La decisione della Corte di giustizia europea nel caso Kinsa: quali conseguenze per il délit de solidarité italiano?
Con la sentenza dello scorso 3 giugno, resa nel caso Kinsa (causa C-460/2023), la Grande Sezione della Corte di giustizia dell’Unione europea si è per la prima volta pronunciata sulla validità degli obblighi di incriminazione dettati dalla direttiva 2002/90/CE e dalla decisione quadro 2002/946/GAI (cd. Facilitators package) – fondamento normativo del cd. “délit de solidarité” – restringendone in via interpretativa il campo di applicazione.
A livello europeo, la pronuncia della Corte di giustizia si colloca in un contesto particolarmente “vivace” sul piano della regolazione giuridica della gestione delle frontiere esterne e delle politiche migratorie. In tale quadro si inseriscono, da un lato, il complesso processo di revisione del Facilitators Package, nonché la fase di attuazione del Nuovo Patto su Migrazione e Asilo, i cui diversi atti si applicheranno pienamente a decorrere da giugno 2026; dall’altro lato, assumono rilievo anche la proposta di un nuovo regolamento sulla gestione dei rimpatri e l’iniziativa della Commissione europea volta a precisare i criteri per la designazione di un Paese terzo sicuro. A ciò si aggiunge il recente intervento politico di alcuni governi dell’UE – tra cui quello italiano – che, attraverso una lettera aperta, hanno sollecitato la Corte europea dei diritti dell’uomo a riconsiderare l’attuale estensione interpretativa dei diritti umani in materia migratoria, invocando la necessità di tutelare la “sicurezza e stabilità delle nostre società”.
In questo contesto, la sentenza sul caso Kinsa era, evidentemente, molto attesa.
Anche a livello nazionale, però, le conclusioni della Corte di giustizia in merito alla necessità di interpretare in modo conforme ai diritti sanciti nella Carta gli oneri di incriminazione del favoreggiamento chiamano il giudice (e il legislatore) italiano a interrogarsi sulla adeguatezza dell’attuale normativa interna e sulla opportunità di restringere le ‘maglie larghe’ dell’art. 12 del d.lgs. 286/1998 (Testo unico in materia di immigrazione, TUI). Per queste ragioni, dopo una rapida disamina del caso a quo e delle conclusioni raggiunte dalla Corte, in questo breve contributo ci soffermeremo prevalentemente sugli effetti che la sentenza del caso Kinsa potrebbe dispiegare sul piano nazionale, mettendola in relazione con le riflessioni di dottrina e giurisprudenza che, già da tempo, evidenziano la sproporzione dell’art. 12 TUI.
Il caso Kinsa inizia nell’agosto del 2019 all’aeroporto di Bologna quando una donna di nazionalità congolese viene arrestata per aver provato a superare i controlli di frontiera esibendo passaporti falsi per se stessa e per due minorenni in viaggio con lei. Nei suoi confronti prende avvio dinnanzi al Tribunale di Bologna un processo penale per il reato di favoreggiamento dell’ingresso illegale di cittadini di un paese terzo, ai sensi dell’art. 12 co. 1 TUI, in concorso con il reato di possesso di documenti falsi, ex art. 497 bis c.p. (v. infra la declaratoria di illegittimità costituzionale delle due aggravanti dell’art. 12 co. 3 TUI inizialmente contestate alla donna).
Nel corso del procedimento la donna dichiara di essere fuggita dal proprio paese d’origine per sottrarsi alle minacce di morte rivolte a lei dall’ex compagno e di temere per l’incolumità delle due minori che l’accompagnavano, riconosciute essere, rispettivamente, la figlia e la nipote affidatale dalla sorella deceduta.
Dinanzi a questi fatti, accogliendo l’istanza di rinvio pregiudiziale ex art. 267 TFUE avanzata dalla difesa dell’imputata, il Tribunale di Bologna ha rimesso alla Corte di giustizia due quesiti in merito alla compatibilità con la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea tanto degli obblighi di incriminazione del favoreggiamento dell’immigrazione irregolare contenuti nel Facilitators pacakge, quanto dell’art. 12 TUI, che ne rappresenta la trasposizione nel diritto italiano.
