La difficile attuazione della Convenzione di Århus: accesso alla giustizia in materia ambientale e adattamento al diritto internazionale nella sentenza Stichting Natuur en Milieu
Con pronuncia del 13 gennaio sulle cause riunite C-404/12 e C-405/12, la Corte di Giustizia ha aggiunto un nuovo tassello al quadro, già relativamente composito, della giurisprudenza riguardante l’attuazione della convenzione UNECE sull’accesso alle informazioni, la partecipazione del pubblico ai processi decisionali e l’accesso alla giustizia in materia ambientale (convenzione di Århus), con particolare riferimento al regolamento CE n. 1367/2006, che ne è un atto attuativo.
Il Tribunale, in primo grado, l’Avvocato Generale e poi la Corte di Giustizia, hanno affrontato e risolto il caso da tre diverse prospettive, valorizzando differenti elementi del quadro normativo ed evidenziando così i molteplici profili problematici.
Il quadro normativo ed i fatti di causa
L’adeguamento alla convenzione di Århus da parte dell’Unione Europea è avvenuta con una pluralità di atti, alcuni hanno come destinatari gli Stati membri quando agiscono nell’attuazione del diritto dell’Unione (direttiva 2003/4/CE, direttiva 2003/35/CE), altri, invece, vincolano le istituzioni e gli organi dell’Unione, come il regolamento n. 1367/2006, oggetto della causa in esame.
Quest’ultimo sfruttando una delle possibilità previste dall’art. 9 della Convenzione istituisce, al suo art. 10, un procedimento di riesame interno dei provvedimenti «di portata individuale […] adottat[i] da un’istituzione o da un organo comunitari e avent[i] effetti esterni e giuridicamente vincolanti» (art. 2, co. 1, lett. g). Tale procedimento rientra tra le misure volte a garantire l’accesso alla giustizia in materia ambientale e costituisce una fase prodromica alla proposizione di ricorso.
Il procedimento di riesame interno non è però attivabile allorché gli organi e le istituzioni dell’Unione «agiscono nell’esercizio del potere legislativo», conformemente a quanto previsto dalla convenzione di Århus (art. 2, no. 2).
Stichting Natuur en Milieu e Pesticide Action Network, due fondazioni olandesi dedite alla difesa dell’ambiente, si avvalsero della procedura di riesame interno nel 2008, per ottenere la revisione del regolamento CE n. 149/2008, ovvero un regolamento della Commissione che, in attuazione della delega contenuta nel regolamento CE n. 396/2005, fissa i livelli massimi di residui degli antiparassitari sui prodotti alimentari.
La Commissione, con decisione, rifiutò di procedere al riesame del provvedimento contestato poiché si trattava di un atto di portata generale.
Le ricorrenti, impugnando le decisioni di diniego di riesame, sollevarono in via incidentale eccezione di illegittimità del regolamento n. 1367/2006 rispetto alla convenzione di Århus, nella misura in cui limita il procedimento di riesame agli atti di portata individuale.
La sentenza del Tribunale
La sentenza del Tribunale del 14 giugno 2012 era stata favorevole alle ricorrenti. Il giudice aveva infatti ritenuto che il regolamento n. 1367/2006 fosse sindacabile alla luce del parametro rappresentato dalla Convenzione, in quanto atto adottato in adempimento agli obblighi internazionali che quest’ultima impone all’Unione, concludendo nel merito per l’illegittimità della limitazione del procedimento di riesame interno ai soli provvedimenti di portata individuale.
Per ben comprendere la portata della questione, è necessario sottolineare che il ricorso è stato proposto prima del Trattato di Lisbona, e quindi nella vigenza dell’art. 230 TCE. Tale norma, com’è noto, consentiva l’esperimento dell’azione di annullamento alle persone fisiche e giuridiche solo a condizione che queste fossero direttamente ed individualmente riguardate dall’atto impugnato. Questo costituiva un ostacolo piuttosto arduo a che un ricorrente non privilegiato proponesse un ricorso ricevibile avverso un atto di portata generale. Le iniziative intraprese in passato da diverse associazioni di difesa dell’ambiente ne sono un valido esempio (si vedano in proposito le ordinanze Greenpeace International, European Environmental Bureau, WWF-UK).
