in ogni caso – bisogna porre particolare attenzione al rispetto del principio del ne bis in idem, in modo tale che lo stesso soggetto non sia giudicato o punito due volte per lo stesso fatto: il considerando n. 21 aggiunge che il medesimo principio dovrebbe essere garantito anche a livello transnazionale.

Importante anche il richiamo, effettuato dal considerando n. L’auspicato effetto deterrente dell’applicazione di sanzioni penali impone particolare cautela con riferimento ai diritti fondamentali. La presente direttiva rispetta i diritti fondamentali e osserva i principi riconosciuti, in particolare, dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea («Carta»), segnatamente il diritto alla libertà e alla sicurezza, la protezione dei dati di carattere personale, la libertà professionale e il diritto di lavorare, la libertà d’impresa, il diritto di proprietà, il diritto a un ricorso effettivo e a un giudice imparziale, la presunzione d’innocenza e i diritti della difesa, i principi della legalità e della proporzionalità dei reati e delle pene e il principio del ne bis in idem. La presente direttiva mira a garantire il pieno rispetto di tali diritti e principi e deve essere attuata di conseguenza.

I considerando nn. 36-38 specificano, infine, che questo strumento normativo sarà vincolante per l’Irlanda, non invece per il Regno Unito e la Danimarca: ne segue che la nuova direttiva si applicherà soltanto a 26 Stati membri (art. 16).

La direttiva in esame si apre con l’identificazione del proprio oggetto (art. 1), ovvero la fissazione di «norme minime riguardo alla definizione di reati e di sanzioni in materia di lotta contro la frode e altre attività illegali che ledono gli interessi finanziari dell’Unione, al fine di rafforzare la protezione contro reati che ledono tali interessi finanziari». A tal fine, sin dagli esordi (art. 2), vengono chiarite le nozioni di “interessi finanziari”, per cui, ai sensi dell’art. 2, par. 1, lett. a), «si intendono tutte le entrate, le spese e i beni che sono coperti o acquisiti oppure dovuti in virtù: i) del bilancio dell’Unione; ii) dei bilanci di istituzioni, organi e organismi dell’Unione istituiti in virtù dei trattati o dei bilanci da questi direttamente o indirettamente gestiti e controllati» e di “persona giuridica” (lett. b), da intendersi quale «entità che abbia personalità giuridica in forza del diritto applicabile, ad eccezione degli Stati o di altri organismi pubblici nell’esercizio dei pubblici poteri e delle organizzazioni internazionali pubbliche».

Il successivo par. 2 chiarisce che, in materia di risorse provenienti dal sistema IVA, la direttiva si applica solo in caso di reati gravi, ovvero soltanto nel caso in cui la condotta fraudolenta (attiva od omissiva) comporti un danno complessivo almeno pari a dieci milioni di euro e sia connessa a due o più Stati membri: una soglia che, a sommesso avviso di chi scrive, pare troppo elevata e trascura, ai fini della protezione degli interessi UE, tutte quelle frodi che non raggiungono tale livello, ma restano in ogni caso connotate da una intrinseca rilevanza, in quanto ammontano a centinaia di migliaia – o milioni – di euro.

Gli artt. 3 e 4 (titolo II) sono quindi dedicati ad una precisa analisi dei reati che ledono gli interessi finanziari dell’Unione: sui Paesi gravano quindi precisi obblighi di incriminazione per le tipologie di condotte ivi descritte.

L’art. 3, par. 2, definisce in modo analitico la nozione di frode lesiva degli interessi finanziari. Essa si articola in quattro punti, che, in particolare, riguardano: (i) la materia delle spese sostenute dall’Unione e non relative agli appalti, (ii) la materia delle spese sostenute dall’Unione e relative agli appalti, (iii) la materia delle entrate dell’Unione, diverse dalle risorse proprie provenienti dall’IVA, (iv) la materia delle entrate derivanti dalle risorse IVA.

Le diverse forme di frode si possono realizzare secondo specifiche modalità, che – per quanto ripetute in ogni punto – possono essere sintetizzate in tre marco-tipologie. Un primo paradigma di condotta fraudolenta si sostanzia nell’utilizzo o presentazione di dichiarazioni o documenti falsi, inesatti o incompleti, cui segua il conseguimento di un indebito beneficio per l’agente, con danno del bilancio UE. Il secondo modello, invece, coincide con la mancata comunicazione di informazioni, a fronte di un preciso obbligo in tal senso, da cui derivino le medesime conseguenze. Il terzo tipo di condotta fraudolenta, invece, si rinviene nella distrazione di somme o benefici (ovvero il conseguimento a finalità incompatibili con quelle originarie); per quanto riguarda la materia IVA, il terzo modello fraudolento si concretizza ove siano presentate dichiarazioni tributarie dissimulanti il mancato versamento di somme ovvero vantanti illegittimi crediti d’imposta.

L’art. 4 poi impone specifici obblighi d’incriminazione per reati che, pur essendo diversi dalle condotte fraudolente direttamente tese a far conseguire un vantaggio all’agente con danno del bilancio UE, sono in grado di vulnerare il medesimo bene giuridico. Si tratta di reati quali il riciclaggio di denaro (con rinvio alla direttiva 2015/849/UE) commesso con beni tratti dalla consumazione di altro reato individuato dalla direttiva in esame, la corruzione, passiva e attiva, come definita ai parr. 2 lettere a) e b) e l’appropriazione indebita (par. 3).