In particolare, il giudice a quo ha seguito questo ragionamento: in primo luogo, ha osservato che la condotta della donna rientra, sul piano sostanziale, nella fattispecie di reato prevista dall’art. 12 co. 1 TUI («chiunque […] promuove, dirige, organizza, finanzia o effettua il trasporto di stranieri nel territorio dello Stato ovvero compie altri atti diretti a procurarne illegalmente l’ingresso nel territorio dello Stato»); in secondo luogo, che la scriminante di cui all’art. 12 co. 2 (cd. scriminante umanitaria) non è applicabile al caso concreto perché riguarda le sole attività di assistenza prestate nei confronti di stranieri già presenti sul territorio nazionale; infine, che tale quadro normativo – per quanto conforme al Facilitators package – contrasta con il principio di proporzionalità sancito dall’art. 52 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione, sia sotto il profilo della necessità di compressione dei diritti fondamentali garantiti dagli artt. 2 (diritto alla vita), 3 (integrità fisica), 6 (libertà personale), 7 (vita famigliare), 17 (patrimonio) e 18 (richiesta di asilo) della Carta, sia sotto il profilo del ragionevole bilanciamento tra gli interessi in gioco.
In altri termini, per il Tribunale di Bologna, tanto gli obblighi di incriminazione europei, quanto l’art. 12 TUI, realizzerebbero una sproporzionata compressione di tali diritti, imponendo pesanti sanzioni penali nei confronti di chiunque volontariamente favorisca (o tenti di favorire) l’ingresso irregolare di un cittadino straniero, a prescindere dalla presenza dello scopo di lucro o dalla sussistenza di finalità umanitarie o altruistiche.
Scostandosi dalle conclusioni dell’Avvocato generale, la Corte di giustizia UE ha affermato che la definizione di favoreggiamento dell’ingresso contenuta nel Facilitators package deve essere interpretata nel senso che «da un lato, non rientra nei comportamenti illeciti di favoreggiamento dell’ingresso illegale la condotta di una persona che, in violazione del regime di attraversamento delle frontiere da parte delle persone, fa entrare nel territorio di uno Stato membro minori cittadini di paesi terzi che l’accompagnano e di cui è effettivamente affidataria e, dall’altro lato, che tali articoli ostano una normativa nazionale che sanziona penalmente una siffatta condotta».
Per giungere a tale conclusione la Corte elabora un ragionamento che vale la pena richiamare, seppur rapidamente.
La Corte riconosce il carattere “aperto” della definizione di favoreggiamento, giustificato (o quantomeno spiegato) dalla volontà del legislatore europeo di «combattere» tale fenomeno «nelle sue diverse forme». Nonostante tale ampia formulazione, per la Corte, non può però essere accolta un’interpretazione così estensiva da far rientrare nei comportamenti illeciti anche la condotta di chi aiuti dei minori, di cui è affidatario/a, a entrare illegalmente nel territorio di uno Stato membro.
Ostano a tale conclusione gli obiettivi della stessa direttiva 2002/90, poiché «una siffatta condotta costituisce non già un favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, che la direttiva in parola mira a combattere, ma deriva dall’assunzione, da parte di tale persona, della responsabilità che le incombe in quanto affidataria di detti minori». Ogni diversa interpretazione comporterebbe un’ingerenza particolarmente grave: nel diritto al rispetto della vita familiare (art. 7); nei diritti del minore sanciti dall’art. 24 della Carta (disposizione opportunamente aggiunta dalla Corte all’elenco di diritti richiamati dal giudice a quo); e nel diritto di asilo (art. 18), quando, come nel caso di specie, la persona interessata abbia presentato anche domanda di protezione internazionale.
Raggiunte queste conclusioni, la Corte non si sofferma sulla validità della attuale formulazione europea della scriminante umanitaria (e sulla carattere facoltativo per gli Stati della sua adozione), posto che, a suo avviso, l’interpretazione fornita già da sola espunge dal raggio applicativo della fattispecie incriminatrice ogni forma di “assistenza umanitaria” equiparabile a quella del caso concreto.
Quale sorte, dunque, per l’art. 12 TUI?
Sul punto la Corte si limita a osservare che in sede di recepimento della direttiva 2002/90 gli Stati membri «non possono introdurre nel diritto nazionale norme che andrebbero oltre la portata dell’illecito di favoreggiamento dell’ingresso illegale, come definito da tale disposizione, includendovi comportamenti non contemplati da quest’ultima, in violazione degli articoli 7 e 24 nonché dell’articolo 52, paragrafo 1, della Carta». Di conseguenza, data anche la diretta invocabilità degli artt. 7 e 24 della Carta, «se il giudice del rinvio dovesse constatare che non è possibile interpretare il proprio diritto nazionale in modo conforme al diritto dell’Unione, esso sarebbe tenuto ad assicurare, nell’ambito delle sue competenze, la tutela giuridica spettante ai singoli in forza di tali articoli e a garantirne la piena efficacia, disapplicando all’occorrenza l’articolo 12 del testo unico sull’immigrazione».