Il regolamento n. 1367/2006 intende porsi in continuità con la norma dell’art. 230 TCE, laddove limita la procedura di riesame interno ai soli atti di portata individuale. L’art. 12 di tale regolamento, infatti, attribuisce alle organizzazioni non governative promotrici di una domanda di riesame la legittimazione al ricorso in annullamento o in carenza avverso gli esiti della procedura. In assenza del requisito relativo alla portata individuale, dunque, le organizzazioni non governative avrebbero potuto (o quantomento cercato di) ottenere indirettamente un sindacato giurisdizionale anche su atti di portata generale, impugnando gli esiti della previa procedura di riesame.
Una soluzione di tal fatta era stata auspicata dall’Århus Compliance Committee nel rapporto ACCC/C/2008/3, ed è stata fatta propria dal Tribunale laddove ha concluso che «un procedimento di riesame interno che riguard[asse] solo provvedimenti di portata individuale avrebbe una portata molto limitata in quanto gli atti adottati in materia ambientale sono perlopiù di portata generale».
Si deve altresì sottolineare che la successiva entrata in vigore del Trattato di Lisbona ha riformato in maniera significativa il quadro normativo di riferimento: l’art. 263(4) TFUE supera infatti la necessità di dimostrare la sussistenza dell’interesse individuale almeno per quanto concerne l’impugnazione degli atti regolamentari che non comportano misure d’esecuzione. Se oggi un’associazione ambientalista intendesse impugnare un atto non legislativo di portata generale ben potrebbe farlo direttamente, senza necessità di promuovere prima il riesame interno ed impugnare successivamente la decisione conclusiva di quella procedura.
Alla luce di questa considerazione, la pronuncia del Tribunale, intervenuta dopo l’entrata in vigore della riforma dei Trattati, avrebbe dunque riallineato il regime di proponibilità del riesame interno con quello ormai vigente di proposizione del ricorso in annullamento, ex art 263 TFUE.
Le Conclusioni dell’Avvocato Generale
L’A.G. Jääskinen, nelle sue Conclusioni, si era espresso in favore della riforma della sentenza del Tribunale, invocando la già citata esclusione dall’ambito applicativo del regolamento n. 1367/2006 degli atti delle istituzioni che agiscono nell’esercizio del potere legislativo.
La Corte era già stata interpellata sull’interpretazione da dare all’inciso «nell’esercizio del potere legislativo» (sebbene nel quadro di un altro strumento attuativo della convenzione in parola, la direttiva 2003/4/CE) nella causa Flachgas Torgau. In quell’occasione, essa considerò rientranti nel regime d’eccezione i Ministeri degli Stati membri, in quanto partecipanti al procedimento legislativo con la presentazione di progetti di legge o pareri. L’estensione di tale regime alla Commissione in quanto agisca per completare un atto legislativo (nel caso di specie, il sopracitato regolamento 396/2005) con una normativa di dettaglio è forse meno immediatamente evidente, e richiede una riflessione approfondita sulla differenza tra competenze legislative delegate e competenze d’esecuzione, passibile in ultima analisi di ridurre il numero degli atti impugnabili.
La soluzione proposta dall’Avvocato generale, ma non seguita dalla Corte di giustizia, avrebbe senz’altro avuto il pregio di favorire un’interpretazione armoniosa dei diversi strumenti attuativi della Convenzione e, conseguentemente, un’interpretazione uniforme della Convenzione stessa (risultato che la stessa Corte aveva in passato auspicato, nella sentenza Lesoochranárske zoskupenie VLK).
La sentenza della Corte
La decisione della Corte si muove su un piano ancora diverso. La Convenzione di Århus, spiega la pronuncia, non può fungere da parametro nel giudizio di legittimità del regolamento 1367/2006 perché, da un lato, essa è sprovvista di effetto diretto (come già rilevato dal Tribunale) e, dall’altro lato, essa non soddisfa i requisiti necessari ad essere invocabile in giudizio quale parametro di legittimità del diritto derivato dell’Unione.