L’art. 4, par. 4, provvede a definire la nozione di “funzionario pubblico” – come funzionario “dell’Unione” o come “nazionale” – e ad essa equipara quella di «qualunque altra persona a cui siano state assegnate o che eserciti funzioni di pubblico servizio» (par. 4, lett. b).

Il Titolo III detta poi ulteriori disposizioni generali di grande rilievo. Premesso che, rispetto ai reati summenzionati, si debbono punire anche le forme di istigazione, concorso, favoreggiamento e tentativo (senza, tuttavia, alcuna definizione autonoma: sul punto, si veda l’art. 5) e che deve essere considerata come circostanza aggravante l’ipotesi della consumazione di tali reati nell’ambito di un’organizzazione criminale (art. 8, con rinvio alla decisione quadro 2008/841/GAI), l’art. 6 stabilisce altresì che dovranno ritenersi responsabili quelle persone giuridiche (come definite in apertura di direttiva) che abbiano tratto beneficio dalla consumazione di tali reati, qualora questi siano stati commessi da parte dei membri apicali delle stesse, ovvero a seguito dell’omissione di controlli da parte dei vertici societari. L’art. 9, sempre in tema di persone giuridiche, stabilisce che esse saranno sottoposte a sanzioni pecuniarie o di altra natura, che spaziano dalle interdizioni fino, addirittura, allo scioglimento dell’ente.

Quanto alle persone fisiche (art. 8), dopo il consueto richiamo alla natura effettiva, proporzionata e dissuasiva delle sanzioni, si prevede che per i reati di cui agli artt. 3 e 4 della direttiva debba essere prevista, come pena massima, una forma di reclusione (par. 2): in caso di danni e vantaggi considerevoli – considerati tali ove sia superata la soglia dei centomila euro, salvo quanto già detto in materia di frodi IVA – l’edittale massimo non potrà essere inferiore a quattro anni (par. 3). Nel caso di danni e vantaggi inferiori a diecimila euro, possono essere disposte sanzioni di natura non penale (par. 4).

Ai sensi dell’art. 10, per i reati previsti dalla direttiva dovranno essere assunte opportune misure perché le competenti autorità giudiziarie possano disporre forme di congelamento e confisca dei proventi dei reati, in ossequio a quanto stabilito dalla direttiva 2014/42/UE.

Particolarmente rilevante è, poi, l’art. 12, in materia di termini di prescrizione: si tratta del primo caso di direttiva UE in cui si dettano disposizioni circa questa causa estintiva (sul cui rapporto con il diritto dell’Unione si è detto moltissimo all’esito dell’ormai celebre vicenda Taricco).

Agli Stati membri è chiesto di adottare misure tali da consentire l’intero svolgimento del procedimento penale, onde realizzare un contrasto efficace dei reati che ledono gli interessi finanziari UE (par. 1). Il periodo necessario a prescrivere il reato non può essere inferiore a cinque anni (par. 2), che possono essere diminuiti a tre (par. 3) ove siano previsti termini interruttivi o sospensivi in caso di determinati atti. Il par. 4, in punto di prescrizione della pena, esige che le pene detentive possano essere eseguite per almeno cinque anni dalla data della condanna definitiva.

Gli artt. 13 e 14, infine, ribadiscono che l’applicazione della direttiva non pregiudica il recupero delle somme indebitamente sottratte all’Unione o del quantum non versato a titolo IVA (in questo secondo caso, si provvederà a livello nazionale); altrettanto, l’avvio di un procedimento penale sulla base di disposizioni penali nazionali attuative di questa nuova disciplina non dovrà indebitamente pregiudicare l’applicazione di misure amministrative non assimilabili a quelle sanzionatorie, pur nel rispetto dei diritti stabiliti dalla Carta dei diritti fondamentali (considerando nn. 28 e 31).

L’art. 15, in chiusura, ribadisce l’esigenza di cooperazione tra Stati membri, Eurojust, la (futura) Procura europea e la Commissione.

Il termine per la trasposizione della direttiva è il 6 luglio 2019: entro tale data gli Stati membri sono chiamati ad adottare le disposizioni normative volte a conformare il proprio ordinamento alla nuova disciplina. A far effetto da tale data, la convenzione PIF – come già sottolineato – sarà dunque sostituita dalla direttiva (artt. 16 e 17).

Se è vero che i negoziati tra istituzioni e Governi nazionali possono aver comportato qualche involuzione rispetto alla proposta originaria della Commissione, è altrettanto evidente come questa direttiva segni un decisivo passo in avanti nella lotta contro la frode degli interessi finanziari dell’Unione, pur considerati i profili critici già accennati: essa stabilisce chiari e precisi obblighi di incriminazione rispetto a condotte che, vulnerando in modo grave e profondo gli interessi dell’intera Unione, danneggiano tutti i consociati. In tal senso, è lecito condividere la preoccupazione per il rischio di impunità – o di insufficiente capacità dissuasiva delle sanzioni irrogate – a fronte di continue condotte evasive, distrattive, fraudolente (per un’interessante analisi, cfr. Ziccardi Capaldo), il cui disvalore risulta oltremodo accentuato e che, proprio per questo, non possono che essere debitamente sanzionate da ogni legislatore in modo effettivo e dissuasivo.

 


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