La decisione della Corte europea qui brevemente esaminata non può che assumere, a parere di chi scrive, un valore positivo, avendo chiarito, almeno per alcune ipotesi, che vi sono dei limiti alla indiscriminata criminalizzazione delle condotte di favoreggiamento. Visto il contesto, nonché le conclusioni dell’Avvocato generale, non era certo una decisione scontata.
Da un punto di vista pratico, l’esito del giudizio a quo – sia che il giudice scelga di disapplicare, sia che pervenga a una interpretazione conforme delle disposizioni nazionali – verosimilmente non potrà che portare alla assoluzione dell’imputata (il suivi della sentenza potrà sarà pubblicato nella banca dati www.eurojusitalia.eu).
Per il giudice italiano, però, visto il tenore letterale del primo e del secondo comma dell’art. 12 TUI, la via della interpretazione conforme appare difficilmente percorribile: l’attuale quadro normativo, infatti, caratterizzato dalla incriminazione estesa di ogni forma di agevolazione (comma 1) e da una scriminante inapplicabile alle condotte di agevolazione dell’ingresso (comma 2), lascia ben intendere la volontà del legislatore di ricomprendere nelle ampie maglie del favoreggiamento ogni condotta di assistenza, anche quando fornita a minori affidati.
Dato il carattere vincolante della sentenza, la questione si porrà d’ora in poi anche per tutti gli altri Stati membri, che, dinnanzi a situazioni analoghe a quelle del caso Kinsa – ossia l’aiuto all’ingresso di un minore del quale si è affidatari – dovranno valutare l’adeguatezza delle proprie scriminanti (se presenti) o disapplicare la norma incriminatrice.
Seppure, come abbiamo già detto, l’esito è sicuramente apprezzabile, la scelta dalla Corte di procedere con una interpretazione conforme attutisce molto l’impatto della decisione. L’immutabilità del quadro normativo europeo si rifletterà sul diritto italiano dove, in assenza di un (forzato) intervento del legislatore quantomeno sulla formulazione o sul carattere obbligatorio della scriminante, altre ipotesi di favoreggiamento meritevoli di esclusione dall’area applicativa dell’art. 12 (es. l’assistenza umanitaria fornita dalle ONG, ovvero l’assistenza fornita a familiari non minorenni) continueranno a ricadervi.
Difficilmente simili cambiamenti arriveranno su iniziativa degli Stati. Infatti, anche a fronte delle evidenti criticità dell’art. 12 – in punto di sproporzione sanzionatoria, di inadeguatezza della scriminante umanitaria, nonché di equiparazione delle eterogenee condotte ritenute penalmente rilevanti – già da tempo oggetto di puntuali e condivisibili osservazioni in dottrina (per tutti, S. Zirulia, Non c’è smuggling senza ingiusto profitto), il legislatore italiano si è sempre mostrato restìo a ogni revisione della disciplina del favoreggiamento, forte della sua conformità alla cornice europea. In questi termini, forse, può parlarsi di un’occasione persa.
In conclusione, nel considerare la rilevanza delle riflessioni giurisprudenziali in un settore tanto delicato, è opportuno richiamare la sentenza n. 63 del 2022 della Corte costituzionale italiana, intervenuta – proprio nel contesto del caso Kinsa – sulle criticità dell’art. 12 del Testo Unico sull’Immigrazione. La Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del comma 3, lett. d), nella parte in cui configurava come circostanze aggravanti speciali l’utilizzo di servizi internazionali di trasporto, nonché l’uso di documenti contraffatti, alterati o comunque acquisiti illegalmente (v. in proposito il commento di A. Spena). A giudizio della Corte, l’inasprimento sanzionatorio derivante da tali previsioni violava il principio di proporzionalità della pena, desumibile dal combinato disposto degli artt. 3 e 27, comma 3, della Costituzione. Merita particolare attenzione la critica strutturale espressa dalla Corte alla formulazione della norma, la quale finiva per accomunare, sotto un medesimo regime repressivo, condotte eterogenee per gravità e intensità dell’offesa, dal traffico a fini di lucro fino all’aiuto umanitario o familiare. Una simile equiparazione, tanto sul piano della rilevanza penale quanto su quello del trattamento sanzionatorio, si pone in contrasto con i principi fondamentali dell’ordinamento, imponendo una riflessione più attenta sulla funzione del diritto penale in materia di immigrazione.