Quali sono dunque le caratteristiche che un trattato internazionale deve possedere per poter fondare il sindacato di legittimità dei propri atti attuativi? In proposito, la pronuncia richiama la giurisprudenza Fediol e Nakajima: «nel caso in cui l’Unione abbia inteso adempiere un obbligo particolare assunto nell’ambito degli accordi conclusi nel quadro dell’Organizzazione mondiale del commercio o qualora l’atto del diritto dell’Unione di cui trattasi rinvii espressamente a disposizioni precise di detti accordi, spetta alla Corte controllare la legittimità dell’atto di cui trattasi e degli atti adottati per la sua applicazione alla luce delle norme di tali accordi». Nel prosieguo viene però chiarito che le due ipotesi appena richiamate sono da considerarsi eccezionali.
Le due pronunce appena citate, si spiega al punto 49 della sentenza, sono eccezioni giustificate dalla peculiarità degli accordi internazionali che andavano ad applicare, e cioè rispettivamente il G.A.T.T. e l’Accordo relativo all’attuazione dell’art. VI del G.A.T.T. (Codice Antidumping).
Che il G.A.T.T. ed i trattati ad esso collegato possiedano delle caratteristiche tali da godere di maggiore giustiziabilità rispetto alla convenzione di Århus è un’affermazione piuttosto sorprendente alla luce della giurisprudenza precedente. A più riprese la Corte aveva infatti manifestato una certa riluttanza a dare attuazione giudiziale agli strumenti elaborati nel sistema O.M.C., temendo probabilmente di porre l’U.E. in una posizione di svantaggio rispetto alle altre parti contraenti (si vedano, ad esempio, gli argomenti spesi per escludere l’effetto diretto nelle sentenze Germania c. Consiglio e Portogallo c. Consiglio).
Sarebbe quindi lecito aspettarsi maggiori delucidazioni circa gli elementi di specialità di questi accordi, ma l’argomentazione della Corte si concentra sulla struttura degli strumenti attuativi oggetto del sindacato giurisdizionale in Fediol e Nakajima.
L’articolo 2 del regolamento n. 2641/84 (su cui verteva la causa Fediol) «rinviava espressamente alle norme del diritto internazionale e conferiva agli interessati il diritto di avvalersi delle disposizioni di quest’ultimo nell’ambito di una denuncia presentata in forza del medesimo regolamento, laddove invece, nel caso di specie, l’art. 10, del regolamento 1367/2006 non effettua alcun rinvio diretto a precise disposizioni della Convenzione di Århus né conferisce alcun diritto ai singoli». Vero è che l’art. 10 del regolamento n. 1367/2006 non conferisce ai singoli il diritto di avvalersi della Convenzione nell’ambito del procedimento di riesame interno, né rinvia a precise disposizioni della stessa. Rinviano invece alla Convenzione, in maniera puntuale e dettagliata, tanto l’intestazione quanto l’ampio preambolo del Regolamento: sarebbe allora inopportuno attribuire alla Convenzione una certa rilevanza nell’esegesi delle singole disposizioni del Regolamento?
Quanto al regolamento n. 2423/88, su cui verteva la causa Nakajima, la Corte sottolinea che esso era inserito nel sistema delle misure antidumping, sistema che «presenta una concezione ed un’applicazione di notevole densità, nel senso che prevede sanzioni nei confronti delle imprese accusate di ricorrere a pratiche di dumping». Il suddetto regolamento, quindi, «era stato adottato in conformità con gli obblighi internazionali vigenti della Comunità, in particolare quelli derivanti dall’accordo relativo all’attuazione dell’articolo VI del G.A.T.T., mentre, nel caso di specie, non può trattarsi della questione dell’attuazione […] di obblighi particolari ai sensi di detta sentenza, dal momento che, come risulta dall’articolo 9, paragrafo 3, della Convenzione di Århus, le parti contraenti di essa dispongono di un ampio margine di discrezionalità in ordine alla definizione delle modalità di attuazione dei ‘procedimenti di natura amministrativa o giurisdizionale’».
Con il riferimento alla «densità» del sistema e agli «obblighi particolari» in capo alle parti contraenti, la Corte sembra voler sottolineare la qualità chiara e precisa delle norme sostanziali e procedurali dettate dal Codice Antidumping. A queste qualità si può ragionevolmente fare riferimento per evidenziare l’eccezionalità del Codice Antidumping all’interno del contesto G.A.T.T./O.M.C.: la previsione di «obblighi particolari» assume rilievo perché sottrae il Codice Antidumping al principio della «reciproca convenienza» che fonda gli accordi O.M.C.
La convenzione di Århus, però, è già estranea al principio di «reciproca convenienza», poiché non istituisce obblighi reciproci tra le parti contraenti, bensì obblighi delle parti contraenti nei confronti dell’opinione pubblica e dei cittadini. Il suo grado di «densità» dovrebbe quindi essere valutato anche in relazione al suo spirito e alla sua struttura (com’è avvenuto nella vertenza Paesi Bassi c. Parlamento e Consiglio, relativamente alla Convenzione sulla diversità biologica).
La Corte ben avrebbe potuto, al limite, constatare che l’esclusione di alcuni provvedimenti dal procedimento amministrativo di riesame è legittima in virtù dell’ampio margine di discrezionalità lasciato alle parti, senza perciò rifiutare a priori il controllo del regolamento n. 1367/2006 alla luce della Convenzione.
La presenza di un margine di discrezionalità, in altre parole, non dovrebbe precludere il controllo sugli atti in cui quella stessa discrezionalità si è estrinsecata.
Dalla pronuncia in commento sembra invece si debba dedurre che i trattati internazionali, per costituire parametro di legittimità dei propri atti attuativi, debbano lasciare alle parti contraenti un certo margine di discrezionalità (donde la necessità degli atti attuativi stessi), ma … non troppa. Quanta discrezionalità sia “troppa”, evidentemente, sarà stabilito caso per caso.
Il regolamento 1367/2006, infine, non potrebbe, a detta della Corte, considerarsi attuativo della Convenzione di Århus ai sensi della giurisprudenza Nakajima perché non si estende ai procedimenti nazionali, che sono ancora regolati dal diritto interno (stante il naufragio della pertinente proposta di direttiva). Anche questa argomentazione suscita incertezze: se l’incompleta attuazione di un obbligo internazionale comportasse l’insindacabilità dei provvedimenti attuativi esistenti, questo costituirebbe evidentemente un disincentivo a conformarsi integralmente e tempestivamente agli impegni internazionali assunti.
Conclusioni
È impossibile non rilevare che questa pronuncia getta un’ombra di incertezza sull’effettivo adeguamento del diritto dell’Unione agli obblighi internazionali assunti dalla stessa, poiché irrigidisce significativamente le condizioni per l’invocabilità del diritto internazionale pattizio nell’ambito del sindacato di legittimità del diritto derivato.
Inoltre, le sue ricadute sulla materia dell’accesso alla giustizia in materia ambientale appaiono quantomeno discutibili: il mantenimento del requisito della portata individuale degli atti potenzialmente oggetto della procedura di riesame interno è poco giustificabile alla luce degli obblighi internazionali incombenti sull’Unione in virtù della convenzione di Århus, ed ancor meno giustificabile alla luce della parziale riforma della legittimazione ad agire dei ricorrenti non privilegiati conseguente alla revisione dei Trattati.
La pronuncia esclude, come si è detto, il riesame interno di atti non legislativi di portata generale, che potrebbero però formare ugualmente oggetto di impugnazione in quanto “atti regolamentari” ex art. 263, co. 4, TFUE. È evidente che, così facendo, si neutralizza il potenziale effetto deflattivo del contenzioso del riesame interno, poiché si elimina la possibilità di risolvere in quella sede le controversie tra Commissione ed organizzazioni di difesa dell’ambiente, e si lascia a queste ultime la sola via del ricorso giurisdizionale. Una valorizzazione del riesame interno, inoltre, sarebbe stata opportuna nell’ottica di offrire alle o.n.g. e all’amministrazione una sede dove trattare approfonditamente anche gli aspetti prettamente tecnico-scientifici della legislazione ambientale (che difficilmente saranno affrontati con un elevato grado di competenze specifiche da un organo giurisdizionale a competenza generale), ferma restando comunque la facoltà di adire l’autorità giudiziaria in un momento successivo.